I bambini-soldato

by martina cracchiolo

Artwork: Martina Cracchiolo e Flavia D'Antoni

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I bambini-soldato

by

Artwork: Martina Cracchiolo e Flavia D'Antoni

  • Joined Mar 2019
  • Published Books 5

Articolo 26

  1. Ogni individuo ha diritto all’istruzione. L’istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e di base. L’istruzione elementare deve essere obbligatoria. L’istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l’istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito.
  2. L’istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le nazioni, i gruppi razziali e religiosi, e deve favorire l’opera delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace.
  3. I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli.                                                                              Ma purtroppo 303 milioni di bambini oggi nel mondo non hanno un’istruzione specialmente a causa delle guerre.

 

 

 

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Sud Sudan, novanta minori rapiti mentre facevano esami. L’ombra di Juba sui bambini soldato.

23 Febbraio 2015

Sud Sudan, liberati altri 250 bambini soldato, in tutto da gennaio rilasciati 1.300 bambini

22 Marzo 2015

Bambini in guerra: la pagano cara in fame, malattie, tentati suicidi, solitudine

23 Aprile 2015

 

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In guerra a 13 anni: l’infanzia rubata dei bambini soldato

15 Dicembre 2015

Sud Sudan, più di 300 bambini rilasciati da gruppi armati: tra loro 87 ragazzine

8 Febbraio 2018

 

Sud Sudan, 3 bambini su 4 nati dall’indipendenza non hanno conosciuto altro che la guerra

10 Luglio 2018

 

 

https://www.repubblica.it/argomenti/Bambini_soldato

 

 

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I bambini-soldato by martina cracchiolo - Illustrated by Martina Cracchiolo e Flavia D
I bambini-soldato by martina cracchiolo - Illustrated by Martina Cracchiolo e Flavia D

Testimonianza di un bambino soldato

Grace a Dieu è stato un bambino soldato e questa è la sua storia.

Sono entrato a far parte del gruppo Seleka quando nel dicembre del 2012 hanno ucciso mio padre. Lui lavorava in un negozio, quando sono arrivati hanno dato per scontato che, lavorando per una grande compagnia, avesse molti soldi da dare loro. Lo presero, lo picchiarono e due settimane dopo è stato assassinato. Abbiamo cercato invano il suo corpo. Quando lo hanno preso, io ero in chiesa. Era domenica. Mio padre si era sempre preso cura di me pagando i miei studi, ma lui non c’era più e io pensai che dovevo unirmi ai gruppi armati per prendermi cura della mia famiglia, non vedevo altre soluzioni. Se mio padre fosse stato con noi, sarebbe stato tutto diverso, avrei continuato i miei studi e la mia famiglia starebbe bene. Ma non è andata così e io mi sono dovuto unire a loro. Noi siamo sette in famiglia, io sono il più vecchio. Mia madre vende fagioli al mercato, ma non è abbastanza. Quando mi sono unito al gruppo, ci hanno portato in un luogo a circa 10 km dal villaggio, lì ci hanno preparato in modo molto duro, strisciavamo anche nel fango, volevano che diventassimo spietati.

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Ho visto molti altri bambini cadere e morire mentre combattevano. Non ho fatto amicizia con nessuno mentre ero nel gruppo armato, tranne un amico con cui ero partito e che è ritornato con me. Prima che il gruppo Seleka prendesse il Paese non c’erano differenze fra musulmani e cristiani, eravamo tutti uguali. Dopo che abbiamo preso il potere le differenze si sono fatte evidenti, i musulmani hanno iniziato ad essere favoriti rispetto ai cristiani. Questo non mi piaceva e per questo ho lasciato. Onestamente ho vissuto bene nel gruppo armato, vivevamo dei saccheggi, le conquiste della guerra. La parte difficile era la lotta in prima linea. Quando stavamo all’aria aperta, anche sotto la pioggia. Gli attacchi di solito iniziavano sempre nel pomeriggio ed eravamo sempre gruppi misti di adulti e bambini. Quando facevo parte del gruppo armato, non mi preoccupavo di quello che stavo facendo. Fu solo in seguito, dopo aver lasciato, che ho iniziato a realizzare e rimpiangere quello che avevo fatto. Moralmente, emotivamente, ero turbato. Nel gruppo armato usavano molte droghe, io bevevo molto ma non usavo droghe. A volte penso che avrei dovuto bere di più prima di andare in battaglia, spesso dopo bevevo molto. In generale ho bevuto molto durante quel periodo. Avevo 15 anni, ma ho visto bambini anche di 8. I più giovani fra noi erano gli assistenti degli ufficiali.

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Alla domanda “come stai?”rispose:mi sento bene adesso, non ho incubi, il mio più grande desiderio è quello di tornare a scuola e studiare. Se non posso farlo, se le Ong non mi possono aiutare, mi piacerebbe avere un’attività commerciale. Ma se mi chiedete che cosa desidero, la risposta è tornare a scuola. Mi piaceva molto leggere. Non credo che cristiani e musulmani potranno vivere in armonia ora, con tutto quello che è successo. Con tutto quello che abbiamo fatto. Voglio davvero lasciare un messaggio che sia ascoltato da tutti i bambini, ma soprattutto dai bambini della Repubblica Centrafricana, affinché possano decidere di guadagnarsi da vivere grazie agli sforzi che fanno a scuola, è molto meglio che farsi strada appartenendo a un gruppo armato.

 

https://www.savethechildren.it/blog-notizie/la-testimonianza-di-un-bambino-soldato-della-repubblica-centrafricana

18 Dicembre 2014

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I bambini-soldato by martina cracchiolo - Illustrated by Martina Cracchiolo e Flavia D

Lei, che chiameremo K., non sapeva si trattasse di violenza. Aveva paura fosse solo la propria immaginazione e che, in fondo, era tutto normale. D’altronde in Albania era stata venduta ad uno sconosciuto a quattordici anni come tante altre bambine, senza alcuna ritrosia da parte della famiglia. «Ero una promessa sposa minorenne », racconta K. «In Albania esiste ancora un sistema patriarcale, per cui spesso è il padre a scegliere il marito. Mio padre scelse un uomo di dodici anni più grande di me. Dal momento in cui sono stata promessa, sono diventata una proprietà di quell’uomo».

Appena lasciata l’Albania per il nostro Paese, K. sperava che le cose sarebbero cambiate. Era convinta che i maltrattamenti subiti fin lì sarebbero stati sostituiti dalla calma di una casa accogliente in Italia, dalla possibilità di studiare, di avere dei documenti, lontana da quel mondo che l’aveva tradita.«Arrivai in un paese vicino a Roma con un visto di ricongiungimento, ma poi mi sono ritrovata a essere una clandestina. Mio marito aveva messo a carico del suo permesso di soggiorno i nostri figli, io invece ero quotidianamente sottoposta al ricatto dei documenti. Non potevo parlare, non potevo ribellarmi. I soldi dei miei lavori andavano a lui, altrimenti mi picchiava. Questo ricatto del permesso di soggiorno non mi faceva muovere. Mi minacciava di morte, ma io non avevo paura della morte, avevo paura mi portassero via i miei bambini».

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«Ero solo un oggetto»
È praticamente impossibile stabilire il numero di casi come quelli di K. in Italia. Mancano dati, mancano troppo spesso gli strumenti per denunciare. Quel che è certo, però, è che quello delle spose bambine è un fenomeno mondiale. Secondo l’Onu, sono milioni. E l’Albania è un paese dove questo fenomeno è ancora troppo diffuso.
In Albania, da tempo, le istituzioni e la società civile si battono per eradicare i casi di spose bambine e, con la consulenza dell’Unicef e dell’Unfpa, è stato fissato come “obiettivo nazionale” la fine del fenomeno entro il 2030. Per ora, però, soprattutto in alcune sperdute zone dell’Albania settentrionale, il matrimonio deciso dai parenti per ragazze giovanissime è ancora una realtà.
Ogni giorno K. sapeva che a tavola non doveva mancare il vino, che la casa doveva essere pulita e i bambini silenziosi. Sapeva che anche una minima cosa fuori posto avrebbe potuto far scattare non solo le violenze fisiche, ma anche quelle psicologiche.
«Non ero una persona, ero un oggetto. Non sono mai stata definita una madre, mi diceva che ero solo una fabbrica».
Eppure le era ancora difficile credere che fosse vittima di un sistema di violenza e ricatto. Arrivata dall’Albania senza alcuna formazione ed informazione, non conosceva nessuno dei suoi diritti e delle possibilità di fuggire dall’incubo in cui viveva.

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K. ha avuto il coraggio di prendere i suoi figli e denunciare la situazione perché quella situazione la soffocava. Costantemente sotto ricatto, si è sentita persa. Il sostegno che ha trovato lungo il suo percorso è stato enorme. «C’è stata solo una grave interruzione», racconta l’avvocata Benedetti. «Durante il procedimento penale abbiamo incontrato un giudice pieno di pregiudizi che, all’udienza preliminare per reato di maltrattamento in famiglia, ha deciso di prosciogliere l’imputato perché riteneva che la querela di K. fosse strumentale a ottenere il permesso di soggiorno. Il primo e, fino ad oggi, l’unico caso in cui si è messo nero su bianco tale affermazione. Abbiamo impugnato in Cassazione il provvedimento, che dubitava della veridicità e accusava la ragazza di avere un amante, La sentenza, per fortuna, è stata annullata e rinviata al Tribunale in diversa composizione».

K. non smette di dire che la salvezza l’ha trovata proprio nei centri antiviolenza. Un luogo che, per quasi un anno, è stato una casa, un rifugio per lei e per i suoi figli, un posto in cui autodeterminarsi e riprendere in mano la vita. «Ho quasi trent’anni adesso e sento di poter fare tutto. Vorrei un giorno poter aiutare tutte le donne, senza differenza di provenienza e diventare anch’io un’operatrice dei centri anti violenza. So cosa vuol dire sentirsi spaventata, persa, violata. So cosa significa sentirsi sotto ricatto. E so che si può uscire da questo dramma. Sono andata a scuola, ho ricominciato da zero. Ho lavorato come commessa, nelle pulizie, ovunque. Ho fatto corsi di formazione, tante esperienze diverse. A trent’anni mi sento una donna nuova, lontana da quella sposa bambina che ero e non più sotto il ricatto di nessuno».

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