Introduzione
Noi ragazzi della 1^C della Scuola Saltini di Oreno di Vimercate, con la docente di Italiano Schilirò,
quando abbiamo studiato il genere “leggenda”,
abbiamo cercato nelle conoscenze familiari e in rete
alcune leggende sul cibo.
A completare il lavoro, abbiamo poi aggiunto le ricette,
così da poter realizzare ciò che si legge.
Abbiamo quindi pensato di realizzare un piccolo libro,
che speriamo vi sia utile
e vi regali qualche momento di serenità.
Naturalmente si comincia con la patata di Oreno…
Buona lettura e buon divertimento!
La 1^C
LA SAGRA DELLE PATATE DORATE
di Andrea Ieva
All’inizio del novecento, nel borgo antico di Oreno, nel cuore della Brianza, viveva un caro signore, contadino, di nome Giuseppe.
Giuseppe, come moltissime persone del luogo, coltivava una piantagione di patate, gialle e viola, che vendeva al mercato settimanale.
Tutti gli anni allestiva anche un gazebo alla sagra del paese. Un giorno, mentre il contadino lavorava nel suo orto, notó che in un angolo fiorivano delle piante di tuberi. Ma era successo qualcosa di strano: erano nati dei fiori bellissimi e coloratissimi. Si avvicinò e incredulo estirpo’ una piantina. Notò subito che sotto di essi erano cresciute delle patate piccole e perfettamente tonde, di colore oro perlato. Capì subito che erano pregiate e rarissime così, al mercato del paese ebbe grande successo. Una fila di clienti lunghissima attendeva pazientemente di poterle comprarle. Giuseppe, diventò ricco e famoso in tutta la Brianza.
GNOCCHI CON LA PATATA “BIANCONA” DI ORENO
INGREDIENTI
1000 g di patate di Oreno, 250 g di farina, sale e noce moscata qb.
PREPARAZIONE
Mettere le patate ben lavate ma non pelate in acqua fredda non salata, lessarle senza che rimangano parti poco cotte, pelarle, passarle allo schiacciapatate. Salare e, se vi piace, profumare con noce moscata. Incorporare la farina e lavorare su un piano infarinato fino a ottenere un impasto compatto e consistente ma morbido. Ricavare dei rotolini grossi quanto un dito da tagliare a pezzetti regolari che andranno fatti rotolare sulla farina sparsa sul piano di lavoro per evitare che si appiccichino. Volendo, si può passarli a uno a uno sui denti di una forchetta o sul retro di una grattugia. Deporre gli gnocchi su un canovaccio infarinato e lasciarli asciugare almeno un’ora. Cuocere gli gnocchi gettandoli in acqua salata in forte ebollizione e ritirandoli con il mestolo forato a mano a mano che vengono a galla.
LA LEGGENDA DEL KAISERSCHMARRN
di Riccardo Brioschi
Il Kaiserschmarrn è una sorta di frittata dolce. Un tipico dolce austriaco, una via di mezzo tra una crepe ed un pancake, lo strato è più spesso e una volta cotto viene tagliato a striscioline e poi cosparso con zucchero a velo e accompagnato da confettura di ribes o di mirtilli. Questo dessert è molto diffuso anche in Trentino Alto Adige.
Il suo nome significa letteralmente “frittata dell’imperatore” e questo perché la leggenda della nascita del Kaiserschmarrn è legata ad un aneddoto legato all’Imperatore d’ ‘Austria Francesco Giuseppe. Si narra che una sera l’imperatore chiese di preparare al suo cuoco una crepes, ma lui per errore la fece cuocere troppo e girandola la ruppe. Non avendo tempo per rifarla, per rimediare decise di tagliarla a pezzettini e cospargerla di zucchero per nascondere le parti troppo cotte. All’imperatore piacque così tanto il nuovo piatto che da allora, volle che le sue crepes fossero preparate sempre in quel modo, da lì quindi il suo nome
La ricetta del Kaiserschmarrn
Ingredienti:
- 50 gr di zucchero
- 3 uova
- 120 gr di farina 00
- 220 ml di latte
- 1 pizzico di sale
- 30 gr di burro
- marmellata di mirtilli rossi
- zucchero a velo
Preparazione:
Separate gli albumi dai tuorli e sbattete questi ultimi con lo zucchero con una frusta; aggiungete la farina e il sale e mescolate; unite lentamente il latte a filo continuando a mescolare.
Infine aggiungete anche gli albumi precedentemente montati a neve ferma e amalgamate lentamente con una spatola, con un movimento dal basso verso l’alto.
Fate sciogliere un bel pezzo di burro in una padella antiaderente dal fondo spesso, ben calda (una da circa 26-28 cm dovrebbe andare bene). quindi Versate metà del composto nella padella e fate cuocere bene a fuoco medio-basso.
Quando i bordi inizieranno a dorarsi girate il Kaiserschmarrn aiutandovi con due spatole: non preoccupatevi se dovesse rompersi, tanto dopo dovrete tagliarlo a straccetti.
Quando anche il secondo lato sarà dorato, tagliatelo a straccetti con una spatola, poi mettete da parte, aggiungete un’altra noce di burro e procedete con il composto restante.
Servite il Kaiserschmarrn nei piatti spolverizzando con abbondante zucchero a velo e accompagnando con marmellata di mirtilli rossi a piacere.
LA LEGGENDA DELLA PIZZA MARGHERITA
di Ludovico Calandra, Anna Mollichelli e Darius Nitu
Nel 1889 il re Umberto l e la regina Margherita trascorsero l’estate a Napoli nella reggia di Capodimonte, sia perché lo voleva una regola della monarchia, sia per fare atto di presenza nell’antico Regno delle Due Sicilie.
La regina era incuriosita dalla pizza perché non l’aveva mai mangiata e ne aveva sentito parlare da alcuni scrittori o artisti ammessi a corte.
Dato che lei, però, non poteva andare in pizzeria, la pizzeria andò da lei: venne chiamato a palazzo il più noto pizzaiolo di Napoli che si trovava alla salita Sant’Anna a pochi passi da via Chiaia: Don Raffaele, della Pizzeria Brandi.
Don Raffaele andò e preparò le pizze utilizzando i forni delle cucine reali; non era solo, ma era assistito da sua moglie Rosa, che poi, in realtà, era la vera maestra, la vera autrice delle pizze che furono presentate ai sovrani. Prepararono tre pizze: la prima con sugna (che è una sorta di strutto), formaggio e basilico, la seconda con aglio, olio, e pomodoro e la terza con mozzarella, pomodoro e basilico, gli ingredienti con i colori della bandiera italiana.
Entusiasmò in particolare la regina Margherita la terza pizza, non solo per motivi patriottici ma anche perché la trovò molto buona.
Don Raffaele, da bravo uomo, colse l’occasione e chiamò questa pizza “alla Margherita”, in onore della regina.
Il giorno dopo la mise in lista al suo locale ed ebbe innumerevoli richieste.
Noi oggi non chiamiamo più questa pizza “alla Margherita” ma diciamo solamente “pizza Margherita”.
La ricetta originale della Pizza Margherita
Ingredienti per 1 pizza del diametro di 30 cm
Impasto:
- 100 ml circa di acqua
- 5 gr di sale
- 180 g di farina tipo 00 di media forza, con un valore compreso tra W 280 e W 320.
- 2 g di lievito fresco.
Condimento:
- Passata di pomodoro densa 500 ml circa
- Mozzarella di bufala o Fior di latte 600 gr
- 4/5 foglie di Basilico
- Olio extravergine di oliva q.b.
- Sale q.b.
Preparazione dell’impasto
In una ciotola versare tutta l’acqua e il sale, mescolando e aspettando che questo si sciolga bene, in maniera da favorire la maturazione dell’impasto. Fatto questo aggiungere una piccola quantità di farina (circa il 10% oppure utilizzate un cucchiaio) ed infine il lievito. Cominciare a girare con un mestolo fino a quando il lievito si sarà sciolto. Successivamente versare gradualmente la farina, e impastare sempre con il mestolo in modo che questa venga assorbita completamente dall’acqua. Continuare fino a quando la farina non è conclusa e completamente assorbita. Questo processo dovrebbe durare non più di 10 minuti.
Con la mano sinistra tenere ferma la ciotola (conviene sempre tenere una mano pulita, nel caso bisogna aggiungere altri ingredienti) e con la destra cominciare ad impastare. Il movimento deve essere circolare, prendere l’impasto da sotto, alzarlo, portarlo sopra e schiacciarlo con decisione (ma senza esagerare) con il palmo verso il basso. Continuare con questo movimento fino a quando la pasta si è staccata dalle pareti della ciotola (nel gergo si dice incordata).
Preparare una spianatoia infarinata, trasferirci l’impasto e continuare ad impastare con entrambe le mani, questa volta, per almeno quindici minuti. Il movimento deve essere lo stesso di quello usato nella ciotola ma fatto con due mani, non si deve mai strappare la pasta perché si rovinerebbe la maglia glutinica già formata.
Impastare fino a quando questo non assume una consistenza liscia, soffice ed elastica. Al tatto la pasta deve risultare umidiccia ma nello stesso tempo non si deve attaccare alle mani: se immergendo leggermente le dita nella pasta i fori si ricompongono piano piano allora l’impasto è pronto. Coprirlo con un panno umido e metterlo a dimora in un luogo privo di correnti di aria (il vento è il nemico numero uno, in quanto tende a seccarlo formando una crosta superficiale) e se possibile ad una temperatura compresa tra i 24 e 27 gradi centigradi.
Una volta che l’impasto è raddoppiato si può passare alla prossima fase, che consiste nel “ricompattare” l’impasto lavorandolo con entrambe le mani come se lo si dovesse reimpastare un’altra volta (solo che questa volta in modo più delicato).
Il panetto reimpastato deve lievitare per almeno altre 4 ore che possono diventare anche 6 ore nei periodi più freddi dell’inverno. Al termine del tempo, questo impasto è utilizzabile per le 6 ore successive.
Stesura della pasta
La stesura della pizza e il passaggio nel forno deve avvenire quando il panetto è sufficientemente rilassato e lievitato (il panetto fatto bene lievita più in larghezza che in altezza): esso si fa stendere senza opporre resistenza mentre un panetto poco “rilassato” tende a ritornare nella posizione iniziale quando si tenta di stenderlo (c.d. “effetto molla”).
Questo passaggio è molto importante perché oltre a dare la forma alla pizza, viene spinta l’aria contenuta nell’impasto verso il bordo (cornicione), in modo che questo aumenti maggiormente di volume e si eviti la formazione di bolle nella parte centrale.
Tale procedura andrà realizzata sempre su una spianatoia (coperta con un velo di farina) sfruttando le dita di entrambe le mani, con un movimento che dia l’idea (appunto) di spingere ai bordi l’aria contenuta nell’impasto, premendolo e ruotandolo più volte per ottenere un risultato uniforme. In questa fase non è ammesso alcuno strumento, quali mattarelli o macchina a pressa a disco.
Alla fine della stesura la parte centrale della pizza dovrà essere spessa non più di mezzo centimetro, mentre il bordo dovrà avere un’altezza compresa tra 1 o 2 cm. L’impasto è pronto per ricevere il condimento.
Preparazione della pizza e cottura
Versare la passata di pomodoro in una ciotola, e condirla con 2 cucchiaini di olio e un po’ di sale.
Cospargere il disco appena ottenuto con la passata di pomodoro, e successivamente la mozzarella tritata grossolanamente, tre foglie di basilico e infine un filo d’olio; l’olio va aggiunto utilizzando un’oliera con il becco fine: bisogna aggiungerlo con un movimento abbastanza veloce, fatto a spirale, che parta dal centro del disco.
Secondo la tradizione napoletana la pizza va cotta direttamente sul piano del forno a legna che ad una temperatura di circa 485°C per circa 90 secondi girando di tanto in tanto il disco per farlo cuocere in maniera più omogenea, cercando di mantenere la pizza sempre nella stessa zona del forno.
Anche se la tradizione napoletana non prevede (ovviamente) l’uso di forni elettrici, bisogna anche tener conto che non tutti possono avere in casa un forno a legna, per cui se si utilizza un fornetto elettrico impostare una temperatura di 250°C e cuocere la pizza per circa 10 min. Se si utilizza un forno elettrico prima di condire la pizza, sistemare la base in una teglia unta con un filino d’olio (senza esagerare) per non farla attaccare. Ricordare sempre, durante la cottura, di girare di tanto in tanto la pizza, poiché la parte posteriore del forno si scalda di più rispetto a quella anteriore (in pratica dove c’e lo sportello).
Terminata la cottura della pizza Margherita, toglietela e servite immediatamente.
Consigli e suggerimenti
Nota 1 Sappiate che usando un forno elettrico il risultato sarà buono ma non potrà essere lo stesso ottenuto con un forno a legna.
Nota 2 Per versare l’olio, i pizzaioli tradizionali utilizzano l’agliara, ossia un contenitore in rame internamente stagnato, con il becco lungo e stretto, in modo da far fuoriuscire un filo d’olio sottile e continuo.
“ZAFFERANO”
ED IL RISOTTO GIALLO
di Rebecca Cimignaghi e Ivan Zandonà
Era il settembre del 1574.
Da quasi duecento anni, ormai, erano in corso i lavori per la fabbricazione del Duomo, alle spalle si era formata una vera e propria città di baracche e porticati in cui alloggiavano marmisti, falegnami, scultori, carpentieri venuti da ogni parte d’Europa.
In una specie di cascina di quella babele multilingue, viveva una piccola comunità di belgi: Valerio di Fiandra, maestro vetraio, incaricato di portare a termine alcune vetrate con gli episodi della vita di sant ‘Elena, s’era infatti portata a Milano i più bravi dei suoi discepoli.
Uno, in particolare, spiccava negli altri per la sua straordinaria abilità nel dosare e mescolare i colori, ottenendo effetti a dir poco sorprendenti.
Il suo segreto? Un pizzico di zafferano, aggiunto con maestria all ‘impasto già pronto.
E proprio per questa sua abitudine, era stato soprannominato “Zafferano”.
Il suo nome vero quasi non lo ricordava nessuno e s’è perso nei secoli.
Il maestro Valerio, naturalmente, non era all’oscuro della mania zafferanescha del suo allievo più promettente, ma faceva sempre finta di niente, limitandosi a canzonarlo ed a ripetergli che, andando avanti così, avrebbe finito per infilare lo zafferano anche nel risotto.
Fu così che, dopo tanti anni di canzonature, il giovane decise di giocare un tiro mancino al maestro: il giorno della Madonna si sarebbe sposata la figlia di Valeri, e quale migliore occasione per spruzzare davvero un po ‘di polvere gialla nel risotto per il pranzo di nozze?
Non ci volle molto a corrompere il cuoco… Ed immaginate lo stupore di tutti i commensali quando a tavola comparve quella stranissima piramide di risotto con zafferano!
Qualcuno si fece coraggio ed assaggiò, e poi un altro, e poi un altro ancora. In una pastella d’occhio, dell’enorme montagna di risotto giallo non rimase neanche un chicco.
Il tiro mancino di “Zafferano” era decisamente andato male. In compenso, però, era nato il risotto alla milanese.
RISOTTO ALLA MILANESE
INGREDIENTI
Dosi per 4 persone
-
320 g di riso
-
60 g di formaggio grattugiato
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60 g di burro
-
20 g di midollo di vitello
-
1 litro e 1/2 di brodo di carne
-
1 cipolla piccola
-
1 bustina di zafferano
PROCEDIMENTO
In una larga casseruola lasciate fondere 30 grammi di burro con il midollo, aggiungete la cipolla tritata finemente e, a fiamma bassissima, fatela diventare trasparente. Unite il riso, mescolatelo in modo che, assorbendo il condimento, diventi lucido. Quindi portatelo a metà cottura versandovi ogni tanto un mestolino di brodo bollente, se il precedente è stato assorbito. A questo punto aggiungete lo zafferano sciolto con uno o due cucchiai di brodo tiepido e terminate di cuocere aggiungendo, come sempre, un mestolo di brodo alla volta. Il risotto deve rimanere “all’onda”, quindi fate attenzione all’ultima quantità di brodo che aggiungete. Non salate, è importante che il brodo lo sia sufficientemente.
Togliete dal fuoco, mantecate il risotto con il restante burro e insaporitelo con il parmigiano grattugiato. Coprite e dopo alcuni minuti trasferitelo sul piatto da portata caldo. Servitelo subito.
LEGGENDE SUL RISO
di Francesco Crippa
CINA
Una leggenda cinese racconta che tanto tempo fa, durante una carestia, il buon Genio della campagna cercando disperatamente di salvare il popolo affamato, sacrificò tutti i suoi denti, disperdendoli in una palude. L’acqua trasformò i denti in semi che divennero piante i cui frutti, somiglianti dalla brillantezza, ai denti dello spirito benefico, erano migliaia di chicchi di riso. Da allora il popolo non soffrì più la fame e da qui nacque l’usanza di gettare il riso agli sposi per augurare abbondanza, prosperità e fertilità. Un proverbio cinese dice: “Mangia il tuo riso al resto penserà il cielo”.
INDIA
Il dono del riso viene affidato al dio Gava Shiva. Las fanciulla da lui amata, Retna Dumilla gli chiese, in cambio del suo amore un cibo che non desse mai nausea e saturazione. Il dio stanco di aspettare prese la ragazza con la forza ma essa si suicidò gettandosi in un fiume. Dopo quaranta giorni dalla tomba di Retna fuoriuscì uno strano splendore dal quale spuntò una pianta di riso il dio affermò: “all’interno di questa pianta si conserva l’animo della mia amata. Quel che è nato dal suo ventre è chiamato riso. Amico gardiano distribuisci i suoi semi agli uomini perché da ora in poi gli servirà da cibo”. Shiva pose una piantina sulla sua tomba da cui germogliarono migliaia di chicchi bianchi che si sparsero per tutta la terra.
VIETNAM
In Vietnam si racconta che un re morente impose ai figli di andare alla ricerca del piatto “più buone” adatto ad un sovrano in modo da regalarlo agli antenati una volta nell’aldilà le proposte dei figli non furono gradite e il più giovane invoco l’aiuto del suo genio protettore. Il genio gli consigliò di usare il riso, il simbolo del cielo e della terra e di unirlo alla carne simbolo degli uomini. Il piatto presentato a forma di torta tonda come in cielo e quadrata come la terra e avvolta in un una foglia di banana piacque così tanto al re che fece diventare il figlio successore al trono (questo piatto si chiama BANH CHUNG il piatto tipico vietnamita).
BANH CHUNG
Ricetta del piatto tipico vietnamita
Sciacquate il riso e lasciatelo bollire in abbondante acqua salata per circa 15 minuti. Mettete a bagno i fagioli per circa due ore in acqua tiepida e poi cuoceteli per circa 30 minuti a partire dal bollore. Scolateli e frullateli in modo da creare una purea: passatela al setaccio in modo da eliminare le bucce. Regolate di sale e di pepe.
In una padella fate appassire la cipolla tritata finemente con dell’olio, aggiungete il macinato di carne e cuocete per circa 10 minuti fino a che non inizia a dorarsi. Unite la carne al composto di fagioli e mescolate.
Stendete le foglie di banano, adagiate uno strato di riso, mettete al centro il ripieno a base di carne e fagioli e arrotolate il tutto creando dei fagottini che chiuderete con dello spago.
Portate a bollore una pentola con abbondante acqua salata e immergete ciascun fagottino per pochi minuti. Scolateli, e lasciateli raffreddare prima di servire.
LA LEGGENDA DEL PANDORO
di Nicolò Fumagalli
La leggenda narra che, vicino alla bellissima città di Verona, a un bambino di nome Giovanni non piacevano le uvette e l’impasto del panettone. Un giorno il bambino escogitò una bellissima e geniale idea. ”Provo a fare un impasto molto più squisito e a togliere le uvette dal panettone”.
Giovanni lo disse ai suoi genitori che apprezzarono l’ idea del loro bambino.
Tutto filava liscio fino a quando Giovanni si accorse che non sapeva fare un impasto quindi chiese un aiutino a sua nonna che era una eccellente cuoca ma, soprattutto, era bravissima a cucinare dolci di ogni genere. Giovanni confidò l’ idea alla nonna che, felice della proposta del nipote decise di aiutarlo.
I due si incontrarono alla casa della nonna. Cominciarono a preparare l’ impasto e successivamente lo misero nel forno. Iniziarono a dare una forma simile a quella del panettone da cui avevano preso spunto per tutto il tempo. Il risultato finale fu una meraviglia. Appena Giovanni lo vide pronto disse ”Sembra un pane dorato”. I due lo mangiarono sempre come dolce fino a quando la nonna entrò a far parte di una competizione di dolci. La nonna portò ai severissimi giudici il pane dorato e disse ”questo si chiama pandoro”. Il pandoro piacque a tutti e dal quel giorno, a Natale, è diventato uno dei dolci più mangiati.
LA RICETTA DEL PANDORO FATTO IN CASA
Ingredienti
Per il lievitino:
- 70 g di farina manitoba (o altra farina forte)
- 12 g di lievito di birra fresco ( o 4 g di lievito essiccato in polvere)
- 10 g di zucchero semolato
- 100 ml di latte intero a temperatura ambiente
Per l’impasto:
- 200 g di farina manitoba (o altra farina forte)
- 200 g di farina “0”
- 2 uova medie intere (100 g circa)
- 3 tuorli d’uovo
- 150 g di burro a temperatura ambiente più altro burro per impastare
- 140 g di zucchero semolato
- 50 ml di acqua a temperatura ambiente
- scorza grattugiata di 1 limone non trattato
- scorza grattugiata di 1 arancia non trattata
- 2 cucchiaini di estratto di vaniglia (o i semi di 1 bacca)
- 5 g di sale fino
Per decorare:
- zucchero a velo vanigliato
Preparazione
Preparate il lievitino: nella planetaria o nell’impastatrice sbriciolate il lievito di birra, aggiungete lo zucchero e mescolate con un cucchiaio in legno fino a quando il lievito si scioglie completamente.
Versate il latte a temperatura ambiente e la farina, mescolando fino ad ottenere un composto abbastanza liquido.
Coprite con pellicola trasparente e lasciate lievitare per 40 minuti in forno spento con luce accesa.
Quando il lievitino sarà raddoppiato di volume aggiungete le farine, le uova e i tuorli, azionate l’impastatrice con il gancio, per 6-7 minuti a velocità media.
Aggiungete lo zucchero, gradualmente in 5-6 riprese, deve incorporarsi bene all’impasto.
Con l’impastatrice sempre in azione aggiungete anche il burro, un cubetto alla volta, aspettate che ogni cubetto si amalgami all’impasto prima di aggiungere quello successivo, potrebbero volerci anche 15 minuti.
Versate l’estratto di vaniglia e le scorze grattugiate del limone e dell’arancia, quando si sono distribuiti gli aromi nell’impasto spegnete l’impastatrice.
Imburrate un piano di lavoro, possibilmente in acciaio o in marmo, mettete l’impasto sulla spianatoia e piegatelo su se stesso per 4-5 volte.
Imburrate bene una ciotola, possibilmente con il coperchio e riponete l’impasto.
Chiudete il coperchio (o coprite con pellicola), fate lievitare l’impasto per tutta la notte nel forno spento.
L’indomani imburrate la spianatoia, togliete il coperchio e capovolgete la ciotola lasciando scendere l’impasto sulla spianatoia.
Stendete l’impasto e ripiegatelo in 3, per 2 volte.
Pirlate l’impasto, spostandolo delicatamente con entrambe le mani sulla spianatoia.
Imburrate bene lo stampo da pandoro da 1 kg e mettete dentro l’impasto.
Lasciatelo lievitare in forno spento con luce accesa (28°C circa) per 2-3 ore, fino a quando l’impasto arriva al bordo.
Preriscaldate il forno in modalità statica a 180°C.
Quando il forno arriva a temperatura infornate il pandoro nella parte più bassa del forno e cuocetelo a questa temperatura per 10 minuti.
Abbassate la temperatura del forno a 160°C e proseguite la cottura per altri 30 minuti.
Se a metà cottura il pandoro si scurisce troppo in superficie copritelo con un foglio di carta alluminio.
Lasciate raffreddare il pandoro per almeno 1 ora nello stampo, poi capovolgetelo sul piatto da portata e quando è completamente freddo, spolverate con zucchero a velo.
LA LEGGENDA DEI BISCOTTI
di Halima Maghjouj
Il mitico eroe Giasone, prima di partire in nave con gli argonauti alla ricerca del Vello d’Oro, ordinò al cuoco di cuocere il pane da portare in viaggio. Però il cuoco, durante l’ultima infornata, si addormentò come un sasso; quando si svegliò corse al forno temendo di aver bruciato il pane, ma invece lo trovò soltanto ridotto di volume, appiattito, secco e leggero.
Giasone lo volle caricare ugualmente in cambusa e fu fortunato, perché quello strano pane fu l’unico a non ammuffire, rimanendo buono e croccante, ottimo soprattutto da bagnare nel vino.
Così, secondo la leggenda, nacque l’antenato dei biscotti, chiamato dai latini sia Panis nauticus (la galletta dei marinai), sia Biscotus ossia “cotto due volte”.
Gli antichi Romani impararono in seguito a cuocere biscotti dolci; il buccellatum e la offa, da cui deriva il termine ormai raro e desueto di “offella”; di biscotti parlano anche lo storico Polibio (202-120 a. C.) e San Marcellino.
All’inizio del Medioevo l’arte della biscotteria si perfezionò nei conventi; i monaci di Reims, ad esempio, non divennero celebri solo per la loro bravura a copiare manoscritti, ma anche per aver inventato un’offa al miele conosciuta in tutta la cristianità.
In seguito nacquero botteghe artigiane laiche; sempre il Medioevo vedrà una serie di furibonde polemiche tra le corporazioni dei Panettieri e dei Pasticceri che pretendevano ciascuno di avere il monopolio esclusivo per la fabbricazione dei biscotti.
Nel 1300 nacquero i famosi savoiardi: furono i cuochi del re Aimone di Savoia, detto il Pacifico, ad inventare la “savoiarda”, una pasta porosa a base di farina, uova e miele.
LA RICETTA DEI SAVOIARDI
Ingredienti:
- FARINA 140 gr
- UOVA 4
- FECOLA DI PATATE 25 gr
- ZUCCHERO 140 gr
- VANILLINA 1 bustina
- SALE 1 pizzico
Preparazione:
Preparate una meringa con gli albumi delle quattro uova e con 100 g dello zucchero a disposizione: iniziate a montare gli albumi con un pizzico di sale e quando inziano a schiumare aggiungete lo zucchero poco alla volta.
Quando avrete raggiunto una montata sostenuta, mettetela da parte.
Montate, ora, i tuorli con lo zucchero rimanente ovvero 40 g e lavorate fino a che non siano chiari e spumosi.
Setacciate la farina, la fecola e la vanillina.
Incorporate un po’ di meringa al tuorlo montato per far si che i due composti inizino ad amalgamarsi, quindi aggiungete la meringa rimanente mescolando dal basso verso l’alto per non smontare il composto.
A questo punto incorporate gli ingredienti secchi sempre mescolando molto delicatamente dal basso verso l’alto.
Trasferite il composto in una sac à poche ed iniziate a formare i savoiardi direttamente sulla teglia ricoperta di carta forno.
Abbiate cura di distanziarli l’uno dall’altro per evitare che si attacchino in cottura.
Spolverizzate con lo zucchero semolato o con lo zucchero a velo; infornate a forno statico a 200°C per 10 minuti.
Una volta cotti, fateli freddare e portateli in tavola come accompagnamento ad un buon caffè. Sono ottimi anche come colazione la mattina.
LA LEGGENDA DELLA POLENTA
di Jacopo Novello
Si dice che tanto tempo fa in una grande fattoria in provincia di Cuneo, sotto le Alpi occitane, vivevano cinque famiglie di contadini.
Ognuna gestiva una parte della fattoria ed erano molto legati fra di loro. Si aiutavano nei lavori e nei casi di urgenza, si prestavano le attrezzature e, alcune, le acquistavano in comune.
Insomma, tra loro regnava uno spirito di fratellanza e solidarietà e la fattoria era prosperosa.
Le loro origini erano diverse: una famiglia proveniva da Alessandria, una dal Veneto, una dall’Astigiano, una dal Torinese e una era del luogo.
Ogni anno il proprietario, nobile cittadino torinese, si recava in fattoria a verificare il buon andamento dei suoi interessi.
Durante l’ultima visita comunicò ai fattori e ai suoi contadini che il Natale successivo avrebbe fatto una grande festa ospitando, personaggi illustri e altolocati, ma anche buongustai, amanti soprattutto della buona polenta. Per cui raccomandava che tutto fosse preparato nel migliore dei modi, soprattutto la polenta che era il piatto centrale
Le aspettative del padrone innervosirono i contadini, che litigarono per la scelta della miglior farina per cucinare la polenta.
Incominciarono le discussioni e i litigi, fino a che decisero che ogni famiglia si sarebbe coltivata il suo mais e avrebbe offerto, separatamente, la sua polenta agli invitati.
Prepararono cinque appezzamenti vicini, tutti coltivati a mais da polenta ma ognuno di varietà diversa: uno coltivava un mais alessandrino, uno di origine torinese, uno che proveniva dall’astigiano, uno del posto e uno il mais bianco del Veneto.
Il diavolo osservava maligno e divertito la piccolezza umana e per divertirsi ancora di più, una notte, quando il mais era bello fiorito, cominciò a soffiare così tanto da creare un vento impetuoso che investi i 5 appezzamenti.
L’intenzione era quella di mischiare i pollini dei fiori in modo che le varietà si incrociassero e si imbastardissero creando del mais impuro che fosse improponibile e che portasse scompiglio nella fattoria.
Nessuno dei cinque mezzadri si accorse del vento perché questo si abbatté, incredibilmente, solo su quei 5 pezzi coltivati. Da altre parti no.
Venne il giorno della raccolta e della successiva spannocchiatura. Successe il finimondo: il mais aveva forme strane e colori diversi. Un miscuglio che mandò nella disperazione le cinque famiglie.
Ormai era tardi. Appesero quel mais ad asciugare, lo sgranarono e lo macinarono tutto insieme. Se non altro quel disastro aveva riavvicinato le famiglie e decisero di affrontare uniti l’evento.
Arrivò il Natale e preparano la polenta con quella farina. Il risultato fu straordinario. Gli ospiti rimasero stupiti per la bontà della polenta piacque tanto che fu richiesto il bis per il giorno dopo.
LA RICETTA DELLA POLENTA
Ingredienti:
- farina di mais 500g
- olio extra vergine d’oliva 15g
- acqua 2l
- sale grosso 1 cucchiaio
Il procedimento
Per realizzare la polenta sul fuoco una pentola d’acciaio dal fondo spesso, versate i 2 litri d’acqua; quando l’acqua sta per sfiorare il bollore, unite il sale, quindi versate la farina a pioggia mescolando con un cucchiaio di legno (o con l’apposito bastone di nocciolo detto tarello), mantenete la cottura ad alta temperatura mescolando velocemente. Aggiungete anche l’olio di oliva che servirà per evitare la formazione di grumi, continuate a mescolare attendendo che riprenda il bollore, quindi abbassate il fuoco al minimo e proseguite con la cottura per 50 minuti a fuoco dolce mescolando di continuo, avendo cura di non farla attaccare al fondo. Trascorsi i 50 minuti la polenta è pronta; alzate il fuoco in modo da farla staccare bene dalla pentola, attendete di vedere che si stacchi bene dal fondo.
Ora capovolgete con attenzione il tegame su un tagliere rotondo poco più grande del diametro del tegame per sformare la polenta. La vostra polenta è pronta per essere portata in tavola!
La conservazione
La polenta si può conservare in frigorifero chiusa in contenitore ermetico per al massimo 3-4 giorni.
LA LEGGENDA DEL TORTELLINO BOLOGNESE
(L’ombelico di Venere)
di Francesca Pacco
La leggenda narra che una sera, nel 1200, gli dei Bacco, Marte e Venere, si fermarono nella locanda Corona di Castelfranco Emilia per riposare.
Il mattino seguente, di buon’ora, Bacco e Marte si allontanarono dalla locanda, lasciando Venere riposare.
Quando Venere si svegliò, vedendosi sola nella stanza della locanda, chiamò i suoi compagni di viaggio.
Purtroppo, Bacco e Marte non c’erano e, al loro posto, si presentò l’oste della locanda.
Alla vista di Venere, così bella e così perfetta in ogni sua forma, l’oste ne rimase così meravigliato che, ispirato da tanta bellezza, scese di corsa in cucina e iniziò a tirare la sfoglia per la cena.
Il pensiero era sempre fisso sull’ immagine perfetta vista poco prima!
Decise dunque di riprodurre con la sfoglia l’ombelico della dea. Riempì i pezzetti di sfoglia con la carne e diede la forma dell’ombelico, creando quindi il primo tortellino ripieno!
Ricetta dei tortellini
Ingredienti:
Per la pasta all’uovo:
– 4 uova
– 400 gr di farina
Per il ripieno:
– 80 gr di carne trita di maiale
– 80 gr di carne trita di vitello
– 50 gr di mortadella
– 50 gr di prosciutto crudo
– 200 gr di formaggio grattugiato
– 1 uovo
– sale e pepe
– noce moscata
Preparazione:
Per prima dovrete preparare l’impasto per la pasta fresca: rompete le uova in una ciotola e aggiungeteci la farina. Mescolate prima con una forchetta e poi direttamente con le mani. L’impasto sarà pronto quando sarà liscio ed omogeneo: fate quindi una palla, avvolgetela nella pellicola e lasciate riposare la pasta all’uovo per un paio di ore.
Mentre la pasta fresca riposa potete preparare il ripieno per i tortellini: fate rosolare le due tipologie di carne trita in una padella con un filo di olio. Mettete quindi nel mixer la carne cotta e aggiungeteci tutti gli altri ingredienti: tritate tutto in modo da ottenere un vero impasto.
Quando la pasta sarà pronta per essere lavorata, stendetela: potete usare una macchina oppure stenderla con il mattarello, l’importante è che otteniate delle sfoglie sottili e omogenee. Una volta stesa la pasta, ritagliatene dei quadrati di circa 4-5 centimetri.
Posizionate al centro di ciascun quadrato un po’ di ripieno: aiutatevi con un cucchiaino per compiere questa operazione. A questo punto arriva la parte più delicata: la chiusura dei tortellini. Piegate in due il quadrato di pasta in modo da formare un triangolo: per sigillare bene la pasta inumiditela leggermente e premete leggermente lungo gli angoli.
Posizionate quindi il triangolo di pasta sul dito indice con la base del triangolo rivolta verso la punta del dito: ripiegate quindi gli angoli esterni in modo che avvolgano il dito, inumiditeli e pressateli leggermente. Estraete delicatamente il tortellino dal dito e piagate verso l’esterno l’ultimo angolo del triangolo.
Armatevi di pazienza, e ripete l’operazione con tutti i vostri tortellini: quando vi sentirete un po’ stanchi ricordatevi del figurone che farete!
LA LEGGENDA DELLE POLPETTE CAC’E OVE
(CACIO E UOVA)
di Leandro Papuli
Le polpette cac’e e ove sono un’ eccellenza della tradizione abruzzese.
Le storie che si tramandano oralmente raccontano che, durante la II Guerra Mondiale, a causa dei saccheggi, si nascondeva il formaggio, qualche uovo e il pane sotto le travi del pavimento o dietro i mattoni dei muri, ingredienti che le donne trasformavano in questa delizia.
Dopo la guerra hanno continuato a cucinare questo piatto.
Alcuni storici pensano che le polpette cac’e e ove abbiano anche ispirato gli spaghetti alla Carbonara.
LA RICETTA DELLE POLPETTE CAC’E OVE
INGREDIENTI:
200gr di formaggio pecorino stagionato, 150gr di mollica di pane casareccio, 2 uova, 1 cucchiaio di prezzemolo tritato, 500g r di pomodori maturi, 1 cipolla piccola, sale q.b.,
1 mazzetto di basilico, 1 spicchio d’aglio, olio e.v.o. q.b., olio per friggere q.b.
PREPARAZIONE:
Assemblare le uova, il formaggio grattugiato, la mollica del pane ammollata in acqua e strizzata, l’aglio e il prezzemolo tritati finemente, impastare fino a ottenere un composto morbido e omogeneo per formare delle polpette delle dimensioni che preferite. Far scaldare abbondante olio per friggere in un tegame o in una padella dai bordi alti e, quando ha raggiunto i 170°, friggere le polpette fino a quando non raggiungono un bel colore bruno dorato. A quel punto, scolare sulla carta da cucina e lasciar riposare. Nel frattempo
tagliare la cipolla finemente e farla appassire in un paio di cucchiai di olio e.v.o., unire i pomodori lavati, pelati e tagliati a pezzetti e qualche foglia di basilico. Aggiustare di sale e mettere le polpette fritte, facendole cuocere e insaporire per 20 minuti. Nel caso cui il sugo tenda da addensarsi troppo, aggiungere qualche cucchiaio di acqua calda.
LA LEGGENDA DELLA POLENTA DEL DIAVOLO
di Giorgia Perego
Si racconta che tanto tempo fa in un grande cascinale in provincia di Sondrio, ai piedi delle Alpi Retiche, vivevano cinque famiglie di contadini. Ognuna di esse coltivava una parte della fattoria e tra di loro erano molto solidali. Si aiutavano nei lavori agricoli e domestici, anche nei casi di emergenza; si prestavano le attrezzature, alcune le acquistavano in società. Regnava l’armonia e la cascina era prosperosa.
Le famiglie avevano origini diverse: una proveniva da Mantova, una dal Veneto, una da Varese, una da Monza Brianza e una era del luogo.
Ogni anno il fattore accompagnava il proprietario a verificare il buon andamento dei suoi interessi.
Il proprietario viveva nella città di Tirano ed era nobile; aveva un carattere severo ma buono. Era un uomo sulla sessantina, dallo sguardo burbero ma il suo viso colorito lo rendeva simpatico.
Quell’anno il proprietario comunicò al fattore e ai suoi contadini che a Natale avrebbe fatto una grande festa, nella cascina, avrebbe invitato personaggi illustri e nobili, ma anche buongustai, amanti soprattutto della buona polenta. Per cui raccomandò a tutti che la cascina, il cibo e soprattutto la polenta fossero preparati nel miglior modo possibile.
Tra le famiglie della cascina iniziarono i nervosismi per la preparazione della polenta. Ogni famiglia si era portata, dal proprio territorio, il mais che usava per preparare il tipico piatto e ognuna diceva che la sua polenta era la più buona e che sarebbe sicuramente piaciuta di più.
Iniziarono così le discussioni e i litigi, decisero quindi che ogni famiglia avrebbe coltivato il suo mais e avrebbe offerto, separatamente, la sua polenta agli invitati.
Prepararono cinque appezzamenti vicini, tutti coltivati con semi di mais da polenta ma ciascuno di varietà diversa: uno coltivava un mais mantovano, uno di origine varesino, uno che proveniva dall’Alta Brianza, uno del posto e uno il mais bianco del Veneto.
Il diavolo osservava maligno e divertito la piccolezza umana e per divertirsi ancora di più, una notte, quando il mais era bello fiorito, cominciò a soffiare così tanto da creare un vento impetuoso che investi i cinque appezzamenti.
L’intenzione del diavolo era quella di mischiare i pollini dei fiori in modo che le varietà si incrociassero creando del mais impuro che fosse improponibile e che portasse disordine e discordia nella fattoria.
Nessuno dei membri delle cinque famiglie si accorse del vento perché questo si abbatté, incredibilmente, solo sui cinque pezzi di terra coltivati e non da altre parti.
Venne il giorno della raccolta e della successiva spannocchiatura. Successe il finimondo: il mais aveva forme strane e colori diversi. Un miscuglio che mandò nella disperazione le cinque famiglie.
Ormai era tardi. Appesero quel mais ad asciugare, lo sgranarono e lo macinarono tutto insieme. Se non altro quel disastro aveva riavvicinato le famiglie che decisero nella disgrazia di affrontare uniti l’evento.
Arrivò il Natale e preparano la polenta con quella strana farina. Il risultato fu straordinario. Gli ospiti rimasero soddisfatti dalla bontà della polenta tanto che chiesero il bis.
E’ proprio vero che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi ed è ancor più vero che non è sempre la razza a far la bontà!
LA RICETTA DELLA POLENTA
INGREDIENTI
- 350 g di farina gialla
- 1 l e 1/4 d’acqua
- sale
PROCEDIMENTO
Portate a bollore l’acqua con un po’ di sale, tenete un’altra pentola di acqua bollente di scorta.
Fate scendere a pioggia la farina, mescolando sempre nello stesso senso per evitare la formazione di grumi.
Portate a cottura, sempre mescolando, per circa quarantacinque minuti. Se la polenta diventa troppo solida aggiungete dell’acqua calda leggermente salata.
LA LEGGENDA DELLA PASTA ALLA CARBONARA
di Alessandro Perfettibile
La pasta alla carbonara ha molte leggende, ma quasi tutte spiegano solo il suo nome, per esempio si dice che i minatori quando andavano in miniera potevano portare solo del cibo specifico che non era fresco, cioè la pasta, le uova, il guanciale e il pecorino e così nacque la pasta alla carbonara appunto per i carbonai in miniera; però il pepe si aggiunse dopo perché quando i minatori mangiavano il piatto qualche volta cadeva qualche granello di carbone e così venne l’idea di inserire il pepe.
La ricetta della pasta alla carbonara
Ingredienti:
-
2 uova
-
500g di spaghetti
-
200g di guanciale
-
100g di pecorino grattugiato
-
sale grosso Q.B
-
una spolverata di pepe
-
mettere a bollire l’acqua.
-
tagliare il guanciale a strisce di 1cm e metterlo in una pentola antiaderente e rosolarlo per 15 minuti a fiamma media.
-
mettere il sale e buttare gli spaghetti nell’acqua e cuocerli per il tempo indicato sulla scatola.
-
versare le uova in una ciotola e aggiungere la maggior parte del pecorino (non tutto)
-
mettere un po’ di pepe nei tuorli e amalgamare tutto e inserire un cucchiaio d’acqua per diluire e mescolare
-
quando il guanciale sarà giunto alla cottura bisogna metterlo da parte, scolare la pasta direttamente nel tegame con il guanciale, saltarla brevemente per insaporirla, togliere dal fuoco e versare il composto di uova e pecorino nel tegame. Mescolare velocemente per amalgamare.
LA LEGGENDA DI COTECHINO E LENTICCHIE
di Arianna Pinna
È un rito a cui è quasi impossibile sfuggire. Da una parte c’è un salume italiano molto gustoso e tutt’altro che light, dall’altra il primo legume coltivato nella storia. C’è chi tira in ballo l’episodio delle lenticchie tra Esaù e Giacobbe dell’Antico Testamento, ma la presenza fissa della lenticchia a tavola dopo la mezzanotte del 31 dicembre si deve ai Romani che lo consideravamo un investimento per il futuro, quindi avevano l’abitudine di regalare una scarsella (borsa di cuoio) piena di lenticchie l’ultimo giorno dell’anno, nella speranza che si trasformassero in monete. Visto che erano assediati, Pico della Mirandola chiese di macellare quei pochi maiali che erano rimasti nelle stalle, mettendo la carne nelle zampe e la cotenna con tante spezie. Il ripieno non differisce per lo zampone, anche se è diverso dal cotechino all’apparenza. È fatto di carne di maiale magra e grassa, macinata in maniera grossolana e unita alla cotenna dell’animale, che viene tritata finemente. Tutto viene aromatizzato con pepe, noce moscata e chiodi di garofano, ma c’è chi aggiunge cannella e vino. La differenza è nell’involucro: la zampa di maiale per lo zampone, il budello per il cotechino. Se il zampone è più calorico, in quanto la cotenna della zampa rilascia grasso in fase di cottura, non scherza neppure il cotechino. Non c’è un motivo specifico per il quale vengono serviti insieme alle lenticchie, ma è una tradizione che ormai si rinnova anno dopo anno con l’auspicio di un anno nuovo più generoso dal punto di vista economico. Considerando l’annata che sta per andare in archivio, anche i più scettici potrebbero pensare di assaporare cotechino (o zampone) e lenticchie a Capodanno. E’ una tradizione diffusa un po’ in tutta Italia: mangiare lenticchie il primo dell’anno porterebbe soldi e fortuna per tutto l’anno. Per questa ragione il gustoso legume, in abbinamento a zampone, cotechino o salsiccia, non manca mai sulle tavole italiane per il cenone del 31 dicembre. Da dove nasce la tradizione della lenticchia e la sua fama di portare fortuna? Non lo sappiamo per certo, ma sicuramente la lenticchia è uno dei legumi più antichi del mondo, conosciuta fin dai tempi degli antichi romani, fin dal 7.000 A.C . Molto diffusa nell’Antica Roma anche l’usanza di regalare all’inizio dell’anno la “scarsella”, una borsina di cuoio che poteva essere legata in vita e che conteneva proprio le lenticchie, di cui era bene fare scorta: durante l’inverno infatti erano un prezioso serbatoio di vitamine e proteine. Poi c’è l’aspetto della lenticchia, che in effetti può ricordare una monetina: quanto allo zampone e al cotechino, sono indubbiamente simbolo di benessere e abbondanza, soprattutto nei tempi antichi dove la carne era molto meno diffusa di oggi.
LA RICETTA DEL COTECHINO CON LE LENTICCHIE
INGREDIENTI:
- un cotechino artigianale da 700 g
- 200 g di lenticchie secche ammollate
- 2 scalogni
- 1 gambo di sedano
- 1 carota piccola
- un cucchiaio di concentrato di pomodoro
- una foglia di alloro
- aglio
- vino rosso
- olio extravergine di oliva
- sale
Per la ricetta del cotechino e lenticchie, risciacquate il cotechino in acqua fredda e, se la pelle fosse molto spessa o secca, lasciatelo in ammollo per 30’ per ammorbidirla. Asciugatelo con la carta da cucina, quindi bucherellatelo su tutta la superficie in modo che la pelle non scoppi in cottura, favorendo la penetrazione dell’acqua nella carne.
Avvolgetelo in un canovaccio, senza rimuovere, se presente, lo spago con cui è legato: così manterrà meglio la forma. Chiudete il canovaccio a fagotto e fate un nodo stretto in cima. Ponetelo in una pentola, copritelo di acqua fredda e cuocetelo per 2 ore dal bollore. Mondate la carota, il sedano e gli scalogni, tagliateli a dadini o tritateli, poi appassiteli in casseruola con 4 cucchiai di olio, 1 foglia di alloro e 1 spicchio di aglio sbucciato per 2-3’. Aggiungete le lenticchie e tostatele a fuoco vivace per 2’.
Unite il concentrato di pomodoro, sfumate con 1/2 bicchiere di vino, mescolate e fate stufare tutto a fuoco basso per 25-30’, bagnando via via con 3-4 mestoli di acqua bollente non salata. Sgocciolate il cotechino, toglietelo dal canovaccio e spellatelo da caldo. Salate le lenticchie, distribuitele su un vassoio e sistematevi sopra il cotechino, tagliato a fette spesse circa 1 cm.
COME SI E’ CREATO IL FORMAGGIO
di Yuri Presti
La leggenda del formaggio, narra che un mercante arabo, atraversò il deserto.
Portò con sé del latte, per tradizione; il latte era contenuto nello
stomaco di una pecora. Il caldo del deserto e dello stomaco
della pecora hanno addensato in latte in modo che diventò formaggio.
COME PREPARARE IL FORMAGGIO PRIMOSALE
Ingredienti
- 2 l di latte intero
- 5 gocce di caglio liquido
- Qb di sale
Procedimento
- Sterilizzate le fuscelle in acqua bollente per qualche minuto e poi lasciatele intiepidire su carta da cucina.
- Scaldate il latte fino ad una temperatura di 38 °C ed aggiungete le gocce di caglio, mescolando per qualche minuto con un cucchiaio di legno, quindi bloccate il vortice mettendo il cucchiaio di traverso, coprite con il coperchio ed avvolgete la pentola con dei canovacci per conservare la temperatura costante.
- Dopo 50 minuti la cagliata avrà una consistenza gelatinosa, ponete al centro uno stuzzicadenti per verificare che possa restare dritto.
- Rompete la cagliata in quadrati di circa 3 cm di lato utilizzando un coltello. Ripetete questa operazione per 3 volte ogni 15 minuti, fino ad ottenere dei pezzetti di qualche millimetro di lato.
- Raccogliete con molta delicatezza la cagliata con una schiumarola e versatela nelle fuscelle, pressate leggermente con il dorso di un cucchiaio e disponete il tutto su una gratella per far sgocciolare. Dopo un’ora ribaltate le forme.
- Unite un pizzico di sale, fate cadere su un piatto la forma di formaggio e riponete delicatamente nella fuscella.
- Ripetere altre 2 volte questa operazione, dopo ogni ora, quindi trasferite il formaggio su un piatto tondo e coprite con la pellicola. Si conserva in frigorifero per 2-3 giorni.
LA LEGGENDA DEL PANDORO
di Martina Sacconi
La storia del pandoro è ricca di aneddoti e leggende.
Le origini della ricetta sono da ricercare ai tempi dell’antica Roma; lo scrittore Plinio il Vecchio parlò in un suo scritto di un cuoco, di nome Vergilius Stephanus Senex, che preparava un “panis” con farina, burro e olio.
La ricetta moderna del pandoro nacque invece a Verona, unendo due tradizioni: quella del “Nadalin”, dolce natalizio risalente all’epoca della Repubblica veneziana, di cui il pandoro ha preso la forma di stella a otto punte, e il “Levà”, dolce lievitato, ricoperto di mandorle e zucchero, preparato nei villaggi veneti dalle donne sin dall’antichità.
Il pasticciere Domenico Melegatti utilizzò la stessa ricetta, aggiungendo uova e burro, ma eliminò la copertura per rendere l’impasto molto soffice e morbido; il 14 ottobre 1884 ottenne, da parte del ministero di Agricoltura e Commercio del Regno d’Italia, il brevetto per il suo dolce natalizio.
L’origine del nome è oggetto di leggende.
Qualcuno pensa che il nome derivi dalle cene consumate dai nobili nella Venezia del 1200, dove si serviva il “Pan de Oro”, un dolce ricoperto di foglie d’oro, riservato ai più ricchi.
Secondo un’altra leggenda il nome gli fu dato invece dal garzone di un pasticciere, che dopo aver tirato fuori dal forno il dolce, rimase sorpreso dal suo colore dorato ed esclamò: “Il Pan de Oro!”.
La ricetta del pandoro
Ingredienti:
INGREDIENTI PER LA BIGA (=PRE-IMPASTO):
- Farina Manitoba 45 g
- Acqua 30 g
- Lievito di birra fresco 5 g
PER IL 1°IMPASTO:
- Biga (preparata e lasciata maturare tutta la notte 80 g
- Farina Manitoba 90 g
- Zucchero 20 g
- Uova 50 g
- Lievito di birra fresco 7 g
PER IL 2° IMPASTO
- Farina Manitoba 210 g
- Zucchero 90 g
- Miele di acacia 10 g
- Uova (2 medie) 100 g
- Tuorli (circa 1) 20 g
- Baccello di vaniglia 1
- Scorza di mezzo limone
- Burro ammorbidito 125 g
Procedimento:
Si inizia dalla biga (il pre-impasto). Dovrete prepararla la sera prima in modo che maturi tutta la notte. In una ciotolina versate 45 g di farina Manitoba, 5 g di lievito di birra fresco sbriciolato e 30 g di acqua. Mescolate gli ingredienti con le mani per ottenere un impasto omogeneo. Coprite con pellicola e lasciate maturare per tutta la notte a temperatura ambiente.
Primo impasto:
Per preparare il primo impasto, riprendete la biga fatta maturare tutta la notte, come indicato in precedenza, versatela in una planetaria dotata di gancio e aggiungete 90 g di farina Manitoba, poi 20 g di zucchero semolato e 7 g di lievito di birra fresco sbriciolato.
Cominciate ad impastare con il gancio gli ingredienti, facendo andare la planetaria a velocità media; quindi versate l’uovo (uno medio da 50 g) e lavorate ancora fino a completo assorbimento.
Trasferite l’impasto su un piano di lavoro leggermente infarinato, realizzate delle pieghe all’impasto, riportando i lembi laterali verso l’interno e ripiegando poi l’impasto da sotto verso l’interno.
Ponete la sfera di impasto con la parte delle pieghe a contatto con il fondo della ciotola e coprite con pellicola.
Il primo impasto è pronto e dovrà lievitare in forno spento con luce accesa per 2 ore almeno (il forno spento con luce accesa garantirà una temperatura costante di 26-30° massimo); dovrà raddoppiare di volume.
Secondo impasto:
Prendete il primo impasto e versatelo nella planetaria dotata di gancio, unite 10 g di miele e i semi di una bacca di vaniglia; poi grattugiate la scorza di mezzo limone prelevandone solo la parte gialla. Quindi versate 90 g di zucchero semolato e 210 g di farina Manitoba; iniziate a lavorare l’impasto con il gancio, quindi unite le uova e i tuorli (100 g di uova intere corrispondono a 2 uova medie e un tuorlo a circa 20 g), uno alla volta. Quindi prendete 125 g di burro ammorbidito a temperatura ambiente e un pezzetto alla volta inseritelo nell’impasto, sempre con la planetaria in funzione, attendendo l’assorbimento completo prima di passare al pezzetto successivo. Una volta che tutto il burro sarà assorbito raccogliete l’impasto, rovesciatelo su un piano di lavoro e lavoratelo in modo da realizzare una sfera liscia e ben tesa.
Versatela nello stampo da 750 g di pandoro precedentemente imburrato e infarinato, lasciatelo riposare per l’ultima lievitazione, sempre in forno spento con luce accesa per almeno 8-12 ore o fino a quando non avrà raggiunto il bordo dello stampo.
Ora potete togliere lo stampo dal forno, inserire una ciotola con acqua calda alla base del forno per creare la giusta umidità e portare il forno in modalità statica alla temperatura di 140-150° e cuocete il pandoro ponendolo nell’ultimo ripiano del forno per circa 55 minuti, sempre mantenendo la ciotola di acqua all’interno, o finché la superficie non risulterà dorata. Una volta cotto, sfornate il pandoro e lasciate raffreddare almeno per 30 minuti.
Ponete poi un piatto da portata sulla base del pandoro e capovolgete lo stampo; quindi lasciate raffreddare completamente e poi delicatamente sfilate lo stampo; infine spolverizzate il vostro pandoro con lo zucchero a velo e gustatelo fetta dopo fetta!
LA LEGGENDA DELLE TAGLIATELLE
di Sara Socci
Nel 1487 un Signore di Bologna, Giovanni II di Bentivoglio, apprestandosi a ricevere Lucrezia Borgia ,diede incarico al suo cuoco Mastro Zefirano di creare una pietanza che rendesse omaggio alla donna, egli inventò le tagliatelle ispirandosi ai lunghi capelli biondi di Lucrezia Borgia”.
Sulle tagliatelle si sono espressi i più grandi della cucina italiana e non solo, Pellegrino Artusi riferisce che in origine si chiamavano i tagliatelli e che fu il bolognese Tommaso Garzoni di Bagnacavallo nel suo “La piazza universale di tutte le professioni del mondo”, Venezia 1616 a conferire a questo tipo di pasta fresca il genere femminile da cui le Tagliatelle.
Il nome Tagliatelle viene dal verbo tagliare, in origine già al tempo dei romani Apicio, gastronomo cuoco e scrittore vissuto probabilmente tra il 25 a.c. ed il 37 d.c., nel suo “De re Coquinaria” ci parla di lagane per intendere la sfoglia di pasta fresca all’uovo con cui si fanno le odierne lasagne e che ripiegata su sè stessa e tagliata da origine alle tagliatelle le quali devono essere di una larghezza dai 6 ad un massimo di 8 mm.
In Toscana la ricetta tipica delle Tagliatelle è quella con il ragù di cinghiale dove la carne di cinghiale è tagliata al coltello e marinata con ortaggi ed erbe aromatiche coperta dal vino rosso lo stesso, una volta filtrato, verrà utilizzato in cottura. Le tagliatelle sono altresì un tipo di pasta fresca che si presta ad essere condita anche con salse o pesti a base di verdure di stagione e di funghi di ogni specie.
LA RICETTA PER LE TAGLIATELLE
Farina 00: 300 g
Uova a temperatura ambiente: 3
Semola per spolverizzare: q.b.
Per preparare le tagliatelle, iniziate versando la farina in una ciotola (restate un po’ indietro con la dose in modo da aggiungerne in caso al bisogno). Create una conca e rompete al centro le uova a temperatura ambiente. Quindi sbattete con una forchetta e non appena le uova avranno assorbito un po’ di farina, proseguite impastando a mano fino ad ottenere un impasto omogeneo. Continuate a lavorare l’impasto su un ripiano leggermente infarinato per almeno 10-15 minuti fino ad ottenere una consistenza liscia ed elastica. Maneggiate con energia ma evitando di strappare la maglia glutinica. Poi formate una palla e avvolgetela nella pellicola trasparente. Lasciate riposare l’impasto a temperatura ambiente per almeno 30 minuti. Quindi dividetelo in tre parti per stenderlo più facilmente. Infarinate accuratamente una parte e appiattitela, conservate nella pellicola le altre due porzioni così non si seccheranno. Prendete la macchina tirapasta e posizionatela sullo spessore n°1 , ovvero al massimo spessore e fate passare il panetto tra i rulli per ottenere una prima sfoglia piuttosto spessa, poi ripiegate i due lembi della sfoglia verso il centro per conferire una forma più regolare (11-12), quindi infarinatela leggermente e ripassatela tra i rulli, proseguite in questo modo più volte fino ad arrivare allo spessore n°8. Adagiate la sfoglia ottenuta sulla spianatoia infarinata pareggiate con un tarocco (o un coltello) le estremità per rendere regolare la pasta (14-15), quindi dividetela in due parti così da maneggiarla più facilmente. Ripassatela nella macchina tirapasta allo spessore 8 perchè nel frattempo si sarà un po’ ritirata nel lavorarla. Cospargetela con un po’ di semola su entrambi i lati, lasciate seccare le sfoglie 5 minuti per lato. Ora prendete una sfoglia, ripiegate un lembo fino a due terzi circa poi iniziate ad arrotolare creando un rotolino molto piatto, tenendo la chiusura verso l’alto. Tagliate il rotolo di pasta a fettine di 7 mm di spessore. Prendete le tagliatelle dalle estremità, stendete le tagliatelle sulla mano, quindi arrotolate attorno alle dita per creare un nido e adagiatelo sula spianatoia leggermente infarinata. Proseguite fino a terminare tutto l’impasto. Le vostre tagliatelle sono pronte, non vi resta che cuocerle.
Published: Jan 8, 2021
Latest Revision: Jun 26, 2021
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