ELEGIA DEL COCOMERO PONTINO: NARRAZIONI DI FRUTTA E DI VITA. by Virgilio Di Giorgi - Illustrated by Virgilio Di Giorgi - Ourboox.com
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ELEGIA DEL COCOMERO PONTINO: NARRAZIONI DI FRUTTA E DI VITA.

by

Artwork: Virgilio Di Giorgi

  • Joined Aug 2020
  • Published Books 1

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E-book realizzato

da Virgilio Di Giorgi

2

 

 

 

 

 

 

 

I EDIZIONE

PREMIO “COCOMERO PONTINO”

27 AGOSTO 2020

 

 

 

4

L’evento è stato organizzato

grazie alla promozione da parte di:

 

Parco Nazionale del Circeo

 

Pro Loco Sabaudia

 

Club per l’Unesco di Latina

 

Fondazione Simone Cesaretti

 

Cooperative agricole dell’Agro Pontino

5

L’evento è stato patrocinato da:

 

Regione Lazio-Arsial

Città di Sabaudia

LILT- Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori di Roma

Camera di Commercio di Latina

Ordine degli Agronomi di Latina

Coldiretti Latina

Confagricoltura Latina

Cia Latina

Lions Club Sabaudia-San Felice Circeo Host

Casale Del Giglio

Capol

6

SPONSOR TECNICI

 

Fertilidea

Consorzio Agrario di Latina

Di Mauro Assicurazioni

Agricom2016

Dello Iacono Trasporti

Almagroup

Autotrasporti Marzocchi

GreenTop

Vera Combustibili

Galanti

CentroSEIA

VIVIAN refrigerazione

7

C O O P E R A T I V E:

 

L a t i n a Ortaggi, Agrieuropa, San Lidano,

 

Botticelli, Azienda Agricola Torre Astura, EAt veg,

 

Ortocirceo, Agrilovato, Agrimid, Agrocirce2000,

 

Cooperativa Cortese, Cos, Sotea, Agriitalia,

 

Azienda Agricola Di Girolamo Gianni, Le Terre di Circe,

 

Azienda agricola Ambrosino Vincenzo, Cooperativa la Nespola

8

Indice

Sezione “Poesia”

Ad Pomptinam Memoriam (Leonardo Bonora) p.19

Anguria (Maria Giuseppina Campagna) p.20

Anguria sorprendente (Alessia Giorgi) p.21

Cocomero (Lucia Luzzi) p.22

Cucumeris Voluptas (Virgilio Di Giorgi) p.23

Il cocomero (Luigi Pasquali) p.24

Il cocomero pontino (Marco Biffani) p.25

Il cocomero pontino!!! (Marialuisa Sangiuliano) p.26

Il pogongo lindo (Laura Cavicchioli) p.27

Il rosso frutto (Gianluca De Lucia) p.28

Inno al cocomero (Morena Virgini) p.29

Metti tutti d’accordo (Veruska Vertuani) p.30

Ode al cocomero (Paola Delladio) p.31

Ode al cocomero (Adelaide Porcelli) p.32

Ode al cocomero (Laura Mastromattei) p.33

Ricordi (Franco Frainetti) p.34

Rosso per sete (Emanuela Santoianni) p.35

Sei il dio dell’estate (Lucrezia Mantua) p.36

Sensi estivi (Giulia Micheli) p.37

Sin da bambina (Katia Zamprotta) p.38

Sonetto der cocomero (Angelo Marzullo) p.39

Wanted (Roberto Noce) p.40

 

9

Indice

Sezione “Racconto breve”

 

Batikh (Paolo Tagliaferri) p.42

…Cocommero!… (Tonino Benedetti) p.43

Cucumeris limes (Francesco De Ficchy) p.44

I cocomeri di San Lorenzo (Elvira Bianchi) p.45

Il cocomero è amore (Sara De Felice) p.46

Il cocomero è il messaggio (Giulia Zanin) p.47

Il piccolo furto (Claudio Marrucci) p.48

La casetta (Daniela Camici) p.49

La cena del cocomero (Alessandra Scarpinella) p.50

La Sfida (Massimo Porcelli) p.51

La voglia bambina (Annamaria Sanguigni) p.52

Le angurie di Socrate (Rosa Liparini) p.53

Le avventure della signora Daina (Guglielmo Pappalardo) p.54

Lo chiamerò meros kokos (Giorgio Bastonini) p.55

O ‘mellone (Luciano Ferreri) p.56

Pane e cocomero (Angela Di Pietro) p.57

Quella lezione nella notte (Gino incerti) p.58

Raccolta dei cocomeri (Vito B. Del Volgo) p.59

Ricordi estivi (Letizia Stradone) p.60

Suscitatore di memoria (Giulia Di Perna) p.61

Un cocomero a Piazza Cipollata (Maria Grazia Coccoluto) p.62

Un cocomero da ricordare (Anna Maria Masci) p.63

 

 

10

Indice

Sezione “Fotografia”

 

Cocomeri al mare (Federico Maestroni) p.65

 

Nonno Caterino (Ilaria Marangoni) p.66

 

Meraviglia della natura … l’instancabile e insostituibile ape porta una nuova vita (Sergio Cortese) p.67

 

Rouge et Blanche – omaggio a Man Ray – (Mauro Palazzi) p.68

 

11

Indice

Sezione “Video”

 

Il sapore dell’amicizia (Davide Venditti) p.70

 

Il cocomero pontino che piace ai bambini (Alessandra Froncillo) p.71

12

INTRODUZIONE

 

Se avessimo considerato il lavoro in agricoltura come una semplice e generica attività professionale, non ci saremmo mai impegnati in questo lavoro di connessione tra agricoltura e letteratura.

È chiaro che ciascuno tende ad enfatizzare il proprio lavoro e, dunque, chiunque potrebbe dire la stessa cosa dei suoi prodotti; ma non è così. Mi sembra piuttosto che la connessione tra agricoltura e letteratura abbia una sua tipica ed esclusiva connotazione.

La parola che unisce ed impreziosisce l’unione tra agricoltura e letteratura è: “naturale”.

I prodotti dell’agricoltura sono naturali e diventano artificiali nelle varie combinazioni culinarie, nelle diete o nei pasti elaborati.

La grande letteratura è naturale, sebbene segua un percorso inverso, cioè nasce come un artificio intellettuale e linguistico e si trasforma nella dimensione naturale di ciascuno di noi, in ogni caso la grande letteratura è diretta, istintiva, coinvolgente, naturale.

Come si dice: una stella che scende e una stella che sale si incontrano in un solo punto delle loro opposte traiettorie. Quel punto è magico, fermo, immortale. È naturale.

Noi vorremmo avere l’ambizione, appena nata ma certamente meritevole anno dopo anno di maggiore approfondimento, di contribuire a realizzare quel punto naturale d’incontro, quella magnifica connessione tra la cultura e l’agricoltura. Ci è naturale l’agri-cultura.

Questo è il motivo principale per cui ci siamo impegnati a valorizzare un prodotto tipico dell’Agro Pontino, sia nei suoi aspetti agrotecnici, sia in quelli sociali, sia in quelli economici e politici, come il cocomero.

Il cocomero rappresenta la pazienza nella coltivazione e la fatica dei campi. Una coltivazione apparentemente semplice e tuttavia complessa, nella raccolta, nei tempi di produzione, nella commercializzazione, nella qualificazione del prodotto e nella sua distribuzione. Il consumo stesso del cocomero ha una sua particolarità: è fresco, perfettamente commestibile e massimamente godibile due giorni dopo. Anche in questo caso il termine naturale congiunge l’ambiente in cui il prodotto è coltivato e maturato e l’habitat sociale in cui viene consumato.

Per questo abbiamo voluto portare avanti, con impegno e costanza, in un periodo non facile per la vita di tutti perché è in genere il periodo delle vacanze e del riposo, questa importante iniziativa che crescerà nei prossimi anni, cercando di raggiungere un punto di eccellenza nazionale e internazionale tra 3 anni.

Un percorso dunque a cui hanno contribuito moltissimi istituti e istituzioni che desidero ringraziare.

Per il contributo che hanno dato voglio ricordare il Parco Nazionale del Circeo, la ProLoco di Sabaudia, il Club per l’Unesco di Latina, La Fondazione Simone Cesaretti e le Cooperative agricole dell’Agro Pontino.

C’è poi un secondo nucleo di persone che con totale abnegazione si sono impegnati a rendere ottimale questo percorso. Sono: il giornalista Gianluca Campagna, il Dott. Carlo Cassola, il Prof.re Alessandro Ceci, il Prof.re Gian Paolo Cesaretti, il Dott.re Gennaro Di Leva, il Dott.re Mauro Macale, la Prof.ssa Aquilina Olleia, il Dott.re Luigi Tivelli.

Infine, l’ultimo gruppo che voglio ringraziare sinceramente sono gli autori degli elaborati artistici di questo volume. Non nego che all’inizio eravamo titubanti. Avevamo timore di essere costretti a realizzare una pubblicazione che, in termini di qualità e di quantità, non raggiungesse gli standard che ci eravamo prefissati. Invece, il valore dei lavori che ci sono pervenuti, ha fugato ogni dubbio e ogni titubanza. Sono lavori molto belli. Brevi ma intensi, immagini evocative, selezionati da una giuria la cui qualità è indiscutibile.

Sono gli autori, questi artisti spontanei che rendono interamente il valore tra un frutto, il suo gusto e la loro percezione. Sono loro, che con i loro contributi, ci restituiscono il significato, il valore semantico che fa di un prodotto, che parte dalla natura e arriva nelle nostre case, o parte dalle nostre case e invade la natura, un prodotto profondo naturale.

Grazie

 

Claudio Filosa

 

13

È il frutto dell’albero della sete.

È la balena verde dell’estate.

(Ode all’Anguria di Pablo Neruda)

 

Anziani agricoltori, ancora viventi, testimoniano che la coltivazione di cocomero nell’Agro Pontino ha avuto inizio ancor prima della Seconda guerra mondiale, sulle pendici del monte Circeo.

L’agricoltura pontina ha investito, puntando sulla coltura del cocomero che, secondo i dati Istat si posiziona ai primi posti della produzione nazionale. In provincia di Latina attualmente sono interessati alle coltivazioni circa 4000 ettari, il che significa che un cocomero su quattro di quelli distribuiti in Italia viene prodotto in loco. La disponibilità commerciale si ha dai primi di maggio fino alla metà di settembre, a volte anche oltre. Il distretto occupa circa 5000 addetti, 70 cooperative agricole e un indotto di 100 milioni di euro e circa 300 aziende agricole.

La zona di produzione del cocomero riguarda i comuni di Sabaudia, San Felice Circeo, Terracina, Latina, Sezze, Priverno Aprilia e Cisterna di Latina. I terreni considerati più vocati per la produzione di eccellenza, dove si concentra la maggior parte del raccolto, sono quelli del celebre Triangolo d’Oro (Terracina, Sabaudia e San Felice Circeo).

Definito da molti come il migliore del mondo, il Cocomero Pontino deve la sua straordinaria bontà alle particolari condizioni pedoclimatiche, esclusive di questa posizione del basso Lazio, dove il cocomero ha cominciato ad essere impiantato negli anni immediatamente seguenti le bonifiche pontine.

Profumi e sapori che solo qui assumono le loro caratteristiche migliori, avvalorate anche da metodi di produzione e certificazioni aziendali che riportano le buone pratiche agricole, il rispetto dell’ambiente (Global Gap) e la sottoscrizione di un Patto Etico con lavoratori.

Il lavoro congiunto delle Cooperative Agricole dell’Agro Pontino ha determinato l’inserimento del Cocomero Pontino tra i Prodotti Agroalimentari Tradizionali (GU n.60 del 12 Marzo 2019- Supplemento Ordinario numero 9) e si aspira ora ad ottenere il Marchio Identificazione Geografica Protetta.

 

Aspetto e sapore

L’Anguria Pontina si caratterizza per la buccia liscia o leggermente rugosa, uniforme o con leggere solcature regolari longitudinali per tutte e tre le varietà, di colore verde grigio per il tipo tondo e verde medio brillante per i tipi ovale e allungato. La polpa, soda e croccante, presenta a maturazione completa, un colore rosso per il tipo ovale e rosso vivo per i tipi tondo e allungato. Il sapore è particolarmente dolce. Il peso è compreso tra i 5-12 kg per il tondo, 7-16 kg per la tipologia ovale e 7-20 kg per l’allungato.

 

Conservazione

Le condizioni ottimali di conservazione si hanno a 10-15 ° C e 90% di umidità relativa. In queste condizioni il cocomero si conserva fino a 15 giorni; essendo molto sensibile al freddo, non deve essere conservato a temperatura inferiore a 7 ° C.

 

Valore nutrizionale

Questo frutto è stato considerato per molti anni solo come un frutto rinfrescante, dato il suo elevato contenuto in acqua, il cocomero è infatti composto da 91,45 grammi di acqua , elemento fondamentale soprattutto in estate, se si ha difficoltà ad assumere grandi quantità bevendo ed adatto per le diete, in quanto apporta un esiguo numero di calorie con un effetto saziante e completamente privo di grassi. I valori nutrizionali di questo frutto mostrano quanto esso rappresenti un valido supporto: contiene una quota di fibra alimentare, proteine, sodio, potassio, ferro, calcio, glucidi e vitamine dei gruppi A, B1, B2 e C.

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ELEGIA DEL COCOMERO PONTINO: NARRAZIONI DI FRUTTA E DI VITA. by Virgilio Di Giorgi - Illustrated by Virgilio Di Giorgi - Ourboox.com
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Giuria del

PREMIO “COCOMERO PONTINO”

I EDIZIONE

27 AGOSTO 2020

 

Presidente

Roberto Ippolito

Scrittore

 

Roberto Campagna

Scrittore

 

Rino Caputo

Professore

 

Daniela Carfagna

Dottoressa

 

Alessandro Ceci

Professore

 

Raniero De Filippis

Dottore

 

Giovanni Del Giaccio

Giornalista

 

Egidio Fia

Giornalista

 

Ettore Maragoni

Fotografo-videomaker

 

Stefano Orsini

Giornalista

 

Alessandro Panigutti

Giornalista

 

Ida Panusa

Professoressa

 

Bernardino Quattrociocchi

Professore

 

Luigi Tivelli

Dottore

 

Mauro Zappia

Dottore

 

17

Prefazione del Presidente della Giuria, Roberto Ippolito.

 

Più facile? O al contrario è più difficile? Come può essere valutato il compito di scrivere qualcosa intorno a una parola data? La domanda è semplice e forse anche scontata, la risposta no. Mi pongo questo interrogativo dopo aver ricevuto e accolto l’invito a essere il presidente della giuria della prima edizione del “Premio letterario cocomero pontino”.

La scelta caduta su di me per la nascita di questa iniziativa è un gesto di attenzione, per il quale ringrazio anche qui. Scelta sfociata subito nella curiosità di scoprire la creatività dei partecipanti impegnati a costruire storie con la presenza del cocomero.

Quest’ultima è infatti la parola assegnata. E dunque, molto concretamente, concepire dei testi o delle immagini con il cocomero rappresenta un aiutino o una costrizione? A pensarci bene non esiste una regola per l’ispirazione. Tutti, scrittori e non, abbiamo stimoli per le nostre riflessioni e per le nostre azioni dall’osservazione quotidiana e, a volte, gli stimoli sono provocati o suggeriti dagli altri.

In questo caso, e anche questo può apparire scontato, è lo stesso prodotto della terra a essere tutto uno stimolo. Per il colore esterno, per quello interno. Per la forma sferica. Per la dimensione e il peso rilevanti. Per la friabilità. Per la sostanza, solida e in fondo anche liquida. Per il gusto.

Alt. Tutto vero. Ma qui non si parla del cocomero in generale, di tutti i cocomeri del pianeta. Il frutto protagonista del premio letterario ha accanto al suo nome un aggettivo che fa la differenza: pontino. Cioè coltivato nell’agro pontino, nella provincia di Latina.

A queste indicazioni geografiche è indispensabile aggiungerne un’altra: il Cocomero Pontino cresce in un’area di pregio che vanta il Parco nazionale del Circeo. Le sue radici sono queste e potrebbe essere considerato un aiutone , non un aiutino, per i partecipanti al Premio.

L’ambiente recita la sua parte, con il lavoro di tanti che fanno della provincia di Latina un produttore da primato, con la denominazione pat (prodotto agroalimentare tradizionale). E ambiscono a ottenere il riconoscimento del loro sudore con il marchio Igp, l’indicazione geografica protetta attribuita dall’Unione Europea.

La parola cocomero attende il timbro europeo, soddisfatta di quello che esprime e del vantaggio del certificato dall’Enciclopedia Treccani secondo cui l’alternativa anguria è solo una “variante regionale”.

Quanti spunti, insomma. Accogliendoli e giocando con l’estro e la fantasia, i partecipanti al “Premio letterario cocomero pontino” non hanno reso agevole la valutazione della giuria e in particolare del suo presidente. Ecco cosa è difficile.

18

L’errore rinfresca la vita

di

Claudio Filosa

 

Ci ricontattavamo.

Voce a voce.

O per telefono.

Ogni anno, ogni estate, al tempo giusto in età e giovinezza, all’inizio del sole, ci ricontattavamo; perché noi eravamo una squadra adatta e affiatata.

Bisogna essere così: adatti e affiatati. Adatti perché ci vuole una certa forza e una certa resistenza. Affiatati perché i cocomeri da terra finiscono su un camion saltellando, un percorso di piccoli lanci, una corsa ad ostacoli dove si salta il vuoto. Si sta sotto il sole, dalla mattina, dall’alba fino al pomeriggio tardo, fino a quasi sera. Se il tuo compagno non prende al volo il cocomero il danno è grave e i martiri, come sempre, sono frutti che cadono nel vuoto e si sfracellano a terra.

A ripensarci, quello era un simbolo della modernità.

Prima nessuno poteva saltare nel vuoto. Se cadevi, ti raccoglieva una mano protesa, qualcuno che, in qualche modo, ti rialzava: una famiglia, una chiesa, un sindacato, un partito. Nel mondo di oggi, nei vuoti di ogni rete, chi cade non ha riparo e non ha riparazione. Cade nel vuoto e tenta di resistere da solo fino a poco prima di sfracellarsi per terra.

Il cocomero era così, saltellava, spinto, da braccia a braccia e, per attutire impatto, era opportuno piegare le gambe come ammortizzatori che attenuano l’atterraggio.

Non c’erano immigrati allora, almeno non molti e il costo del lavoro era sufficiente per vivere lontano un’estate comoda a noi studenti perennemente bisognosi.

Era la nostra fonte di reddito e la legittimazione ai piaceri della vita.

Andavamo che era ancora notte. Vedevamo sorgere il sole e illuminare di giallo le cose e le case, le strade e i pochi viandanti. Tornavamo, dopo la paga, quasi a notte; quando il sole illuminava di rosso le cose e le case, le strade e i pochi viandanti.

Forse non eravamo felici, ma eravamo contenti, direi, appagati. Per noi era quasi un esercizio ginnico pagato. Si faticava molto, ma i muscoli crescevano, si gonfiavano naturalmente, bagnati dal sudore e arrossati dal calore: splendevano sotto il sole. A lavoro sentivi i raggi infuocati come una frustata acerrima e soffocante. Quando tutto era finito, però, avevi dimenticato la stanchezza ed eri appagato dalla tua forza e della tua fisicità. Il corpo era contenitore e contenuto del piacere: piacere del corpo; piacere per il corpo; piacere del piacere che il corpo trasporta.

Arrivavamo a casa distrutti e affamati, ma con un fisico tosto. E ci sentivamo forti perché aveva tramutato la sedentaria fatica intellettuale in fatica pratica e concreta. Ci vantavamo del nostro sudore, balzanti e sfrontati, legittimati a sfidare la vita con la forza e con la fatica.

Eravamo illusi che bastasse quello, forza e fatica, per affrontare la vita.

Non bastava però. E durante il lavoro, in una parte recondita della tua anima, in quei frammenti di te che riemergono inattesi e inopportuni, lo sapevi che forse quel tempo era perdente e definitivamente perduto. Il sudore scendeva lungo le braccia e colava dai gomiti, dalla fronte cadeva sul viso lancio dopo lancio, rapidi, rapaci. La testa coperta da cappelli occasionali e sole, campi aridi e sete, e luce, luce, luce da cui è impossibile ripararsi.

Un cocomero lanciato, e poi un altro, a ripetizione. Finché il sudore che cola dall’avambraccio non finisce sulle mani e l’ultimo cocomero, maledetto, scivola, rantola, si sfracella per terra e si frantuma.

Guardai giù.

Chinai la testa per la sconfitta e la curiosità. 

Il cocomero si era aperto ai miei piedi.

Alzai lo sguardo, offeso, schiavo in attesa della reprimenda.

Il capo ci guardò. Forse dava per scontato qualche martire sul campo di battaglia. Forse aveva ben calcolato le perdite. Restò fermo, seduto, assorto, distante e tranquillo. Affermò: “mo’ magnatevelo!”.

Si avventarono sul cocomero a pezzi, per dissetarsi e lavarsi, in qualche modo per purificarsi.

Ma la sconfitta era mia. Soltanto la mia.

E allora, io, restai immobile a guardare; perché in quel momento, in quel preciso momento avevo capito che rinfresca la vita.

19

 

 

 

 

 

 

SEZIONE

“POESIA”

20

Ad Pomptinam memoriam

di Leonardo Bonora

 

Cucumis dulcis plenus voluptatis,

in aestivis mensis semper graditus est.

Iucundus sapor cum magno desiderio

memoriam recordor praeteritarum et laetarum

aestatum cum meis amicis.

 

Ricordi pontini 

 

Il cocomero dolce e delizioso

sulle tavole estive è sempre gradito,

il suo sapore avvolgente

mi ricorda con nostalgia

le scorse estati ridenti

trascorse con i miei cari amici

21

Anguria

di Maria Giuseppina Campagna

 

La forma arrotondante, suprema

e paradisiaca anguria.

È il frutto dell’estate

e appena aperto mostra

la bandiera italiana

verde, bianco e rosso

che in bocca si scioglie

in delizia!

Colori vivi che riflettono l’amore

per la nostra patria.

22

Anguria Sorprendente

di Alessia Giorgi

 

Dalla rossa polpa di un contorno verdeggiante, nasce uno spicchio di dolcezza che mi rinfresca nelle calde giornate estive … è il cocomero, frutto che si mangia e si sorseggia poiché riecheggia in esso lo zucchero che rincuora ….

Piccoli semi scuri si nascondono

gocce di sapore si diffondono nel

palato di colui che lo assapora ….

un dolce morso non mi stanca, perché

sempre mi rinfranca in una esultanza

di gustosa varietà … e

dissetando il mio diletto, lo vedo, che,

dall’agro pontino ridente, mi conduce,

finalmente all’ombra viva del Circeo,

che, silenzioso si distende …

23

Cocomero

di Lucia Luzzi

 

Sole accecante, afa asfissiante 

cerco qualcosa di rinfrescante

sulla spiaggia da gustare come un torrente fresco, dissetante.

Scorza dura, cuore morbido

solo semi, niente osso.

Tondo, rosso, rubicondo,

verde, bianco, rosso

porta i colori della bandiera,

meglio non mangiarlo la sera.

È una vera goduria!

C’è chi la chiama anguria

Non c’è bugia è tutto vero, ma si chiama:

Cocomero

24

Cucumeris Voluptas

di Virgilio Di Giorgi

 

Voluttà divina poterti addentare

con la mia bocca sitibonda.

Pomo delle Espèridi pontine,

mellone, cocomero, anguria,

 

ti affétto con affètto, mia goduria;

ti accarezzo con una voglia vampira,

desideroso della tua fresca, sanguinea

polpa che, tuttavia, non mi discolpa

 

dai peccaminosi morsi sensuali

condivisi con compiacenti commensali

alla mia mensa estiva e giuliva,

abbellita dal tuo verde smeraldino.

 

Con cura ti scelgo nell’emporio,

se del tuo verde manto il polo è arancione,

più ricco il gusto e più forte il sapore;

se tra le tue striature regna l’equidistanza,

di dolcezza ci sarà abbondanza;

se il tuo peduncolo è di gocce grondante

e arricciato, nettare divino da te è assicurato.

25

Il Cocomero

di Luigi Pasquali

 

Lo striato verde mimente.

Avulso dell’alveolo il nero semente,

oblungo e sfuggente.

 

Fino al bianco adiacente,

il morso al rosso invitante,

affresco, gracilmente croccante;

 

ristoro al caldo imperante.

 

 

 

26

Il cocomero pontino

di Marco Biffani

 

Una fetta d’estate, la migliore

che abbevera, soddisfa e fa felici

con l’acqua, il nostro sole e questo suolo

sa di foresta, laghi, mare e sogni.

 

Frutto di una terra che fa storia

Ulisse, Cicerone, Mario e Silla

da Domiziano fatta casa sua

uscita poi da secoli di buio

 

rinasce dal letargo millenario

di una sterilità fatta di morti

mostrando a tutti come si fa prima

a costruire una città di un ponte.

 

Rosso, rosato è un vero trionfo

di colori sapori e di salute

nasce da strisce nere sopra il suolo

simili poi alle righe d’una maglia

 

che forate, gemmate e ben curate

con acqua, terra e sole pontino

generi quei palloni sia rotondi

che oblunghi come mammelloni

 

son ricchi d’acqua sempre necessaria

nei mesi caldi quando son maturi

dissetano e non solo chi li “beve”

il lor sapore poi è il nostro orgoglio

 

rende famose queste nostre terre

e dovrebbero esser conosciuti

fuori d’Italia come un’eccellenza

del mangiare italiano icona giusta.

 

Un tempo pel controllo dei più frusti

ci voleva il “tassello” come saggio

oggi che son maturi pieni e giusti

non è più necessario quell’oltraggio.

 

Lui fa felici, in forma e non ingrassa

di questi tempi è quasi un’ossessione

il rosso acceso è metro di salute

abbatte i radicali è soluzione

 

e quei semini neri, se ci sono

diffusi e dispersivi come pixel

son bottoncini neri non in fila

per chiudere sereni una giornata.

 

Dopo la Pandemia comincia un’era

cocomero pontino è più di un frutto

rosso l’interno, il bianco che c’è in mezzo

col verde della buccia, è una bandiera!

 

 

 

 

 

 

 

27

Il Cocomero Pontino!!!

di Marialuisa Sangiuliano

 

Un pieno di colore che va dritto al cuore …

Un verde di Speranza

Nel suscitare: “Amore”

Nel suscitare: “Amore”!!!

La tavola imbandita …

È piena di allegria!!!

Gli amici tutti insieme …

Legandosi le mani …

Lavandosi le mani …

In posti distanziati …

Causa Pandemia …

Sorridono felici …

Di essere ancora qui …

Il cibo succulento …

Ci unisce nel sorriso …

E porta l’allegria !!!

Poi sul finir del pranzo …

Arriva: “Sua Maestà”

“Il Cocomero Pontino”!!!

A chiudere in bellezza!!!

Grosso, lungo e verde di Speranza …

“Aspetta il taglio con sorpresa”!!!

A chiudere in bellezza!!!

Aspetta il taglio con sorpresa …

Un taglio netto che …

Conquista il cuore!!!

Rosso, smagliante!!!

Succulento e profumato!!!

Per la gioia degli occhi e del palato!!!

Fresco profumo inebriante!!!

Rinfresca subito il palato …

Via l’arsura del caldo tropicale …

Tutt’intorno: “Un pieno di colori”!!!

Freschezza ed armonia …

Deliziano la mente …

Che spazia nel colore!!!

Rosso splendente !!

È va dritto al cuore!!!

Suscitando per tutti…

“Un Nuovo Amore!!!

28

Il pogongo Lindo

di Laura Cavicchioli

 

Sei me.
 
Sei la polpa del mio cuore
 
Sei il succo del mio spirito
 
Sei il seme del mio utero
 
Sei il verde della mia mente.
 
Sei il rosso del mio sangue
 
Sei il frutto del mio DNA
 
Sei l’estate della mia vita
 
Sei tu che come me alla tua piccola età lo hai chiamato nel mio stesso modo, senza che
né io né te lo avessimo mai udito prima.
 
Tu il dono più naturale di Madre Terra.

 

29

Il Rosso Frutto

di Gianluca De Lucia

 

C ol suo peso ripaga la scena

O rnato del ricurvo dorso verde

C he lama penetra

O ra che nel rosso mare annega

M orto rinasce

E nel palato risorto

R istora assetate fauci

O sannato, cocomero, mangiato!

30

Inno al cocomero

di Morena Virgini

 

Le possenti foglie

abbracciano

il tuo fusto rampicante

che esplode

nella rotondità

del rosso rubino.

La polpa rinfrescante,

racchiusa tra due emisferi,

ti rende il re

dei frutti estivi.

Disseti le mie labbra

come una fresca cascata

mentre trattieni l’estate

con i suoi colori

di passione e meraviglia.

31
Metti tutti d’accordo
di Veruska Vertuani

 

Hai in te il dono dei colori italiani
il verde dei campi, il bianco delle albe sfitte dal sonno
quando l’uomo si fa curvo a coglierti
e dentro hai il rosso di un tramonto a picco sul mare
insieme a qualche lentiggine scura,
quelle di una donna che, addentandoti, cerca frescura
e nel trovarla si riscopre bambina,
dal sorriso aperto come quello di una tua fetta.
Quando sono a casa
non mi fai rimpiangere il mare
salsedine come sei nei tuoi incavi di pelle, succoso fino al polso;
quando sono in viaggio
so che spunterai panciuto e grande
nella scia dell’agro pontino che sfila fuori il finestrino
e che metterai tutti d’accordo, anche la Circe
nelle sue giornate no, quando avrà la nuvola sul naso.
32

Ode al cocomero

di Paola Delladio

 

Assaporo il tuo profumo intrigante

affondo il naso nella tua rossa polpa

la lingua accarezza il tuo cuore infuocato

la bocca ti succhia mentre penetri in gola

 

disseti la mente con dolcezza e freschezza

con passione vorace mi sbrodolo tutto

immergo il muso in ogni tua tenera fetta

mi piace gustarti con ardore, senza fretta.

33

Ode al cocomero

di Adelaide Porcelli

 

Tu, oblungo frutto

verde striato

nel tuo bozzolo vellutato

come ali di farfalla

racchiudi il palpitante rosso cuore

di questo antico suolo.

Nasci su questa terra sabbiosa

del lido di Ulisse,

che Circe, figlia del Sole,

generosa, di fascino accende.

Tu, anguria o cocomero

che dir si voglia,

nato da piccolo seme,

cresciuto tra onde di fulgido smeraldo

cullato da intrecci di Saffiche dita

più verdi dell’erba

riempi il tuo gravido ventre

di quel dolce succo vitale

che nell’infantile memoria

esplodeva nel morso tra la lingua ed il palato.

Affresco … ristoratore

e la buccia segnata dagli avidi dentini

rimaneva a guardarmi uguale al mio sorriso.

Poca cosa sembravi. … scontata.

Ma ora, maturo, raccolto vai

messaggero per il mondo

a portar il tuo prezioso tesoro.

34

Ode al cocomero

di Laura Mastromattei

Sei il frutto dell’estate feconda
che ristoro dà alle stanche membra; tondo verde prato, sole giallo, rosso fuoco.
Come occhi colpiti da accecante polvere
così la tua polpa solcata da nere feritoie
che, sì, solleticano il palato.
Scrigno placido e dolce che rubente il mento colora, esso avido s’immerge nelle tue profondità.
Fresca luce che si scioglie, il tuo cuore trasuda gocce di rugiada e di placata gioia riempi l’arido ventre.
35

Ricordi

di Franco Frainetti

 

Il giorno si spegne.

 

Dolce il sapore

di una fetta

di cocomero.

 

Le tue labbra

sulle mie …

36

Rosso per sete

di Emanuela Santoianni

 

Una sfera verde vorrei comprare,
il tuo verde brillante mi ha conquistato,
il caldo impera,
tu pesi tanto quel tanto che posso, colmare la sete.
Con me io ti porto,
la sete di tanti, più gente che posso la sete placare.
Ti giro e rigiro,
ti tocco,
ti busso,
il suono che sento mi vien di lontano dall’antico Egitto.
Camminasti ovunque di popolo in popolo
la sete levasti da Virgilio a Plinio,
dai deserti in molti c’era sempre la sete e per te i rimpianti,
la sete di tanti, dai grandi latini ai tempi vicini.
La sete per tanti ti accingo a levare,
sei rosso caldo sei pieno di perle ora bianche ora nere
è sempre un piacere da giugno a settembre il tuo nettare gustare
per il bambino affondare il visino che di rosso colori, senza arretrare,
tu cocomero che pesi un tantino col tuo frullato mi hai dissetato.
Di popolo in popolo continui il cammino per dissetare chi incontri per sete
la polpa tu offri e la sete levasti.
37

Sei il dio dell’estate

di Lucrezia Mantua

 

Sei il dio dell’estate
con la tua dolcezza sei presente in tutte le nostre giornate,
sei rosso come l’amore
infatti, fai innamorare ogni persona con il tuo buon odore.
Tu cocomero pontino, ogni volta che ti tagliamo non sei mai banale e sai sempre stupirci grazie al tuo sapore.
Non sarai immortale ma, sai quanto è succoso e rosso il tuo cuore?
Fuori sei verde come la speranza
ci rapisci così tanto che per te riempiamo la nostra pancia.
Anche se al tuo interno hai delle lentiggini nere
sei il miglior alleato in tutte le sere.
Non sei perfetto ma la tua bellezza la troviamo anche dove è presente il difetto.
Ti vorremmo anche d’inverno ma sei così speciale, unico e prezioso proprio perché ti possiamo
godere solo in una stagione
ed è proprio quella magia che ti rende il miglior frutto in ogni questione.
Sarai anche di passaggio, ma, sai aver il privilegio di portarti ovunque, persino in viaggio?
Mi raccomando, non esitare all’assaggio.
38

Sensi estivi

di Giulia Micheli

 

Vedo:

Speranza, amore, passione

Sento:

Tamburo, eco, vuoto

Annuso:

Cocktail, estate, festa

Gusto:

Fresco, succo, zucchero

Accarezzo:

Liscio, granuloso, freddo.

La famiglia a tavola,

Gli amici sulla spiaggia,

Condividiamo:

il frutto freddo del caldo estivo.

39

Sin da bambina …

di Katia Zamprotta

 

Sin da bambina

di campi di cocomeri

ho colmato gli occhi.

In primavera,

nella stagione degli amori,

rubavo furtiva i tuoi gialli fiori

e mi perdevo nei mille giochi confusi

dei viticci intrecciati

negli agri neri e assolati.

Quando il pampino seccato

annunciava la tua ora,

mani liete e operose   

si mettevano a lavoro,

picchiettando il verde scuro

per udire il suono cupo,

di bontà promessa certa.

 

Vieni allora

nell’afa rovente

dei meriggi d’estate

tu sei

-tra le mani-

dono di fate,

spicchio di luna

nelle notti stellate.

Vieni allora

a morsi divoro

l’anima tua panciuta,

il cuore rosso croccante

che amoreggia

col rubino del sole calante.

E sai

-da sempre-

di freschezza dolce di ruscello,

tregua di miele

che placa e acquieta

la mia sete.

40

Sonetto der cocomero

di Angelo Marzullo

 

Quann’arriva er gran callo

cerchi ar fresco la goduria

e te metti tutt’ammollo
se nun trovi ‘n po d’anguria

e si stai fori regione
a seconda d’er dialetto
o mellone ar meridione
la patèca er fighetto

pe chiude sto sonetto

cor distico baciato
ce n’è uno perfetto
che sembra già scontato

na piotta a fettaccia
magni bevi e te lavi la faccia.

41

Wanted

Citrullus lanatus

di Roberto Noce

 

Extracomunitario di origine africana,

vive nel deserto del Kalahari.

Con se porta molta acqua, perché

migrante da maggio a settembre.

Conosciuto in Italia e all’estero, è schedato come

Sindria, Pateca, Cetrone, Sandìa, Sarginiscu,

Cetrioli, Zuparacu.

Veste di verde, statura bassa e tozzo.

Avvicina chiunque,

offrendovi un tassello rosso e dolce.

Non fatevi ingannare dalle apparenze,

per catturarlo la parola d’ordine è “Cocomero”.

42

 

SEZIONE

“RACCONTO BREVE”

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“Un vecchio con gli occhiali cerchiati d’acciaio e i vestiti coperti di polvere sedeva sul ciglio della strada”

(Ernest Hemingway “Vecchio al ponte” )

 

Batikh

(Anguria)

di Paolo Tagliaferri

 

Non mancava molto per il casale dei Marini. Una bella costruzione in pietra, immersa nella campagna di Latina. Stefano e Adelaide Marini mi invitavano spesso a pranzo da loro. Non sempre potevo per via del lavoro ma quel sabato, invece, avevo accettato. A duecento metri dalla strada sterrata che conduceva alla costruzione rurale, c’era un casotto che vendeva angurie. Una “Produzione propria” campeggiava in lettere bianche sul legno pitturato di verde. La proprietaria mi fece assaggiare una fetta. Squisita. Ne presi due; eravamo in sei a tavola ma c’è sempre chi ne vuole ancora.

Dopo un’ora e mezza di viaggio, avevo voglia di sgranchirmi le gambe, così decisi di prendere per le campagne e tagliare, a piedi, sino al casale. Non era distante. L’avevamo fatto con Stefano una volta che ci servivano delle pesche. Le angurie pesavano ma sapevo che era questione di metri. Appena arrivato in cima alla collinetta mi accorsi di aver fatto male i calcoli. Si intravedeva il casale, ma non avevo accorciato di molto, anzi. Erano le 12,30 e il sole si luglio cuoceva. Il sentiero scendeva in una pianura arsa, piena di covoni di erba medica. Un solo grande albero a sfidare la canicola. La linea del mare a destra. Avevo già iniziato a sudare. Mentre per istinto mi avvicinavo all’albero, dalla spiaggia vedevo salire delle figure umane. Arrivato all’ombra della quercia distinsi una donna vestita con un abito lungo e un fazzoletto in testa, un bambino sui dieci anni per mano e una bambinetta con le trecce in braccio. Arrivarono, si misero all’ombra e non mi degnarono di uno sguardo. Erano a pochi metri. Sembravano mediorientali. Parevano stanchi. Esausti. La bambina stringeva una bottiglietta di plastica vuota che doveva aver contenuto dell’acqua, molte miglia marine prima. La bimba si divincolò dalla stretta della madre. Si avvicinò.

– Zayneb! Zayneb!

Chiamava la madre.

Le sorrisi, la bimba ricambiò. Vide le angurie

-Batiiik !!! Corse verso le buste indicandole e guardando la madre.

-Ommi, Batikh!

La madre si era alzata. Camminava a fatica, aveva le labbra screpolate dalla sete e un portamento nobile anche nella sofferenza. Presi un coltellino che tenevo agganciato alle chiavi e aprii una delle angurie. Il frutto era di un promettente rosso brillante. Tagliai una fetta per la piccola Zayneb che iniziò a divorare la polpa. Diedi due fette alla madre che le prese tra le sue mani scure, ringraziandomi con un cenno del capo. Mangiarono avidamente. Tagliai una fetta per me. Era squisito. Non sapevo se per il terreno o per l’acqua, ma da queste parti ha sempre un sapore speciale. La piccola aveva finito la sua razione e tornò verso di me. Ne tagliai altre quattro.
-Shukraan

La madre mi aveva ringraziato fissandomi. Aveva grandi occhi nocciola e un naso regolare. Quando finirono la donna si alzò. Si mise a tracolla una piccola borsa di tela. Prese la mano al piccolo e si rimise in braccio Zayneb. Mi alzai, l’altra metà dell’anguria rimasta, la misi nella busta insieme col temperino e gliela porsi. Mi ringraziò con un leggero inchino.

-In bocca al lupo.

– Inshallah Rabbi mak. Rispose.

Si allontanarono camminando in mezzo alle sterpaglie. La piccola si voltava per guardarmi. Sorrideva, ripetendo Batikh!

Buona fortuna, ripetei dentro di me, ovunque stiate andando.

Scomparvero duecento metri dopo, dietro un muro a secco. Gettai le bucce in una depressione naturale del terreno, coprendole con un po’ di terra. Più tardi le formiche avrebbero fatto merenda. Presi la sporta con la seconda anguria. Era grossa ma sarebbe bastata per sei?
Sì, sarebbe bastata. Non avremmo sprecato nemmeno una fetta di quel frutto verde come la speranza, rosso come il sangue e prezioso come la vita.

 

Ringrazio Francesca Oggiano, giornalista, viaggiatrice e amica.

 

Batikh = Anguria in arabo classico

Ommi = Mamma

Shukraan = Grazie

Inshallah Rabbi Mak = Che Dio sia con te. Grazie

 

 

 

 

 

 

 

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… Cocommero!

di Tonino Benedetti

 

… Cocommero!,… Innanzitutto cocommero con due “m” perché per me, l’estate, é sempre stata l’immagine di un immenso, gigantesco cocommero (almeno superiore alla dozzina di chili!)

 

… Mio padre, a supporto della sua infantile passione per il cocommero, aveva i suoi cocommerari di fiducia sia “vicino” casa (per lui, il più affidabile era sempre quello al bivio della Cassia, a quasi dieci chilometri da casa) che al mare (anche qui, almeno due chilometri da casa: gli altri cocommerari, per lui, non valevano niente…) ed il cocommero si comprava (tassativamente) solo da questi due cocommerari…

 

… E, ad ogni acquisto, inseguivamo, insieme, sempre il più grosso e, di conseguenza, secondo mio padre, il più dolce… e, ad ogni acquisto, i riti erano sempre gli stessi e in quest’ordine:

  1. tambureggiare con le nocche sulla scorza per ascoltare un suono propiziatorio che non ho mai capito;
  2. interrogatorio del cocommeraro sulla provenienza del cocommero (la bonifica pontina era sempre il regno del cocomero migliore… ma dove si trovavano le mitiche “pianure pontine”?,… io immaginavo luoghi lontanissimi ed irraggiungibili “solcati” da cavalieri solitari che “catturavano” il cocommero solo per mio padre… insomma, un western cocommeraro!!!…);
  3. lunga trattativa sul “tasto” a perdere ( la prova !!! ,… ovvero un patto tra gentiluomini: se il cocommero non fosse risultato dolce e rosso come dalle aspettative, non lo avremmo comprato)…

… E, infine, il gigantesco cocommero veniva acquistato e portato in trionfo a casa… quattro piani senza ascensore erano il tributo alla divinità cocommerara, mentre la Sibilla (mia madre) appena arrivati, sibilava: “ … e mo ‘, dove lo metto ?, … Nel frigo non c’entra!!!,… sempre esagerati!!!

 

… Al mare era ancora peggio perché l’enorme cocommero veniva poggiato sul misero portapacchi della bicicletta di mio padre ed il viaggio era sempre (molto) traballante e, alcune volte, finiva per concludersi anzitempo con il cocommero spiaccicato sull’asfalto nero in mille pezzi rossi …

 

… Poi si cresce, il cocommero diventa anguria, si scoprono donne che si potrebbero ubriacare di cocommero e donne (un po ‘snob?) che non lo mangiano perché ci si sporca la faccia… e, proprio per queste ultime, ti inventi la macedonia di cocommero… anzi, di anguria: tutti cubetti rossi (addirittura) privati ​​dei semi neri!!!

 

… Ma la divinità cocommerara non sempre aiuta e, spesso, molto spesso, l’accoppiata cocommero/amore non riesce… perché, per sapere anticipatamente come sarà l’amore, non è possibile cercare il suono propiziatorio battendo con le nocche (dove?) o fare il “tasto” …

 

… Ma il mitico grande, enorme cocommero delle pianure pontine è sempre lì, pronto a consolare, con la sua dolcezza, le nostre estati, eventualmente, solitarie…

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Cucumeris limes

di Francesco De Ficchy

 

Falzes, Chienes, Onies; poi Cherz, Mareson-Pecol, Puos, San Pietro in Gù: tutta una toponomastica che da carnica si fa via via venetica e celtica lungo la dorsale nordadriatica, e solo passata Padova inizia a riposarsi sul letto di una qualche koinè italica, da Chioggia verso i Lidi di Comacchio seguiti dagli Estensi e da quelli Ravennati: la via Romea che per molti, lunghi anni di emigrazione interna mi ha portato, durante le vacanze estive, da quasi il confine appunto alla capitale, me insegnante mezzo romano, mezzo veneto e mezzo non so; e se nei primi chilometri la guida di montagna mi costringeva a procedere come un cavallo coi paraocchi, quando finalmente raggiungevo il lungo, riposante viadotto chioggiotto e per qualche minuto, pur correndo sul filo del limite di velocità, mi trovavo ad est come ad ovest dal mare, potevo iniziare a distendermi in una dimensione meno affannata. Notavo allora, lungo i lidi veneti, baracchini che vendevano “Angurie intere o a fette!”; e questa parola richiamava al mio orecchio altri termini che pure con essa nulla hanno in comune, quali Angst, angustia, angoscia; forse persino il greco Ananke; nulla in comune con l’anguria, se non qualche triste sonorità; ma molto in comune tra loro: il senso del negativo, del timore, del bisogno, della mancanza. Io allora mi sentivo ancora in parte prigioniero, ‘foresto’ in terra straniera, io detestato e rifiutato perché romano (erano gli anni di “Roma ladrona”) e figlio di una veneta traditrice, finita a vivere a Roma moglie di un romano, io più che mai all’epoca scisso tra le due identità, nessuna delle quali indossata come un abito di sartoria bensì come un prêt-à-porter di due taglie sbagliato. Ma proseguivo, correvo oltre; e presto vedevo la scritta mutare in “Qui cocomeri belli!”, o qualcosa su quella falsariga; e allora capivo di essere sui lidi ferraresi, il rodigino alle spalle: avevo passato il confine, il mio limes linguae, e questa voce caratterizzata dall’allitterazione interna della prima sillaba, con quel suono un po’ gallinaceo e cordialmente popolare che sempre mi ricorda la cocotte della poesia di Gozzano, mi dava e dà la stessa tranquilla allegria di molti suoi versi; e quella chiusa, poi!, quella seconda metà – quasi secondo emistichio – della parola: “-mero”: come a dire semplice, dappoco, senza pretese: tutto il contrario della pomposa, pretenziosa voce settentrionale (seppur di lontana ascendenza bizantina) ‘anguria’: finalmente cominciavo a sentirmi quasi a casa. Quasi, ma non del tutto: una o due volte infatti, nei primi anni, non avevo resistito e mi ero fermato a quei capanni a mangiare di quelle fette; ma ogni volta fu una delusione: che differenza tra quei cocomeri di produzione locale – troppa l’acqua, troppo poco il sole – e quelli che con mio padre si andava a comprare, partendo dalla casa al mare a sud di Roma, ad Aprilia, a Nettuno, Campoverde o Sabaudia – secondo la spiaggia o la campagna che ogni giorno sceglievamo per il bagno o per il pranzo. Quelli sì, erano e sono cocomeri! Con il loro bel nome latino e cordiale, nessuna ombra di Angst, nessun sentore di angoscia in quei tre colori; anche se ad essi è legato un altro mio limes personale, uno dei confini che tracciano le nostre vite. Fu quello dell’ultima mia umiliazione infantile: dieci anni appena compiuti, una scorpacciata, di tarda sera, di un cocomero portato a casa da mio padre da Latina; poi a letto poco dopo, letto a castello in alto, mi sveglio nel cuor della notte col bisogno di correre al bagno, ma la paura del buio, quella di scendere da solo dal letto di sopra, quella di svegliare mio fratello e forse altri… me la feci addosso e passai una notte orribile nel letto bagnato e puzzolente, e una giornata persino peggiore quando lo dovetti dire a mia madre. Pure, se devo indicare il limite ultimo della mia infanzia, scelgo quell’episodio; e se quel cocomero è una madeleine, essa non mi ricorda una nonna: mi ricorda me stesso.                 

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I cocomeri di San Lorenzo *

di Elvira Bianchi

 

10 agosto 1944, San Lorenzo. Una donna è in fuga dalla guerra, dai fascisti e dai tedeschi che stanno per far saltare in aria il suo paese. È con un gruppo di altri disperati che come lei cercano la salvezza e la libertà. In questo cammino faticoso e irto di pericoli porta con sé, spesso sulle spalle, la sua bambina dalle lunghe trecce e lo sguardo furbo. Per la piccola, che ha solo sei anni, questo viaggio è un’avventura che le fa provare stupore e meraviglia a ogni passo. Fa caldo, c’è afa, e le cicale friniscono nei campi mentre i contadini nascondono le fascine di grano in buche profonde, prima che le trovino i tedeschi per portarsele via. Il pericolo è dappertutto, in ogni fruscio. E la fame e la sete, dopo giorni di cammino, iniziano a mordere, crudeli. La donna è esausta e soprattutto è preoccupata per la sua bambina che, inconsapevole e allegra, corre e salta come una cavalletta affamata nel giallo delle spighe e del fieno. Ma la natura è prodiga e sempre accudente, materna. Sotto il sole accecante un campo apparentemente secco e brullo all’improvviso rivela i suoi tesori: una distesa di cocomeri belli tondi e maturi. La salvezza non tanto dalla fame, ma dalla sete. Ognuno a modo suo li spacca, li apre, li divide in pezzi da distribuire. E il succo dolce, zuccherino, sembra una manna, dà refrigerio e sollievo alle gole assetate, alla pelle del viso arsa, alle labbra spaccate dal sole. La donna si apparta sotto l’ombra di una quercia. Non è bella, ha un grosso angioma sulla guancia destra, che, a pensarci bene, ricorda il rosso della polpa dei cocomeri e, invece di sfigurarla, le dà un che di sensuale e selvaggio. E lei lo sa che questa sua naturalezza istintiva attira gli uomini, che le ronzano attorno come mosche e la corteggiano anche quando, come ora, è vestita di stracci. Ma lei si sente una regina e la sua bambina dalle lunghe trecce è sicuramente una principessa. Le bretelle di una sottoveste sdrucita e macchiata le sono scivolate dalle spalle e lei, con fare voluttuoso, sta usando una fetta di cocomero come fosse una spugna intrisa d’acqua, passandosela sulle braccia, sul viso, sul petto, gli occhi socchiusi in un’espressione languida, di piacere. Un uomo la sta guardando rapito, quasi imbambolato. Lei se ne accorge e gli sorride. Lui si avvicina, le strappa dalle mani la fetta di cocomero, ci tuffa dentro la faccia, la bacia, la morde. È come un amplesso sublimato, complice un semplice frutto, in un momento di inaspettato erotismo.

* Ispirato a una scena del Film LA NOTTE DI SAN LORENZO dei Fratelli Taviani

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Il cocomero è amore

di Sara De Felice

 

Era il lontano 20 maggio 1967 e, come ogni giorno, mi stavo recando a lavoro. Lavoravo in una piantagione di cocomeri nell’Agro Pontino. Il sole picchiava forte sulla schiena e il caldo mi faceva perdere totalmente le forze. Quella mattina, il capo ci diede il permesso di scegliere un cocomero per coltivarlo, e poi, come regalo, portarlo a casa. I 3000 ettari di terra erano separati così da organizzare meglio il lavoro. Io ed altri 19 operai eravamo gli ultimi. Ognuno di noi scelse un cocomero. Passarono 30 giorni e già i succosi frutti davano bei segni; tranne il mio. Ogni giorno lo innaffiavo, facevo sì che prendesse tutto il sole di cui aveva bisogno, e solitamente rimanevo più tempo a lavoro per accudirlo. Purtroppo dopo poco tempo, una parte della piantagione è stata colpita da un parassita pericoloso: l’afide. Fortunatamente fu fermato in tempo ma gran parte dei cocomeri andarono persi, compresi i nostri. I miei compagni sradicarono le radici e vi piantarono altri. Io, invece, lo lasciai lì. Mi ero affezionato a quella piantina e non riuscivo a separarmene. L’avevo piantata con le mie mani, l’avevo curata e non potevo di certo permettere ad un insetto di rendere vane tutte quelle attenzioni. Il tempo passava e gli altri cocomeri crescevano, seppur minuti, con un bel colorito. Il mio cocomero era tutto raggrinzito e pareva non voler crescere. Dopo soli due mesi il raccolto andava a gonfie vele. Io nel frattempo mi dedicavo alla fragile piantina ormai divenuta un vero e proprio cocomero. Con l’utilizzo di vari concimi si era ripresa al meglio però, purtroppo, non mi dava soddisfazioni. Non cresceva rispetto agli altri e, per giunta, era orrendo. Finalmente venne il giorno della raccolta. Controllavamo ogni singolo frutto per assicurarci che fosse perfetto. Lo coglievamo e, infine, dopo tanto lavoro venne il turno dei nostri. Prima di coglierlo, scrutai a fondo il mio “premio”: era di un colorito sano ma spento e, inoltre, era al di sotto della media per la grandezza. Come sempre, rimasi un’ora in più mentre gli altri, soddisfatti, portavano i loro cocomeri a casa. Alla fine mi decisi e abbracciandolo al petto, mi incamminai verso la mia dimora. Non ci fu stupore, né quantomeno allegria. Era la stessa monotona serata. Tutti sdraiati sul divano aspettando che tornassi. Non mangiai neppure. Poggiai delicatamente il cocomero sul tavolo ma nessuno parve curarsene. Cominciai a tagliare diverse fette. L’odore inebriò la stanza e vi rimase quel delicato profumo nell’aria. A uno a uno iniziarono ad alzarsi e ad assaggiare quella prelibatezza. Mordendo ferocemente quei pezzi, cominciò a scendere quel succo zuccherato e, le labbra bagnate si coloravano di un rosso tenue. Le bocche si allargavano e i denti sporgevano tramutandosi in splendidi sorrisi e, inaspettatamente, la tediosa sera parve scorgere un nuovo lume e rimanere accecata da quella bontà. Era da tempo che non ridevamo insieme; era da tempo che non ci sentivamo davvero felici. Ciò che intendo dirti, tesoro di nonno, è che non importa quanto una qualsiasi cosa, talvolta una persona, possa sembrare poco piacevole, l’importante è rimanere sempre te stesso. Prenditene cura, sollecitala, apprezzala per quel che è. Non pretendere mai troppo, ma accetta sempre quello che ha da offrirti. Quando meno te lo aspetti ti regalerà gioia, felicità, soddisfazioni, ma soprattutto ti restituirà tutto l’amore donatogli. Io ho letteralmente amato il mio cocomero fin da quando era una piantina minuscola e, nonostante le intemperie, non mi ha deluso. Il calore del Sole non è stato nulla in confronto al calore che gli ho donato standogli a fianco. Per cui, Carlo, non temere, crescerai, a volte cadrai, alle volte no. Crescerai fisicamente ma soprattutto interiormente. La vita ti metterà davanti qualsiasi tipo di avversità, però ricorda che dovunque andrai, porterai con te tutto l’amore che ti ho donato fin da quando eri anche tu una piccola piantina, la mia piantina; il mio amato cocomero. Il calore del Sole non è stato nulla in confronto al calore che gli ho donato standogli a fianco. Per cui, Carlo, non temere, crescerai, a volte cadrai, alle volte no. Crescerai fisicamente ma soprattutto interiormente. La vita ti metterà davanti qualsiasi tipo di avversità, però ricorda che dovunque andrai, porterai con te tutto l’amore che ti ho donato fin da quando eri anche tu una piccola piantina, la mia piantina; il mio amato cocomero. Il calore del Sole non è stato nulla in confronto al calore che gli ho donato standogli a fianco. Per cui, Carlo, non temere, crescerai, a volte cadrai, alle volte no. Crescerai fisicamente ma soprattutto interiormente. La vita ti metterà davanti qualsiasi tipo di avversità, però ricorda che dovunque andrai, porterai con te tutto l’amore che ti ho donato fin da quando eri anche tu una piccola piantina, la mia piantina; il mio amato cocomero.

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Il Cocomero è il messaggio

di Giulia Zanin

 

Giulia aveva ricevuto un messaggio. Quel messaggio la invita a partecipare ad un concorso letterario, sotto era allegato il link con le informazioni su esso. Giulia era felice, effettivamente era da un po’ che non scriveva nulla e partecipare ad un concorso poteva risultare una esperienza divertente. Quindi Giulia aprì il link, curiosa di sapere quale fosse il tema. Ne rimase stupita; il tema era: scrivi sulle emozioni, sensazione e sentimenti che provi quando mangi un cocomero pontino. Ora, il tema era parecchio bizzarro, quando Giulia lo fece leggere alla madre anche lei ne rimase stupita, a dirla tutta, l’intera famiglia ne era abbastanza stranita. Ma comunque la madre di Giulia le disse che avrebbe dovuto partecipare, che il tema non era affatto banale, e che poteva uscirne qualcosa di profondo, ad esempio, disse, Erri de Luca aveva scritto una poesia bellissima e molto emotiva sul profumo dei limoni e sul ricordo dell’infanzia passata con la madre che l’odore gli riportava alla memoria. Perciò Giulia si mise prima a fare qualche ricerca veloce su testi o poesie dedicati all’anguria, per trovare ispirazione, ma tutto quello che riuscì a trovare erano poesie patriottiche che legavano i colori del cocomero, verde, rosso e bianco, alla bandiera italiana. Non avendo trovato nessuna ispirazione, Giulia si mise a scrivere, buttando idee a caso; ma il primo testo che venne fuori era davvero brutto, tanto che arrivarono commenti da parte della sorella e dell’amica parecchio offensivi, come: «Davvero, Giulia, è orrendo, è pesante», oppure, «non è assolutamente il tuo stile». In parte Giulia approvava, ma pensava anche che, in fondo, potevano andarci anche più piano con gli insulti sul testo. Allora decise di scendere in cucina e di provare ad assaggiare il cocomero, per fortuna qualche giorno prima il padre aveva comprato delle angurie (e ne era tanto felice perché provenivano da Sabaudia).

Quindi Giulia prese un cocomero, quello che sembrava più maturo, lo tagliò a fette e ne assaggiò una. Mentre masticava stette attenta a quali sensazioni, ricordi o emozioni provava. Ma più si sforzava e si concentrava, meno sentiva qualcosa che le poteva essere utile al concorso, il cocomero era buono, profumato, rosso, bianco, verde, di Sabaudia, ma solo quello.

49

Il piccolo furto

di Claudio Marrucci

 

S’era tutti degli smargiassi, imberbi e mingherlini. In sella sui nostri bolidi si pedalava sull’acciottolato del selciato, lì dove la civiltà dell’asfalto finiva e s’apriva innanzi a noi l’aperta campagna. S’andava di furia, col vento che scompigliava i capelli, nelle discese delle strade senza nome. Si gareggiava a chi per primo ponesse la ruota davanti. Si correva a velocità marginali, che a noi imberbi smargiassi sembravano competere con la brezza dell’aria.

L’odore di terra riarsa dal sole, il latrato di qualche cane da guardia. E noi soli diretti al mare, attraversavamo impunemente un campo di cocomeri assolato.

Nella canicola estiva, la gola ruggiva. Pedalata, dopo pedalata, mentre le grandi corse sfilavano alla televisione, le nostre bici pesanti s’incagliavano sul terreno.

Eppure nessuno di noi gridava l’attesa. Si voleva essere tutti uomini, tutti cresciuti, tutti forti.

E si mangiava la polvere pur di non attardarsi sulle salite che ci separavano dal mare.

 

Ma al ritorno, al ritorno. Dopo i tuffi e il sale del mare. Dopo il sole e l’arsura del giorno. Dopo il filo alle ragazze che si riusciva solo a far girare con un fischio, nascondendo la mano, tremante per la vista di forme proibite.

 

Al ritorno si pedalava, come l’andata, mentre Pantani e Amstrong davano spettacolo e il tedesco Ulrich arrancava, sempre alla ruota.

Pantani, un grande ciclista, il più forte di sempre. Il pirata l’era il nostro idolo.

 

Ma la potenza dei muscoli, la lunghezza delle leve, l’elasticità delle giunture, imponeva una rigida gerarchia.

E così, un giorno, d’improvviso, stanchi del solito ordine d’arrivo, s’inventò una variante sul luogo. E così mentre s’attraversava i campi di cocomeri e il contadino era riparato nell’aia e il maremmano legato alla catena, fermammo di colpo le bici.

 

Affondate le mani nella terra, con l’ausilio di un fido coltellino. Ripartimmo ognuno con una verde zavorra infilata sotto la maglietta, tra la pancia e il manubrio.

 

Si corse, si corse più veloce di Ulrich. Si corse più veloce di Amstrong. Si corse più veloce di Pantani. Sulle salite delle strade senza nome si pestavano i pedali, mentre il maremmano abbaiava di lontano e il contadino usciva per calmarlo, senza accorgersi del piccolo furto.

 

Si corse più veloce della brezza, sotto il sole che ardeva la pelle. E appena ritornammo sull’asfalto assolato, si spaccarono i cocomeri.

E l’ordine di arrivo, non importò più molto, quando ognuno di noi affondò le labbra riarse nella polpa rossa che aveva sottratto.

50

La Casetta

di Daniela Camici

 

La mattina che Diletta e sua madre sarebbero andate in campagna era la gita più bella dell’estate.

Significava togliersi le scarpe appena arrivati ​​e rimettersele la sera prima di andare via. Si alzavano presto. Prendevano il pullman che avrebbe lasciato sulla strada, vicino all’entrata della caserma militare, bisognava costeggiare la strada per duecento metri e poi prendere una stradina di campagna fino alla casa. A quell’ora il silenzio era irreale, il cielo era azzurro, ogni passo sembrava il primo passo in un mondo sconosciuto e selvaggio. La casa era piccola e bassa, ed emanava un forte odore di muffa. Il bagno era fuori, vicino la stalla e per arrivarci bisognava attraversare il corridoio dove erano tenute otto mucche facendo attenzione a eventuali calci. Per il resto era una casa come le altre.

Tutte cose che non avevano nessuna importanza per lei. Avrebbe passato tutta la giornata scalza, in pantaloncini e canottiera, tra i campi e il pagliaio. Per quel giorno lei e suo cugino erano amici inseparabili, come se si vedessero ogni giorno e non in quell’unico giorno dell’anno quando sua madre diceva “Domani andiamo alla Casetta”. Ogni anno la magia si ripeteva. La sintonia era perfetta, invisibili correvano ovunque alla ricerca di rane, insetti, fiori commestibili, nidi di uccelli, ghiande da mettere in tasca, da mostrare come trofei preziosi e introvabili, la ghianda era liscia come un pomello di legno e morbida al tatto. Era importante non separare il seme dalla cupola che lo rivestiva perché se ciò accadeva la ghianda avrebbe perso tutto il suo valore e bisognava solo buttarla.

C’erano poi i cocomeri scaldati dal sole, lasciati nei campi, un colpo secco uno contro l’altro e si spaccavano in due. Si immergevano allora le mani nel cuore, il succo zuccheroso colava da tutte le parti, appiccicoso si infiltrava sotto i vestiti correndo veloce lungo le braccia. Poteva sforzarsi ma di quelle giornate non ricordava né parole né suoni, erano come un film a colori muto, ricordava i piedi che affondavano in terra arata da poco, la paglia che pungeva le gambe, le foglie verdi del mais che tagliavano passandoci in mezzo veloci.

Al tramonto tornava a casa anche il trattore e i bambini potevano sedersi o dietro nel rimorchio o i più temerari sul parafango rosso.

Si tornava a casa tra le solite promesse, si diceva di rivedersi presto sapendo che si sarebbero rivisti l’estate prossima. Nel percorrere il sentiero inverso sembrava di lasciare per sempre un mondo in fondo sconosciuto dove essere sporchi e scalzi era possibile, dove non c’erano ancora recinti o filo spinato, dove la natura prevaleva e dettava legge, dove lo spazio era a perdita d‘occhio e la piccola casa scompariva rapidamente alla vista.

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La cura del cocomero 

di Alessandra Scarpinella

 

Mio fratello G. ha sempre amato mangiare per il gusto e la convivialità, ma tutto ha un prezzo: nel suo caso una certa simpatica floridezza.

Da ragazzo, però, scoprì un rimedio infallibile: la cura del cocomero, ma non di uno qualsiasi, di quello a km 0.

Una dieta estiva zuccherina e stuzzicante, fresca ed appetitosa?

Effettivamente sì … ma nel suo caso non esattamente.

La sua cura consisteva nello svegliarsi alle prime luci dell’alba durante le vacanze estive e dopo una notte -si spera- brava da studente in libera uscita, inforcare il motorino e raggiungere sterminate distese di campi coltivati ​​ad angurie.

Qui lo aspettavano gioviali capisquadra, che non avrebbero sfigurato nei campi di cotone della Louisiana prima della Guerra di Secessione che, dopo un breve ed ingannevole saluto con accento campano, lo mettevano spietatamente al lavoro.

Lui e altri giovani, volenterosi ma squattrinati, raccoglievano i deliziosi enormi cocomeri fino a che il loro sudore non finiva per mescolarsi al succo dolce dei frutti maturi.

La sua possanza fisica lo rendeva il soggetto ideale per il lancio dei “bestioni” al compagno sul camion cosicché, a fine stagione, il mio fratellone, oltre a qualche soldo in tasca, reso ancora più prezioso dalla fatica spesa per guadagnarselo, si ritrovava anche parecchi chili di meno ed un fisico scultoreo ed abbronzato.

Da ragazzina ascoltavo rapita i suoi racconti sulle epiche battaglie innescate, come da una scintilla, dal rosso acceso della polpa dei “caduti sul campo” che i nostri giovani eroi della “Compagnia dell’Anguria” raccoglievano da terra e si scagliavano contro a mo’ di proiettili, ma solo dopo averne estratto ed assaporato il cuore fresco e dolcissimo.

Con il tempo e l’esperienza mio fratello mise su una squadra tutta sua e, quale “Masaniello dell’Anguria”, ne difese i diritti.

La leggenda narra che, di fronte al tentativo truffaldino di pagarli la metà del soldo pattuito, il nostro balzasse sul camion pieno e, brandendo il Re dei Cocomeri, minacciasse di farne poltiglia insieme al resto del raccolto saltandoci sopra con tutto il suo peso.

I patti furono rispettati, l’onore salvato, ma per i nostri indomiti raccoglitori fu l’ultima stagione.

E ancora oggi assaporare le succose fette vermiglie, punteggiate da lentiggini nere, dei cocomeri nati e maturati sui nostri campi, è un piacere che ci trasporta nell’atmosfera soleggiata, meravigliosa e troppo breve, di quelle lunghe estati.

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La Sfida

di Massimo Porcelli

 

Il Campione aveva parecchie primavere alle spalle. Anzi, considerata la stagione, alle spalle aveva molte più estati dei suoi Sfidanti.

Per questo aveva maturato molta più esperienza e vinto molte più sfide di quante potessero vantarne gli altri, ancorché questi ultimi fossero animati da un chiassoso e spavaldo entusiasmo.

La scelta del campo per la sfida era stata casuale, frutto di un fortuito incontro di circostanze che aveva determinato il coinvolgimento di una folta rappresentanza di congiunti di entrambe le parti i quali, nell’attesa dell’inizio della tenzone, si aggiravano a loro volta vocianti e, in fondo, ignari di ciò che sarebbe avvenuto di lì a non molto.

In realtà, nessuno delle opposte fazioni era giunto consapevole degli eventi successivi.

L’assolata giornata estiva volgeva verso quella parte che fa agognare il sollievo dell’incipiente meriggio inoltrato, con il sole che allunga le ombre in tal modo che un gioco infantile, che il Campione ricordava fare, era quello di vedere quanto più lunghe fossero diventate le gambe che, dipartendosi dai piedi, si stagliavano sul terreno.

Ripresosi da questi ricordi, che un malinconico sorriso avevano contribuito a far fiorire sul viso, con lo sguardo addolcito rivolto ai suoi Sfidanti, il Campione aveva richiamato la loro attenzione e, con voce autorevole, aveva parlato:

«Le regole sono queste: dobbiamo stare tutti sulla stessa linea di partenza. Nessuno dovrà oltrepassarla, altrimenti si viene penalizzati. Dopo due richiami, esclusione dal proseguimento della gara! Ognuno di noi avrà a disposizione un unico “caricatore”. Vi è tutto chiaro?»

Alle grida assertive degli Sfidanti, parecchio vocianti e irrequieti, il Campione tracciò sul terreno la linea dalla quale ognuno di loro, senza oltrepassarla, avrebbe dovuto battersi.

Mentre l’agitazione innescata dall’adrenalina scatenata dall’imminente sfida innalzava il volume delle grida degli Sfidanti, il Campione – perché era a lui che toccava questo compito – prese il vassoio con i “caricatori” già ordinatamente predisposti.

Il loro rosso intenso era inframmezzato, in maniera quasi ordinata, da neri “proietti” che di lì a poco sarebbero stati sparati, con quanto più vigore possibile, dai partecipanti alla sfida.

Il Campione procedette alla distribuzione dei “caricatori”, faticando non poco a mantenere gli Sfidanti in ordine sullo schieramento. Ognuno di essi voleva per primo accaparrarsi quello che, ad una prima veloce occhiata, appariva più ricco di “proietti”.

Infine, completata la distribuzione degli armamenti, si fu pronti e ancora una volta toccò al Campione dare il via, annunciando con voce stentorea:

«Quando abbasserò il braccio, via alla gara di Sputazzellam!!!»

Dopo un attimo di sospensione il braccio si abbassò repentinamente e tutti, il Campione e gli Sfidanti, spalancate le fauci affondarono voracemente i denti nei “caricatori”, le succose e rosse fette di cocomero!

Rivoli di liquido zuccherino colarono dalle bocche di ognuno. Immediatamente dopo, riempitesi di “proietti” e gonfiate le gote, soffocando le risate che cercavano di irrompere alla vista l’uno della faccia dell’altro, li spararono con quanto più vigore per raggiungere la maggiore distanza possibile.

Ci furono raffiche ripetute: azzanna, mastica, seleziona i “proietti” mentre ingurgiti la dolce e succosa polpa, soffoca il riso cercando di non soffocarti a tua volta e… infine, Sputazzellam – appunto – i neri semi fin quando ne hai!!!

La constatazione che la Sfida – con alcuni semi a poco meno di 3 metri dalla linea di tiro, complice un inspiegabile e provvidenziale refolo di caldo vento estivo – fu vinta non già dal Campione in carica ma dal giovane Daniele, Sfidante di appena 6 anni, concluse allegramente la singolar tenzone.

Al nuovo e giovane Campione di Sputazzellam vennero tributati gli onori che le circostanze imponevano.

L’ormai ex Campione ed il neo incoronato Campione si salutarono dandosi appuntamento ad una prossima sfida di Sputazzellam, augurandosi reciprocamente « Vinca il migliore!».

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La voglia bambina

di Annamaria Sanguigni

 

Le vacanze cominciavano appena le Scuole chiudevano i battenti.

Poi, correva alla Tenuta San Martino.

Un gioiello dell’Agro Pontino, con ettari di grano che, nella stagione calda, splendevano al sole colmi di spighe d’oro.

Stalle stipate da centinaia di mucche olandesi, dai nomi semplici e affettuosi. Rosetta, Camilla, Lillina, Morella …

Nel momento della mungitura si sentivano lamenti languidi. Una nenia che lasciava l’eco fra i poderi intorno, fino all’ora del tramonto.

La mattina, appena sciacquato il viso e messo un fiocco fra i capelli, il primo boccone era una fetta di pane, olio e zucchero. Una tazza di latte caldo con un dito di panna, e via per i campi con i figli dei vaccari.

La spianata dei cocomeri appariva come una distesa di frutti tondi. Piccoli Dèi che si rivolgevano al sole e ne succhiavano la linfa vitale.

Loro, bambini, correvano verso un pianeta sconosciuto, certi di trovare il succo della dolcezza infinita, che li avrebbe trasportati nello spazio magico.

Il piccolo sole, dal colore verde brillante, mostrava con vanità le strisce scure che gli correvano lungo i fianchi.

Rubarlo e staccarlo con un colpo secco dal suo picciolo robusto era un gesto che ripetevano ogni estate.

Lo alzavano su per poi spaccarlo al suolo. La polpa rosso fuoco si mostrava come carne viva offrendosi alle loro bocche ansiose.

I piccoli semi neri, perle notturne, nella voglia impellente si infilavano fra i denti, e quel loro mangiare frettoloso li eccitava da capo a piedi.

Finalmente appagati, strofinandosi le labbra con gesto svogliato e brutale, sentivano di aver vissuto un momento proibito, trasgressivo. Quasi un peccato.

E così tutto si ripeteva ogni anno con la stessa ansia di ritrovarsi in quel luogo e insieme godere di tanta vertigine.

Finché la fanciullezza non li avrebbe lasciati.

Ma non avrebbero mai dimenticato.

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Le angurie di Socrate

di Rosa Liparini

 

Oggi c’è un gran tumulto! Leggendo un libro sulla civiltà greca, Don Tommaso Primontari di Stelluccia delira! Attratto dalla Grecia, crede di essere Socrate! Entra nel ruolo si immedesima nell’eroe e ne veste i panni, ne copia le gesta e parla perfino in greco-romano talmente ridicolo da suscitare l’ilarità. Cambiati i nomi di moglie e figlia in Santippe e Calpurnia vaga nel paese parlando alle piazze come se stesse ad Atene ed inoltre il birbone … ne approfitta per corteggiare le dame, come esca il suo vero debole; la moglie, la figlia e la fantesca si uniscono alla comare, conosciuta nel borgo come saggia, per stringere la storia, Don Tommaso viene irretito da Don Vincenzo, ricco e furbo, Don Tommaso delira solo pensando alla croccantezza, alle forme e ai colori delle angurie e ne è talmente goloso, al punto di perdere la lucidità. La moglie, la figlia e la fantesca si uniscono alla comare, conosciuta nel borgo come saggia, per stringere la storia, Don Tommaso viene irretito da Don Vincenzo, ricco e furbo, allo scopo di sposare Cristina ma le nozze non possono avvenire, Cristina è promessa segretamente ad Ippolito, che la ama teneramente e comunque Don Tommaso ha ormai l’età di dar l’ossa ai ceci. Ippolito avverte la sua bella di aver visto il vecchio vantarsi di andare presto dal padre a chiedere la sua mano offrendo tutte le sue sostanze i due si giurano eterno amore e guerra spietata all’ambizioso Don Vincenzo che ha però scoperto la pazzia di Don Tommaso, e pur di raggiungere lo scopo lo aiuta e lo segue in un turbinio di follie accetta perfino un nuovo nome greco, egli sarà Platone! Convertendosi per giunta anche alla cura del cocomero, diviene complice di Don Tommaso e copre le sue tresche amorose e quando chiede la mano di Cristina, armato di un carretto carico di angurie, Don Tommaso cede. Si organizza una festa greca in casa di Don Vincenzo per il fidanzamento, si balla e si mangiano i cocomeri. Don Vincenzo per compiacere il suo nuovo suocero ha preparato il Giardino delle Esperidi con tanto di alberi da frutto, orti di cocomeri tondi, ovali e zuccherini a perdita d’occhio. Si dà inizio alle danze e il falso Socrate si intrattiene con le dame, fino a ricevere una dose di randellate dal farmacista per avergli insidiato la moglie. Donna Rosa quindi, passa al contrattacco, ella stessa si getterà nel vortice del ballo, corteggiando Don Vincenzo in una scatenatissima tarantella, che farà ingelosire il marito, distruggerà la tresca e il poverino dovrà capitolare e perdere la partita! Nel vedersi tradito e sconfitto Don Tommaso vuole morire, ma vuole farlo proprio come il vero Socrate, si farà preparare una buona ciotola di sana cicuta preparata dalla fedele Ipsa e se ne andrà da questo mondo, recitando la solenne apologia del vero Socrate. In effetti, nella ciotola, non c’è il veleno, ma un potente sonnifero che gli viene furbescamente somministrato dalla moglie e quando lo ingerisce cade sul sofà saporitamente addormentato. Nel frattempo, tutti i suoi cari gli preparano un pauroso risveglio all’averno, Donna Rosa fingerà di essere la vera Santippe e spaventandolo con la scena dell’oracolo di Delfi, gli darà la lezione, otterrà una piena confessione di tutti i suoi misfatti con scuse formali per aver ordito la trama. Zeus in persona decreterà la pena e lo condannerà per i misfatti. Ogni qualvolta corteggerà una dama, riceverà la tremenda punizione decretata dagli Dei, non appena si avvicinerà ad assaggiare una sola fetta delle sue tanto amate angurie, il suo corpo si coprirà di bubboni grossi come cocomeri, calvizie in testa e prurito dove non batte il sole, nessuna dama vorrà più avvicinarlo! Tuttavia, per intercessione del vero Socrate, gli Dei avrebbero anche potuto chiudere un occhio sul consumo dei cocomeri; la punizione non avrebbe avuto alcun effetto, solo nel caso in cui li avesse consumati con la sua legittima sposa! Al risveglio nell’averno, il meschino si pente, concede la mano di Cristina ad Ippolito ed arriva alla pace con Donna Rosa ma… Don Tommaso, avrà veramente detto addio alle sue amate angurie?

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Sabaudia, fra Angurie e Fabula

LE AVVENTURE DELLA SIGNORA DAINA

di Guglielmo Pappalardo

 

Questa qui è una fiaba, una di lassù, di Latina, di Sabaudia -la Città Bianca dell’Agro Pontino- fra selva, laguna e mare. È una fiaba sul cocomero (e non solo) ma -attenzione! – non su uno qualunque ma sul più gustoso del Mondo: il Cocomero Pontino! Come??? Non lo conoscete? Bé allora bando alle ciance. Via con le fiabe!

E tutto ebbe inizio laggiù …

In quella fetta dell’Agro Pontino dov’è il Parco del Circeo, lo scrigno delle meraviglie, coi suoi frassini di Terracina, il Lago dei Monaci, le fiorite dune del Tirreno e … gli animali! Tanti e fantastici, un’esplosione di vita, di versi e di colori.

E nessun animale, proprio nessuno, era più amato dei Daini!

I daini vivevano nel Circeo da anni et annorum e non davano noia a nessuno ma stavano diventando troppi, roba da far tremare i polsi. All’Ente del Parco ci furono discussioni, volarono parole grosse ma alla fine non ci fu niente da fare

Bisogna sterilizzarli e trasferire parte altrove -.

 

Naturalmente i daini non erano d’accordo, e facevano di tutto per non farsi beccare dai Carabinieri Forestali che però riuscivano lo stesso ad acchiapparne uno dietro l’altro

Cosa possiamo fare??? – si domandavano i daini col cuore alla gola – Scappiamo e speriamo .. .- era la triste risposta detta con l’anima in fondo agli zoccoli.

Finché, un giorno, una giovane daina non ha risposto – Io lo so: aprire un’azienda in città! -.

Fu una risposta fuori dal mondo, roba da matti suonati, che fece stramazzare dalle risate gli altri daini ma la nostra giovane daina non si scompose – Se è vero che chi lavora merita rispetto, allora io lascio la selva e vado ad aprire un’azienda -.

E detto ciò alzò gli zoccoli, galoppò via alla vicina città e si presentò in mezzo alla Sala del Consiglio Comunale.

-Voglio aprire un’azienda!

Proclamò fiera la nostra daina, fra le facce paonazze degli assessori e dei consiglieri. Il Sindaco di Sabaudia sudò tutta l’acqua che aveva in corpo, farfugliò leggi e barbe di protocolli ma la giovane daina tirò dritta.

Voglio aprire un’azienda! – e allora il Sindaco allargò le braccia e protocollò le scartoffie – Fate come volete e andate all’inferno! -.

Invece andò ad aprire la sua azienda “Lo Zoccolo d’Oro”, e siccome lì a Sabaudia l’oro erano i Cocomeri Pontini, si mise a commerciarli.

Ebbe fortuna? Eccome!

 

In poco tempo la “ Signora Daina ” (così la chiamavano in città) divenne una formidabile coltivatrice a quattro zoccoli, con una decina di stacchini [1] attorno e questo perché i Cocomeri Pontini (dal Zodiac al Caravan passando per il Sentinel) erano i più buoni del mondo, dalla polpa granulosa, dolce e croccante, roba che faceva muovere i milioni, le imprese, e i cuori in quei 4000 splendidi ettari di terra fra Sabaudia e le altre città dell’Agro Pontino.

Sono soddisfatta – affermava felice la signora Daina che grazie al suo lavoro poteva restare vicina al suo caro Circeo.

Poi, però, una sera …

Ecco dei guai!

Era una sera ai margini dell’autunno, e la signora Daina era tutta sola nel magazzino a tirare i conti dei suoi Cocomeri Pontini quand’ecco, all’improvviso:

Mani in alto! – dei ladri mascherati e armati! Cioè zoccoli in alto -.

Era una squadraccia di brutti ceffi, di quelli che razziano la frutta pregiata per il mercato nero – Niente storie o ti accoppiamo e poi, visto che sei buona, ti rosoliamo dritta nell’olio -.

I briganti sghignazzarono vittoriosi ma non avevano fatto i conti con la Signora Daina! Con un balzo si buttò sulla più vicina leva, la calò e -CRAASH! – tutti i cocomeri rovinarono sui ladri.

A spron battuto corse a quattro zoccoli dai Carabinieri e … bé che dirvi? I briganti finirono in gattabuia e la Signora Daina salvò così la sua impresa.

 

La fiaba è finita? Sì. Ce ne sono altre con la Signora Daina e i Cocomeri Pontini? Certo che sì! Ma non posso oggi raccontarvele. Il tempo delle fiabe è ormai concluso.

E perciò da tutti noi a tutti voi …

GRAZIE

[1] Operatori e tecnici agricoli che monitorano lo stato del cocomero e del terreno.

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Lo chiamerò meros kokos

di Giorgio Bastonini

 

L’uomo barbuto la guardò con gli occhi febbricitanti, si rivestì mentre non perdeva di vista l’imbarcazione ancorata sotto il promontorio, poi le fece una carezza: “Vorrei tanto restare ma i miei uomini contano su di me”, affermò con un sospiro.

“Lo dici a tutte le donne che lasci col cuore in frantumi, immagino”, rispose Circe, i lunghi capelli neri ricci e increspati dal sale.

“Ti voglio fare un regalo”, la condusse per mano fino alla nave, i marinai alla vista della maga si agitarono nervosi, memori della trasformazione in porci da cui li aveva liberati poco prima. Ulisse prese un oggetto tondo con il rivestimento duro.

“È un frutto africano, lo chiamano kokos, la scorza è dura ma una volta aperta potrai mangiare la parte interna”.

Circe guardò la piccola sfera marrone che Ulisse le porgeva e sentì la delusione avvolgerla come un sudario.

“Cosa ci dovrei fare? Assaporare il kokos senza di te? Mai! Se questo frutto deve avere un futuro su queste terre dovrà possedere le caratteristiche che Circe le avrà donato”, e con un gesto di mano fece la trasformazione. Il kokos si trasformò in un frutto oblungo di colore verde.

“Verde come gli alberi del mio promontorio, rosso come il mio cuore che soffre e piccoli semi neri come la labile speranza che tu possa tornare!”

Ulisse sorrise come solo lui sapeva fare, quel sorriso che poteva conquistare popoli e re.

“È una parte del kokos. Meros Kokos“, disse nella sua lingua, la baciò e salì sulla sua nave allontanandosi.

Circe non pianse, guardò il frutto ai suoi piedi e pensò che un ricordo del re di Itaca sarebbe rimasto sempre in quelle terre.

“Lo chiamerò meros Kokos“, disse, “oppure il contrario”.

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O ‘mellone

di Luciano Ferreri

 

Presto papà tira fuori dalla ghiacciaia portatile il cocomero! Presto che si muore di caldo! La voce di mia figlia mi allontana dai miei pensieri e soprattutto dall’incanto delle foglie di un albero sopra la mia testa, che pure attraverso il cappello ombroso, filtravano abbaglianti raggi di sole.

Disteso sull’erba assaporavo il piacere del dolce far niente dopo giorni di lavoro intenso, di pendolarismo ferroviario estenuante, di caldo afoso ed appiccicaticcio, che nel pieno dell’estate mi facevano apprezzare questa bella conviviale tra parenti ed amici nel bel mezzo del bosco. Mi affrettai a tirar fuori dalla ghiacciaia il contenitore di plastica in cui erano sistemati tanti cubetti rossi, la polpa profumata ed invitante di un cocomero.

Era la giusta conclusione di una bella passeggiata e del picnic nel Parco del Circeo. Più tardi avremmo assaggiato dell’ottimo gelato a Sabaudia, ma ora era il cocomero di produzione locale che ci avrebbe rinfrescato e salvato dalla calura estiva, incombente, nonostante la folta vegetazione mitigasse molto l’afa.

Presto papà dammi qua! Insisteva mia figlia.

 Io ero rimasto per qualche attimo sovrappensiero, osservando quei dadi rossi, forse cercando il verde della scorza, che era stato invece tagliato via per preparare in modo più presentabile l’anguria.

Addentai con avidità la fresca e succosa polpa rossa e quel sapore mi riportò con il pensiero a tanti, tanti anni fa.

Passeggiavo sul lungomare partenopeo con la veduta del Vesuvio di fronte, mentre sfregavo sul viso la scorza d’o’ mellone, come si chiama a Napoli l’anguria (ovvero “mellone d’acqua” per distinguerlo da quello a polpa arancione: “mellone di pane”). Mi rinfrescavo immergendo il volto in quel che restava della fetta, che papà mi aveva comprato su una delle tante bancarelle di cocomerai, che nel mese di agosto spuntavano ovunque come funghi.

La fetta era ben gelata perché veniva adagiata dal venditore su blocchi di ghiaccio. Tutti si affollavano a comprarne, perché negli anni Cinquanta, nella mia città la fetta d’anguria era l’unica vera alleata contro l’afa estiva e per noi bambini era una vera leccornia. Io mi soffermavo a rosicchiarmela tutta fino al bianco per rinfrescarmi e per mantenere più a lungo possibile nella bocca quel sapore zuccherino e lievemente aromatico; appena gettata via la scorza già veniva voglia di mangiarne un’altra. A casa mia “o’ mellone” non si comprava intero, perché non avevamo il frigorifero ed era bello uscire la sera per gustarne per strada una fetta gelata.

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Pane e cocomero

di Angela Di Pietro

 

Anni fa ricevetti l’incarico di scrivere una rubrica di Galateo. Durò un paio di anni, durante i quali mi mossi con l’agilità di una trapezista tra cucchiai per il dessert, convenevoli da salotto e scampoli di educazione quotidiana. Il compito di spiegare ai lettori come riconoscere l’uso di un bicchiere dalla sua forma dovette darmi alla testa. Mi convinsi che la rubrica mi avesse collocata, per diritto divino, nell’Olimpo delle influencer della buona condotta. Così studiavo, approfondivo, provavo. Nel giro di due mesi riuscivo a tagliare un fico con forchetta e coltello come se l’avessi sempre fatto, nonostante odiassi i fichi. Il mio status traballò quando dovetti occuparmi del cocomero. La memoria olfattiva e ancora di più visiva annebbiò le mie nuove competenze. Dovevo scrivere come il frutto andasse tagliato con le posate, masticato con grazia, assaporato con parsimonia. I semini neri eliminati senza usare le mani, la fetta di anguria sezionata con la perizia di un entomologo. Le parole tuttavia restavano nell’etere e non viaggiavano dalla mia testa alla tastiera del computer. Le regole s’infrangevano contro un Galateo del cocomero impossibile da trovare nei libri sull’argomento, perché quel Galateo l’aveva “scritto” mio padre. E non c’era dizionario che ne minacciasse il contenuto. Intanto va detto che negli anni Settanta, lungo via del Lido, a Latina, si allineavano puntuali e garbati i venditori di cocomero. Gente del posto, che smerciava i prodotti del territorio. Sfere tonde come lune verdi, ognuna delle quali celava il suo nettare.

La mia famiglia aveva abitudini bizzarre: andavamo al mare quando gli altri dormivano, tornavamo a casa quando i bagnanti piantavano gli ombrelloni. All’interno della Seicento bianca guidata da mio padre c’eravamo noi donne di casa. Mia madre e tre figlie. Mentre l’auto sfrecciava lungo la corsia di ritorno, papà inseriva la freccia a destra (rumorosissima) e scendeva con la sigaretta tra le labbra. La contrattazione sembrava interminabile, tanto che il cuore prendeva a battermi forte. L’acquirente bussava su quelle lune verdi, ne chiedeva il prezzo, riceveva rassicurazioni sulla bontà del frutto. Poi lo infilava in macchina e puntualmente diceva: “Sarà una cucuzza, non ne capisco niente di cocomeri”. Una volta entrati in casa, ci dimenticavamo del gioiello appena acquisito perché il Galateo di papà imponeva che il frutto fosse spedito nel frigorifero. Sarebbe stato schiuso e mangiato -fresco- nel pomeriggio. Le mie sorelle ed io contavamo le ore. Quando mio padre si alzava dopo la siesta pomeridiana, con i calzoncini corti e la canottiera ecrù, sedeva al tavolo tondo della cucina e procedeva con l’intervento, davanti agli occhi sgranati delle sue bambine. Dava tagli netti, spaccava le sfere verdi in piramidi appuntite. Ricordo il profumo di acqua e zucchero, lo sfrigolìo che produceva il coltello infilato nella polpa. Ci avventavamo sulle fette aggredendole a morsi, il liquido che colava dalle labbra, i semi sputati sulle trecce di mia sorella, le risate sdentate, il succo rosso che finiva sulla canottiera di mio padre, le mani appiccicose, il gusto di osare mangiando anche la sezione bianca, quella che “faceva venire il mal di pancia”. E mia madre, bella e felice, che andava a prendersi un panino perché a lei il cocomero piaceva mangiato con il pane. “Non era una cucuzza, era un bel cocommero”, piagnucolavo chiedendone ancora. Sul tavolo della cucina stazionavano i ruderi del cocomero pontino, vascelli disfatti come barche alla deriva. Noi bambine ci leccavamo le dita, papà restava con la canottiera sporca di succo di cocomero fino a sera. Non scrissi mai il “capitolo” della mia rubrica sul cocomero, perché quella era una storia di famiglia e non sarebbe piaciuta ai cultori delle buone maniere. Per me invece il cocomero era solo “casa”. 

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Quella lezione nella notte

di Gino Incerti

 

Il vecchio con la fronte rugosa se ne stava sotto il tetto di canne al bar. Un cono d’ombra lo fasciava e gli rendeva un’aura quasi magica, irreale, da santone da venerare. Tutt’attorno un capannello di ragazzini, accovacciati sul mattonato, i telefonini chiusi nel pugno, la fronte alta, quasi a seguire le parole, attenti a non perdere un momento di quel discorso. Il vecchio santone stava raccontando, snocciolava come un juke box favole ingiallite, niente storie fermate su Instagram o Tik Tok, la memoria orale aveva ripreso la funzione di un tempo e quel pomeriggio d’agosto in un bar della periferia del mondo si stava prendendo la sua rivincita.

Il vecchio raccontava che aveva iniziato a lavorare all’età di 14 anni, a lavorare nei campi, a raccogliere i cocomeri insieme ai marocchini per comprarsi la Vespa 50, cominciando dalle 6 del mattino e smettendo appena il sole si spegneva con quei tramonti salmonati che dalle parti di Borgo Grappa baciano il mare di Sabaudia e Latina.

Poi, quella notte avevano deciso, tra le luci delle macchine da scontro e l’odore che saliva dalla griglia dove le pannocchie sfrigolavano. L’aria della festa stava cominciando ad annoiare, da ragazzini fare due volte di fila la stessa cosa era roba da vecchi, così la decisione di un raid ai campi al di là della strada Mediana per strappare dalla sabbia i cocomeri aveva trovato la risposta gioiosa di tutti. Erano in quattro. Gino, Marco, Franco e Lucio.

La banda corse sulle biciclette, lambendo i canali della bonifica, illuminando la lama d’asfalto con quei fanali sbiaditi, raggiunse la grande strada dove le auto sfrecciavano a una velocità vertiginosa. Poi, a un segnale convenuto, s’acquattarono tra i rovi, a metà tra un canale di scolo e una sterrata che sfiorava la Pontina, si divisero, si fermarono qualche minuto, in silenzio, il tempo di permettere agli occhi di abituarsi al buio, per scrutare meglio il campo, se in quel momento i cocomeri erano sguarniti della guardia del contadino. Gino lanciò un fischio prolungato, quasi un segnale, poi ci fu silenzio, dopo qualche minuto Marco rispose con un sibilo. Anche dall’altra parte era tutto tranquillo.

I ragazzi si mossero come dei marines pronti allo sbarco, s’accovacciarono sul terreno e cominciarono ad avanzare scivolando sulla sabbia, lasciando che gli odori zuccherini della frutta raggiungessero le narici, investite anche dall’odore selvaggio della natura e dalla frescura della notte senza stelle. Individuarono i due frutti cilindrici da portare via, si parlarono con dei gesti secchi, quasi senza guardarsi, poi s’inginocchiarono e protesero le mani verso i cocomeri. Fu un attimo. Un fascio di luce violento li investì, li illuminò a giorno, li rese nudi, Gino osservò gli amici e s’accorse di quanto fossero bianchi, quasi evanescenti, mentre tutt’attorno l’inchiostro della notte incorniciava quel quadro. Li raggiunse una voce sorda, volgare, seguita da parole sanguinose, poi uno sparo dai contorni diafani, come una pioggia orizzontale che si divide e prende tante strade. I ragazzi s’alzarono del tutto, cominciarono a correre ingobbiti, con le spalle incassate, la testa protesa come un centometrista che non scorge il traguardo, le gambe strette. Le biciclette erano ancora lì, sul ciglio della statale, Gino salì sul sellino inseguito da Marco, Franco si voltò per aspettare Lucio, che non arrivava. I tre amici si preoccuparono e si fissarono sgomenti, poi li raggiunse Lucio, che rideva e li indicava. “Dovreste vedere che faccia avete”, li derise. Si guardarono attorno e capirono, così scoppiarono a ridere tutti e quattro.  Il contadino che aveva sparato col fucile a sale grosso era il padre di Lucio, deciso a impartire ai ragazzi una lezione di vita.

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Raccolta dei cocomeri

di Vito B. Del Volgo

 

ovvero: Lassateme perde’, nun me pagate…

 

Verso la metà degli anni Settanta, a Sabaudia, molti di noi ragazzi avevano la necessità di racimolare qualche lira. Si lavorava nei bar, nei ristoranti ma si poteva anche andare in campagna a raccogliere i cocomeri.

Si formavano delle squadre che si radunavano all’alba in piazza, bisognava essere “gagliardi e forti”, ma a molti di noi (non a me per quello che dirò tra un po’) il fisico non mancava. Si veniva reclutati dai “cocomerari” che per quel che ricordo erano una via di mezzo tra l’imprenditore agricolo e i “caporali” di più moderna memoria. Pagavano tre-quattro lire per ogni chilo caricato, il che significava che un grosso camion da 200 quintali valeva circa sessantamila lire che, moltiplicati per tre o per quattro (tanti erano i mezzi che certe volte si caricavano in una giornata), totalizzavano anche 50.000 lire per persona … Veramente tanti, tanti soldi.

L’operazione di raccolta era ben organizzata. Nei campi entravano direttamente i camion che talvolta erano veramente grossi e, quel che è peggio, quando quasi pieni, avevano sponde altissime. I cocomeri venivano staccati dall’esperto “cocomeraro” che anticipava il camion e le squadre di carico selezionando abilmente i frutti.

Nelle squadre c’erano quattro ruoli: c’era quello che raccoglieva il cocomero da terra (la “ruspa”) per passarlo ad un collega che a sua volta lo passava al terzo più faticoso ruolo che era quello del lanciatore sul camion, infine, sul camion c’era una quarta persona che riceveva il cocomero e lo deponeva nel cassone. Ho già detto quanto le sponde dei camion potessero essere alte, talvolta più di tre metri, e tutti noi sappiamo quanto possono essere grossi i cocomeri, alcuni potevano pesare anche 20-25 chili! Altri fattori che caratterizzavano questa faticosa attività erano la bassezza del suolo, non in senso morale ovviamente, ma proprio in senso fisico e poi l’insensibilità e spesso la grettezza, questa sì in senso morale, del cocomeraro.

Nel corso della giornata ci si alternava nei diversi ruoli. Era duro lanciare quei giganteschi frutti sul camion, se non si riusciva ad utilizzare l’energia cinetica del precedente lanciatore, era praticamente impossibile spedirli a quell’altezza, ma era anche durissimo raccoglierli da terra, bisognava stare costantemente piegati e concentrati. Era meno faticoso, particolarmente ambito ma molto delicato, il ruolo del ricevitore dove si poteva stare seduti sulle sponde, ma guai a far cadere il prezioso frutto che andava immediatamente in frantumi e istantaneamente generava urlacci da parte del cocomeraro.

Ho calcolato che per completare un carico (mi pare che fossero necessarie tre o quattro ore) bisognava mediamente portare dal suolo al cassone scavallando le odiate sponde circa 2.000 cocomeri che è come dire dover fare, seppur distribuite sui quattro o cinque componenti della squadra, 2.000 flessioni .

Era durissima! Io avevo un fisico atletico, giocavo a calcio (non con grandi doti), ero veloce e scattante ma non era quello che serviva, servivano i fisici da canottieri, bisognava essere alti, forti e muscolosi e io non lo ero. Mi scuso ora con i miei antichi compagni di squadra che di sicuro hanno meritato più energie di quelle di cui disponevo, ma anche io ho partecipato, ce l’ho messa tutta e quasi sempre sono riuscito. Lo dico con orgoglio.

Solo una volta, rimasta storica, dopo essere partiti alle sei del mattino, dopo aver caricato un primo camion e poi un secondo e un terzo, e poi un quarto ancora, dopo aver combattuto e vinto contro il sole del primo pomeriggio e poi, infine, averlo visto che iniziava a tramontare, proprio nel momento in cui era certo che era finito, un attimo prima che ci dessero i soldi e ci riportassero a casa con la schiena rotta ma soddisfatti e un po’ ricchi, proprio allora… ecco un altro camion, non tanto grande, purtroppo, per essere “rimandato” al mattino successivo, ma abbastanza per essere interessante per l’ingordo cocomeraro che aveva istantaneamente calcolato che lo si sarebbe potuto caricare prima del buio… lì, proprio allora, mi sono buttato sotto un albero esausto, senza più energie e ho detto la storica frase: “lassateme perde… nun me pagate…”

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Ricordi estivi

di Letizia Stradone

 

Fin da bambina l’apparire sui banchi del mercato dei peperoni e dei cocomeri mi trasmetteva una improvvisa felicità: l’estate era finalmente arrivata e la scuola si sarebbe riaperta dopo tre mesi di vacanza. Sì, perché noi bambini del ’45 ritornavamo a scuola il primo ottobre, quando le giornate si erano ormai accorciate, l’aria della mattina e della sera si era fatta più fresca e qualche pioggia aveva fatto la sua comparsa. L’estate mi esaltava con le sue giornate calde e luminose con i profumi degli oleandri che adornavano alcune vie cittadine, dei gelsomini che rampicandosi sui muri di recinzione di alcune abitazioni vicine alla mia spandevano dei celestiali effluvi. Ma ritornando ai peperoni il loro odore, quando mia mamma li cucinava e il loro aroma si spandeva per casa, mi trasmetteva molta allegria e ad esso si associava l’idea di bel tempo, delle vacanze, dell’estate, sensazioni che ancora oggi alla mia età mi riportano indietro a quei tempi che mi sembrano meno remoti.

Che dire poi dei cocomeri, mi piaceva moltissimo guardare le loro fette rosse da cui facevano capoccella lucidi semini neri e pregustarne il dolce sapore. La sera d’estate nel mio quartiere comparivano alcune bancarelle che vendevano cocomeri interi o a fette, mi riferisco alla fine degli anni ’50, e nelle calde serate molti si fermavano per gustarne la dolce e fresca polpa. Mi ricordo di una bancarella in Piazza Quadrata il cui venditore, proveniente dall’agro pontino, disponeva le fette su dei lunghi blocchi di ghiaccio, per renderle più fresche ed attraenti. Quando si addentavano, la polpa era quasi congelata e diffondeva in bocca una sensazione di freddo e di piacere al contempo. “Con il cocomero si mangia, si beve e ci si lava la faccia”, diceva mio padre ridendo, mentre osservava me e mia sorella affondare mezzo volto all’interno di un’ampia fetta. Moltissimi pittori anche del passato sono stati attratti dalla frutta e nelle loro nature morte fanno bella mostra pesche, uva, fichi ed enormi cocomeri come si può vedere in alcuni quadri di Caravaggio o nelle tele di Paolo Porpora o Giovan Battista Ruoppolo, veri e propri trionfi barocchi di fiori e frutta, in cui non manca mai il rosso brillante del cocomero. In famiglia piaceva a tutti questo frutto e in particolare a mio zio, il pittore Giovanni Stradone che, al pari degli artisti suoi predecessori, aveva immortalato in certi suoi quadri alcuni cocomerai intenti ad affettare delle enormi fette. Quadri scherzosi e un po’ caricaturali, diversi dal suo stile espressionista, ma dettati dal divertimento di immortalare alcuni piacevoli ricordi estivi. Da ragazza trascorrevo circa un mese in albergo al Circeo di solito ad agosto e, quando raggiungevo questa località nell’auto di mio padre, mi beavo durante il percorso ad ammirare il paesaggio, i campi coltivati ​​della bonifica pontina sterminati sotto un sole cocente. Spesso mi sorprendevo, guardando le piantagioni di cocomeri, non riuscendo a capacitarmi come pianticelle rampicanti dalle foglie arricciolate potessero partorire dei frutti così voluminosi che si accrescono a terra da viticci esili.

Anche da adulta ho continuato ad amare la frutta e la verdura estiva, non solo per il loro sapore, ma per tutto ciò che evocano: l’estate, il calore del giorno, il canto dei grilli e delle cicale, il luccichìo del mare. E il cocomero forse più di tutti è capace di evocare sensazioni piacevoli e vacanziere. Anche adesso trascorro le vacanze poco distante dalle coltivazioni della pianura pontina e spesso mi imbatto in grossi camion che trasportano enormi succosi cocomeri; spesso nel trasporto qualcuno balza a terra ed è facile vedere l’asfalto rosso per la polpa frantumata. I cocomeri di questa terra feconda, resa fertile dal duro lavoro dei contadini veneti ai tempi della bonifica, sono veramente gustosi, e assaporare una fetta in compagnia rallegra e riconcilia con la vita. Spesso piccoli piaceri possono produrre benefici effetti e il cocomero, alla portata di tutte le borse, è un dono che la terra generosa offre a tutti i suoi figli.

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Suscitatore di memoria

di Giulia Di Perna

 

È ora di cena e sono dai nonni, come spesso accade in agosto quando fa caldo e li raggiungo al mare. Nonna, come sempre, mi siede accanto e mi osserva mangiare, assicurandosi che io non salti nessuna portata. Ad un certo punto interviene: «Mangia un po’ di frutta, bella mia, che ti fa bene», prende un piatto e me lo accosta, «c’è il cocomero».

«Grazie nonna, tu ne vuoi un po’?»

«No, fai tu merenda, ora non ho fame».

Ha detto merenda, ma è ora di cena. Mi fermo, la osservo – è un po’ di tempo ormai che nonna confonde i momenti – chiudo gli occhi…

 

È il 2002. Ho sette anni ed è agosto, sono appena tornata dal mare e aspetto in veranda qualcosa da mangiare.

«Nonna, hai il cocomero?»

«Certo che ho il cocomero, mangi solo quello per merenda! Secondo me prima o poi ci diventi, un cocomero ».

Mi porta la frutta e siede, aspetta che io inizi a mangiare e mi chiede con impazienza: «Allora, com’è?»

«Buonissimo!», rispondo velocemente.

«Eh, questo è quello nostro! Bello fresco fresco… a Roma sai quanta gente vuole solo questo cocomero qua? Lo capiscono che è buono, mica no!».

«Certo che siamo proprio fortunati ad avere questa frutta buona, qui dalle nostre parti, nonna».

«Tu sei fortunata, perché io e nonno ci lavoriamo con la frutta e sappiamo un sacco di cose… Lo sai quando si capisce che un cocomero è buono?»

«Mmm… quando me lo porti tu!»

Scoppia a ridere. «È vero! Ma io lavoro al mercato da quando ero un po’ più grande di te, perciò so queste cose… un cocomero è buono se scrocchia quando lo tagli e se è croccante quando lo mangi. Questo è croccante, o no? »

«Tanto, nonna! E poi è proprio succoso». Faccio un segno di abbondanza con le mani.

«Brava! Si vede proprio che sei mia nipote. Un’altra cosa importante infatti è questa: che il cocomero è buono quando si scioglie in bocca… come lo zucchero! Quelli nostri sono così, non puoi sbagliare. E poi è rosso rosso, guarda qua». Mi indica il cocomero con aria soddisfatta e aggiunge: «Questa è la nostra terra: un pezzo di cocomero, occhi chiusi e te la puoi immaginare».

Sto un po’ in silenzio, poi dico: «Che bontà. Ci credo che a Roma lo vogliono!»

 

… Apro gli occhi. Siamo ancora a tavola, intanto nonna mi ha preparato il piatto. La guardo e le dico: «Questo cocomero è davvero buono: è così croccante e zuccheroso e poi… ha un rosso splendente! Lo hai scelto tu?»

Lei mi fissa: «Sì, perché sapevo che saresti venuta oggi!»

«Grazie. Anche domani lo voglio a merenda, quando torniamo dal mare».

Nonna continua a guardarmi, con lo sguardo vuoto che ha ormai da qualche mese, mi accarezza i capelli e mi sorride. Mi alzo e ne prendo un’altra fetta, per farla felice.

«Se lo finisci tutto, per domani a merenda non c’è… tu mangi solo quello a merenda!»

Sorrido, un po’ commossa e penso: ecco perché a Roma tutti vogliono il cocomero della nostra terra, perché è così buono che ha il sapore di un ricordo.

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Un cocomero a Piazza Cipollata

di  Maria Grazia Coccoluto

 

Era così ogni estate: prima di Ferragosto gran cena dei compagni di giochi del mare con mamme al seguito, tutti a Piazza Cipollata a casa di Emanuela. La palazzina a due piani si affaccia su una piazzetta molto tranquilla dove si può giocare indisturbati nel centro storico alto. Io abito in Viale della Vittoria, quindi… una bella passeggiata con tre bambini, di cui Simone in passeggino di due anni, Alessia di sette, Guido di cinque e un loro amico Jacopo che l’estate vive praticamente a casa nostra. Quel giorno avremmo portato per l’allegra cenetta un magnifico cocomero, frutto preferito di Simone. Adesso immaginate voi che bella passeggiata (la macchina mi aveva abbandonato) con 4 bimbi e un cocomero… che non sapevo davvero dove mettere. Alla fine con molta fatica e tante sgridate ai bambini che strillavano a squarciagola reclamando il cocomero per giocarci a palla, i nostri eroi arrivano, sudatissimi, a piazza Cipollata dove si attendono altri amichetti. Io mi dò una sistemata e incomincio a dare una mano a Manuela ed Agnese: bisogna preparare la tavola, spaccare il cocomero e metterlo in frigo. Mentre lo apriamo e lo facciamo in quattro pezzi, emana un profumo inebriante e mostra il suo superbo colore rosso… meno male penso, mi hanno assicurato che è un cocomero nostrano e il venditore è di fiducia, ma sai com’è… un cocomero è sempre un cocomero…  Finalmente noi mamme ci riposiamo un po’ e incominciamo a chiacchierare fuori casa sulla piazza, i bimbi sono tranquilli e giocano a uno due tre stella. Abbiamo apparecchiato all’aperto, la tavola è pronta e, mentre sto seduta sui gradini di casa, mi sembra di respirare un’aria d’altri tempi. Ma a un certo punto… dov’è Simone? Oddio! Non lo vedo! I fratelli emettono un bho annoiato, gli amici si guardano intorno, due vicini di casa si spingono al di là della piazza fino alla Chiesa del Purgatorio, io entro in casa e inizio la ricerca con Emanuela. Perlustriamo la casa ma di Simone neanche l’ombra, alla fine entriamo in cucina dove ci attende una visione esilarante: Simone seduto per terra vicino al frigorifero aperto, con la faccia in un quarto di cocomero, mangia, ma no che  dico …  aspira cocomero con tutti i semi senza problema, con una faccia soddisfatta e felice che fa ridere tutti. Com’è il cocomero Simone? Bbbono risponde continuando a mangiare, mentre ormai il cocomero gli sta anche tra i capelli. Mia madre diceva sempre che col cocomero buono ti lavi pure la faccia, ma Simone si era superato: aveva fatto bagno e doccia.

Per fortuna avanzano per la cena altri tre quarti, sottratti alla furia del piccolo Attila a cui però bisogna dare ragione: il cocomero era zuccherino, buonissimo, dissetante croccante, lo dicono tutti. Certo è un frutto fresco e buono, ma diciamolo pure: profuma d’estate, di sole e quello delle parti nostre pure di aria di mare. Quanto ai semi… sono buoni puri quelli e Simone lo ha imparato da piccolo. D’altra parte a casa nostra quando qualcuno si lamenta io dico sempre: E ora non fare che per i semi ti guasti pure il piacere del cocomero… provare per credere.

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Un cocomero da ricordare

di Anna Maria Masci

 

Ogni anno si scendeva a Terracina per le vacanze estive nel mese di luglio, perché erano in quel periodo le ferie di mio padre e questa era la terra dei miei e anche noi ragazze non vedevamo l’ora di andare alla spiaggia e tuffarci ed incontrare gli amici soliti.

Quell’anno, 1968, era stato un po’ turbolento per tutti ed anche per me che al liceo avevo vissuto contestazioni ed occupazione con compagni molto più appassionati di me e più formati politicamente, ma che ebbero il modo di aprirmi gli occhi su un mondo in cambiamento necessario ed ero ancora un po’ frastornata e confusa, quando partimmo da Livorno per Terracina.

In macchina, una Renault 4, storico modello, stavamo stipati come sardine, con pacchi e valigie ovunque, ci aspettava la casa in affitto per un mese alla quinta traversa, e ci eravamo alzati alle tre per partire col buio e non trovare traffico….

Cinque ore e mezzo e alle 8 circa stavamo già dopo Latina, avevamo sonno ed eravamo stanchi, quando ecco, sul lato destro della Mediana, comparve il primo camion di cocomeri e ci sentimmo subito tutti ringalluzziti, stavamo a casa oramai, quello era il segnale ….

Subito dopo un altro camion con un cartello di cartone, 10 lire al kg… e poi un altro poco prima di San Felice … e uno all’ingresso quasi di Terracina.

Mio padre non poteva non fermarsi, per quanto pieni di roba il posto per un ”nostro” cocomero si sarebbe trovato… . Eccolo il nostro cocomerone di 10 kg, per tutta la strappegna, come diceva mamma, e con tanto di tassello di prova fatto al momento, bello tondo e zigrinato nel suo verde scuro invitante, ma collocarlo nell’abitacolo era un problema; stringiti qua, stringiti là, sposta quel pacco, mettiti il ​​borsone in grembo… ci entrò, anche se lo avevo sul fianco destro che premeva… tanto pochi chilometri e saremmo arrivati.

Eccoci a destinazione… scaricammo tutto tranne il nostro amico, a cui toccò l’onore di essere l’ultimo ad essere scaricato, come cosa preziosa e di riguardo.

Non vedevo l’ora di assaggiarlo, e anche mia sorella premeva per averne una fetta subito, giusto per assaporarlo…, ma papà fu inflessibile, niente assaggio, era destinato al dopo pasto del pranzo coi parenti che ci aspettavano all’orto di famiglia… . Con rassegnazione aspettammo….

L’orto si trovava vicino al Ponte Rosso, era il terreno con la casa di famiglia dei miei nonni materni, ed allora, alla fine degli anni ’60, ancora il luogo dei balli del sabato sera dei miei zii e dei loro amici; ancora vi si faceva l’incestratura dell’uva moscato, ancora era il luogo di ritrovo dei familiari quando era festa e noi eravamo anche soliti riunirci lì quando si tornava da Livorno per festeggiare il reciproco ritrovarsi e mangiare insieme con allegria, e il cocomero era un protagonista atteso di ogni estate.

Si può ben capire come mio padre portasse quel cocomerone a mò di trofeo quel giorno, mentre noi sospiravamo per assaggiarlo e non avevamo potuto prima, dato che si doveva aspettare quel fine pasto…. Pregustavo quella freschezza ottenuta col filo di acqua che scorreva da tre ore nella pila dei panni, già mi immaginavo la solita dolcezza e i semi sputati per terra a gara coi miei cugini, immaginavo la suspence del momento del taglio, quando le abili mani di papà lo avrebbero diviso in due parti e poi affettato le nostre attese porzioni….

Immaginavo tutto questo mentre papà procedeva, dopo averlo sollevato dalla vasca e veniva verso di noi…, ma quel gatto all’improvviso tra i suoi piedi e lo splash del cocomero, il nostro cocomero, chi lo avrebbe immaginato mai???? Mio padre perse l’equilibrio e anche il cocomero… io sentii le lacrime spuntare. Erano lì, quelle lacrime, purtroppo, per la delusione di non poterlo assaggiare più, dopo tanta attesa e sacrificio… che disastro!!!!!

Tutto spaccato in terra dimostrava così la sua bontà, oramai ex…. Dalla terra veniva, alla terra finiva!!!!

Mia sorella, più piccola di me, cominciò pure a piangere, e non si capiva se per lo scampato pericolo di papà che, comunque, si tenne in piedi, o per quel bel compagno di sogni caduto in terra e sfasciato del tutto….

Fatto sta che stavano tutti commentando la cosa e mentre oramai ero rassegnata a non assaggiarne per quella volta, avvenne un miracolo…: da dentro la cucina uscì zio Remo con un altro cocomero, dicendo che però non era fresco…, ma pensate che si rinunciò a mangiarlo? Giammai, anzi, mai cocomero ci sembrò più dolce e il “croc” dell’apertura, cioè quel suono tipico che produce ogni cocomero maturo al punto giusto non fu mai più deciso e promettente.

Quanti chilometri aveva fatto per quel momento? Quanta attesa si era consumata prima del morso di partenza? Quel cocomero, credetemi, valse una vacanza… e ancora lo ricordo.

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ELEGIA DEL COCOMERO PONTINO: NARRAZIONI DI FRUTTA E DI VITA. by Virgilio Di Giorgi - Illustrated by Virgilio Di Giorgi - Ourboox.com
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