Leggende siciliane IH by Anna - Illustrated by Classe IH dell'I.C. Sferracavallo-Onorato - Ourboox.com
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Leggende siciliane IH

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Artwork: Classe IH dell'I.C. Sferracavallo-Onorato

  • Joined Feb 2019
  • Published Books 9

Prologo

Il sesto giorno Dio compie le sua opera; lieto di averla creata tanto bella, prese la Terra tra le mani e la baciò… là dove pose le sue labbra è la Sicilia.
Nessuna isola erge sull’orizzonte della nostra civiltà una fronte più radiosa della Sicilia.
Essa punta verso tre continenti e ne sintetizza le caratteristiche.
Tre volte, nel corso dei secoli, fu il più fulgido centro del mondo mediterraneo.
(Roger Peyrefitte)

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Nei castelli dei fantasmi Siciliani
Ad ogni regione i suoi fantasmi.
Anche in Sicilia sono tantissimi i luoghi dove si trovano gli antichi castelli.
Ad esempio, nel Castello di Caccamo, nei pressi di Palermo, si aggira ancora il fantasma del proprietario, Matteo Bonello.
Un castello molto importante, nelle diverse epoche, ha sempre goduto di luce, di una vita di corte molto attiva, ma che fu, anche, sede di una vera e propria tragedia.
Matteo Bonello, proprietario del castello, appena fuori le mura, è stato catturato e lasciato morire in una prigione sotterranea dopo che gli erano stati recisi i tendini e cavati gli occhi.

Si mormora che il suo fantasma vaghi ancora tra le sale del castello. 
La figura è quella di un uomo di bassa statura, con indosso una

giacca di cuoio e dei pantaloni aderenti.
Chi dichiara di aver visto questo fantasma dice che si muove con andatura lenta, trascinandosi in modo pesante sul pavimento e pronunciando delle incomprensibili parole con un tono minaccioso. Ancora è in cerca di vendetta e forse le parole che escono dalla sua bocca sono solo i nomi di chi l’ha ucciso così brutalmente.

Sempre nei dintorni di Palermo si trova il Castello di Carini, attorno al quale ruota la leggenda di Donna Laura.
Si narra che la giovane, a soli 14 anni, fu costretta dal padre a sposarsi con il barone di Carini. Un matrimonio contro il volere della ragazza che, trascurata dal marito, si innamora di Ludovico Vernagallo che subito diventò il suo amante. Non passò molto tempo e il barone scoprì il tradimento della moglie. Furioso uccise sia Laura che il giovane amante. Il fantasma della donna ancora si aggira tra le stanze del castello, ma c’è un altro elemento che rende questa leggenda siciliana ancor più suggestiva e, per alcuni aspetti, ancor più inquietante.

Si narra che su di una pietra del castello è possibile ancora vedere l’impronta della mano insanguinata della giovane Laura, che però è possibile ammirare solo ad ogni anniversario della sua morte.
È possibile che l’impronta della mano insanguinata della giovane Laura, che però è possibile ammirare solo ad ogni anniversario della sua morte.

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Leggende siciliane IH by Anna - Illustrated by Classe IH dell
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                                        Li diavoli di la Zisa

All’ interno di uno dei monumenti più belli della città di Palermo “il castello della Zisa” nasce una leggenda fatta di mistero e superstizione : è la leggende dei diavoli, conosciuta con il nome “Li diavoli di la Zisa” .
L’ origine della leggenda pone le sue radici in un affresco posto sotto l’arcata che raffigura numerose figure mitologiche, ad oggi ancora indefinito . Il rompicapo deriva dal fatto di contare le figure dell’affresco; risulta spesso difficile perché si è costretti a fare un giro su se stessi con il capo rivolto verso l’ alto e pertanto accade di perdere il conto.
La leggenda vuole al centro di questo simpatico mistero, un tesoro d’ oro, riposto da qualche parte dentro il Castello e visibile solo a colui che sarà in grado di contare le figure sull’affresco.
Come ogni leggenda siciliana entrata nel vivo delle espressioni e dei modi di dire locali, a Palermo quando non tornano i conti, si è soliti citare questa affermazione: E chi su, li diavoli di la Zisa?

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Il cavallo senza testa

Sembra che a Catania nel 1700, in quella che è una delle vie più affollate della movida etnea, si incontrassero amanti, uomini pronti a tradire i loro migliori amici. Chi andava in via Crociferi non aveva voglia di farsi scoprire, per questo qualcuno cominciò  a far girare voce che su quel tratto di strada si aggirasse un cavallo senza testa, da quando calava il sole fino a poco prima dell’alba. Un modo strategico per tenere lontani i curiosi, ma i creduloni non persero tempo a cascarci.

La tradizione tramanda che è così per un giovane catanese, solo apparentemente coraggioso. Il ragazzo fece una scommessa con gli amici e questo gli costò la vita. Secondo la scommessa, il giovane, senza mostrare nessuna paura, promette ai suoi amici una passeggiata notturna e in solitaria, proprio in via Crociferi.

Per dimostrare di esservi passato, avrebbe piantato un chiodo sotto l’arco di Santa Benedetta. A mezzanotte in punto il ragazzo era sotto l’arco delle Benedettine per piantare il chiodo, ma non si accorse che un pezzo del suo mantello era rimasto intrappolato proprio al chiodo, ormai incastrato nella nella.

Fu così che, quando fece per andarsene, si sentì trattenuto da qualcuno o da qualcosa.

Credendo che a trattenerlo fosse il cavallo senza testa, preso dalla paura, morì sul colpo per un infarto. Da allora, passarono molti anni prima che qualcuno rimettesse piede in via Crociferi, di notte.

Si dice che, ancora oggi, qualcuno, a notte fonda, possa sentire il rumore degli zoccoli di un cavallo sul basolato.

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Leggenda di Colapesce

Nella sua versione più conosciuta, quella palermitana, si narra di un certo Nicola (Cola di Messina), figlio di un pescatore, soprannominato Colapesce per la sua abilità nel muoversi in acqua; di ritorno dalle sue numerose immersioni in mare si soffermava a raccontare le meraviglie viste e, talvolta, a riportare tesori.

La sua fama arriva al re di Sicilia ed imperatore Federico II di Svevia che decise di metterlo alla prova: il re e la sua corte si recarono al largo, a bordo di un’imbarcazione, e buttarono in acqua una coppa che venne subito recuperata da Colapesce.

Il re gettò la sua corona in un luogo più profondo e Colapesce riuscì nuovamente nell’impresa.
La terza volta, il re mise alla prova Cola gettando un anello in un posto ancora più profondo e, in quell’occasione, Colapesce non riemerse più. 

Secondo la leggenda più diffusa, scendendo ancora più in profondità Colapesce vide che la Sicilia è posata su tre colonne delle quali una piena di crepe e segnata dal tempo; secondo un’altra versione era consumata dal fuoco dell’Etna. In entrambe le storie, comunque, Cola decise di restare sott’acqua, sorreggendo la colonna, per evitare che l’isola sprofondasse. 

Ancora oggi si trova a reggere l’isola e ogni 100 anni riemerge per rivedere la sua amata Sicilia.

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Cosma e Damiano

I santi Cosma e Damiano sono considerati i santi protettori dei pescatori di Sferracavallo, piccola borgata marinara di Palermo.

I pescatori del posto, l’ultima domenica di settembre, seguono la vara dei santi, a piedi nudi, per tutte le vie della borgata, accompagnati dalla banda musicale, a ritmo della fanfara, perché la leggenda racconta che questi santi uscirono dal mare ballando.

La tradizione vuole che ai santi, essendo fratelli, forse gemelli, ambedue medici, è stato attribuito il potere di guarire affezioni e malanni d’ogni tipo.

A Palermo si pregano perche ‘ci preservino dai dolori: 

  San Cosimu e Damiano,

siti medici suvrani,

siti medici maggiuri,

libbiratimi d’ogni duluri.

Il fatto di proteggere i pescatori e i marinai è riferito a una delle tante torture subite dai Santi prima di affrontare il martirio, tramite la decapitazione che avvenne sotto l’imperatore Diocleziano; incatenati e gettati in mare, per intercessione divina, uscirono salvi dalle acque, danzando allegramente. 

Da qui è nato il legame con le borgate marinare.

A Sferracavallo la festa inizia nel primo pomeriggio, quando esce dalla chiesa la vara  con i simulacri dei due santi martiri;   un consistente numero di portatori  fanno a gara per aggiudicarsi un posto sotto le aste, un pò per sciogliere un voto, un pò per una dimostrazione di vigoria maschile.                  

I portatori sono vestiti di bianco, simbolo di purezza, con un foulard di colore rosso (colore del martirio) cingono il collo e il fianco e, a piedi scalzi, trascinano il fercolo.

I portatori eseguono la coinvolgente “ballata” e , quasi di corsa, danno inizio alla processione che continua per tutto il periodo ad inscenare una sorta di ballo veloce, per ricordare i marinai che nella tradizione correvano per arrivare in tempo dagli infermi prima che fosse troppo tardi.

 

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Leggenda dell’Etna

Un bel giorno Encelado, fratello maggiore dei giganti, decise di affrontare la scalata al cielo per togliere il potere a Giove e comandare in sua vece.

Encelado aveva manacce grandi come piazze, barba incolta, sopracciglia folte e grosse come cespugli, una bocca interminabile che pareva una fornace. Quando si arrabbiava, buttava fuori scintille di fuoco, le quali gli bruciacchiavano la barba e i capelli, che però ricrescevano, dopo un momento, più folti di prima.

I giganti minori lo temevano e non contrastavano il suo volere, per paura di vedersi colpire da quelle fiammate così potenti.

Anche quella volta tutti i giganti ubbidirono e si misero subito al lavoro. Per aiutarlo a salire al cielo posero uno sull’altro i cucuzzoli dei monti più alti. Presero il monte Bianco, le montagne asiatiche, il Pindo della Grecia, ma la meta era ancora tanto lontana.

– Prendete i monti africani – gridava infuriato Encelado – e arriveremo al cielo!

Li presero tutti; erano quasi arrivati quando Giove, per via di tanta arroganza, scagliò con la sua possente mano un fulmine che infiammò il cielo e raggiunse i giganti, accecandoli e rovesciandoli a terra violentemente.

Encelado e i suoi fratelli, contorcendosi dal dolore, urlavano in modo disumano; ma il dio dell’Olimpo, non ancora sazio di vendetta, con un altro fulmine colpì il cumulo delle montagne che rotolarono di qua e di là schiacciando i corpi dei ribelli.

Encelado, ridotto a pezzi, restò sepolto sotto l’Etna.

Era ancora vivo, ma non poteva muoversi, né riusciva a scuotere la montagna; cominciò un buttare dalla bocca fiamme, fumo che salirono fino al cucuzzolo dell’Etna, da cui uscirono emettendo un rombo violentissimo.

La lava, fusa dal respiro di Encelado, cominciò una discesa lungo i pendii dei monti, distruggendo ogni cosa: praterie, case, fienili e costringendo la gente a fuggire, gridando spaventata: – L’Etna fuma!

Poi improvvisamente la montagna si calmò, ma la rabbia del gigante che è immobilizzato sotto , non si è ancora placata e, di tanto in tanto, esplode, emettendo colate di fuoco.

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Scilla e Cariddi

Scilla e Cariddi erano due mostri marini che vivevano nello stretto di Messina.
La leggenda narra che Scilla era una splendida ninfa, figlia di Forco e Crataide. Trascorreva i suoi giorni nel mare, giocando con le altre ninfe e rifiutava tutti i pretendenti.
Quando il dio del mare Glauco si innamorò di lei, andò dalla maga Circe a chiedere un filtro d’amore, ma Circe a sua volta si invaghì di lui.
Rifiutata da Glauco, rosa dalla gelosia, trasformò la rivale Scilla in un mostro con dodici piedi e sei teste, nelle cui bocche spuntavano tre file di denti.
Secondo alcuni, Scilla intorno alla vita aveva appese teste di cani che abbaiavano e ringhiavano ferocemente, era immortale e l’unica maniera per difendersi da lei era quella di invocare l’aiuto di sua madre, la ninfa del mare Crataide.
Il mostro, Scilla, si nascose in una spelonca dello stretto di Messina, dal lato opposto a quello di Cariddi, e quando i naviganti si avvicinavano a lei, con le sue bocche li divorava. Venne infine trasformata in roccia e in questa forma la trovò Enea passando dallo stretto.
Cariddi è un mitico gorgo dell’estremità settentrionale dello stretto di Messina. Descritto come un mostro, figlio di Poseidone e di Gea, succhiava l’acqua del mare e la risputava tre volte al giorno, con tale violenza da far naufragare le navi di passaggio.
Odisseo, dovendo passare necessariamente tra i due mostri, preferì avvicinarsi a Scilla, poiché Cariddi avrebbe portato sicuramente la distruzione delle navi.
Più tardi, dopo che i suoi uomini erano stati uccisi da Zeus, per aver catturato gli armenti di Elio, la nave di Odisseo venne attratta dal gorgo di Cariddi, e l’eroe sopravvisse soltanto perché riuscì ad aggrapparsi ad un fico che sbucava dall’acqua.
Quando, ore dopo, ricomparve la nave, Odisseo s’aggrappò ad un albero riemerso ed ebbe salva la vita.

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La principessa di Sicilia

Sono tanti i miti e le leggende che riguardano la Sicilia,  molti sulla sua nascita che hanno influenzato la cultura e la storia.

Una delle leggende più conosciute e più affascinanti è proprio la leggenda del nome Sicilia.

E ‘la storia di una bellissima e sfortunata principessa libanese, il cui nome era Sicilia.

Un giorno, un oracolo predisse che, al compimento del suo 15esimo anno di età, avrebbe dovuto lasciare la sua casa, la sua famiglia e la sua terra, andandosene in solitudine su una barca, altrimenti sarebbe andata in pasto al famelico GRECO-LEVANTE, che le sarebbe apparso sotto le sembianze di un gatto mammone.

Compiuti 15 anni, i genitori, per scongiurare il pericolo, la posero su una barca e l ‘affidarono al mare.

La giovane principessa vagò per tre mesi tra le onde del Mediterraneo e, quando esaurì ogni provvista, si abbandonò

all ‘idea di dover morire di fama e di sete, in una terra calda e soleggiata, ricca di fiori, frutti e profumi meravigliosi.Una terra bellissima ma totalmente isolata.

La ragazza pianse tutte le sue lacrime per la disperazione e la solitudine, ma, improvvisamente, spuntò accanto a lei un bellissimo giovane che la confortò e le spiegò il mistero di quella terra ricca, ma deserta: da tempo gli originari abitanti erano morti di peste, ma ora il destino aveva deciso di riportare sull’isola una razza più forte, fiera e gentile; per questo erano   stati scelti loro due.

Così, l’isola fu ribattezzata “Sicilia” con il nome della principessa che portò in grembo le prime, nuove, future generazioni.

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La leggenda del mandorlo in fiore

Secondo una leggenda, il mandorlo nacque da un amore sfortunato che aveva come protagonisti Fillide e Acamante, un eroe greco, figlio di Fedra e Teseo.
Si narra che Acamante, andando a Troia, si fermò per qualche giorno a Tracia.
Qui conobbe la principessa Fillide e si innamorarono perdutamente. Ma il destino di Acamante era segnato dalla guerra di Troia: la fanciulla attese l’innamorato per dieci anni e, venuta a conoscenza della caduta di Troia, non vedendo alcuna nave all’orizzonte, immaginò che l’amato fosse morto e si lasciò morire di dolore. .
La dea Atena, impietosita, trasformò Fillide in un mandorlo. Quando Acamante venne a sapere la notizia, si recò dove sorgeva l’albero e lo abbracciò. Fillide, in cambio di quell’abbraccio, fece spuntare dai rami tanti piccoli fiori bianchi.
Ancora oggi, l’abbraccio fra i due innamorati è visibile in primavera, quando i rami dei mandorli fioriscono, a testimoniare l’amore eterno dei due giovani.

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La leggenda di Santa Lucia
Per i palermitani, in termini di devozione, dopo la patrona Santa Rosalia, viene Santa Lucia.
Il motivo è legato ad un miracolo avvenuto in piena carestia, proprio nel giorno di Santa Lucia, il 13 Dicembre.
Nel 1046, una grave carestia colpì la città di Palermo, la gente era allo sbando e affamata, fino a quando una nave carica di grano approdò al porto di Palermo.
In quei giorni la fame era troppa, quindi si decise di non macinare il grano per fare la farina ma di mangiarlo semplicemente bollito, creando così una versione della ”cuccia”.
Per commemorare questo momento della storia della città, sin d’allora, ogni anno nel giorno di Santa Lucia, i palermitani non mangiano prodotti derivati dalla farina di grano (pane e pasta) , ma mangiano la “cuccia” e le arancine, preparate con il riso.

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Le tre ninfe

La storia della Sicilia è legata a moltissime leggende, alcune delle quali relative alla sua origine.  Tra queste rientra quella che vi narriamo oggi: la Leggenda delle Tre Ninfe.

Si dice che i tre promotori siciliani (Capo Peloro a Nord-Est, Capo Passero a Sud-Est e Capo Lilibeo ad Ovest), punte più estreme dell’Isola che le danno la famosa forma triangolare, siano nate grazie a tre bellissime ninfe.

Giunte in una regione con un cielo azzurro e limpido, le tre ninfe iniziarono a danzare lanciando contemporaneamente in mare tutto quello che avevano raccolto durante il loro viaggio. Così piano piano nacquero i tre promontori. A quel punto il mare racchiuso tra i tre promontori venne irradiato dalla luce di un arcobaleno e divenne terra ferma, colmando lo spazio che separava i promontori.

Ecco che dalle onde emerse un’isola con la forma di triangolo rovesciato, dal clima mite e dalla terra fertile: la Sicilia.

Come scrive lo storico dell’arte Enrico Mauceri:  «Da questa configurazione a tre vertici venne alla Sicilia antica il nome di Triquetra o Trinacria che diede, forse in epoca ellenistica, quella rappresentazione strana e caratteristica al tempo stesso, di una figura gorgonica a tre gambe, adottata perfino in alcune monete dell’antichità classica, e divenuta poi il simbolo, diremo così, ufficiale dell’isola».

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La leggenda della fata Morgana

Al tempo della conquista barbara, uno dei Re conquistatori arrivò in Calabria e si trovò davanti un’ isola meravigliosa con al centro una montagna che emanava fumo e fuoco. Stava meditando su come fare per raggiungerla e conquistarla, quando gli apparve una donna bellissima che gli disse :”vedo che guardi quella meravigliosa isola e ne ammiri le distese di aranci e ulivi, i dolci declivi ed il suo magico vulcano, io posso donartela, se la vuoi “.
Era agosto , il mare era tranquillo e neppure un alito di vento turbava la pace e la serenità del luogo, l’ aria era limpida e davanti agli occhi del Re barbaro accadde uno strano fenomeno : la Sicilia era vicinissima , si potevano vedere chiaramente gli alberi da frutto, il monte che vomitava fuoco e perfino gli uomini che scaricavano merci dalle navi, come se potesse toccarli con le mani. Esultando il Re barbaro balzò giù da cavallo e si gettò in acqua, sicuro di poter raggiungere l’isola con due bracciate, ma l’incanto si ruppe e il Re affogò miseramente. Tutto infatti era un miraggio, un gioco di luce della bella e sconosciuta donna, che altri non era se non la Fata Morgana. .
Ancora oggi si verifica questo strano fenomeno per cui, nelle giornate particolarmente terse di Agosto e Settembre, la Sicilia sembra vicinissima alla Calabria e se ne possono distinguere campi , case e colline; infatti la fata Morgana non è altro che un fenomeno ottico che si ammira spesso nello stretto di Messina e nell’isola di Favignana. A causa di particolari condizioni atmosferiche, guardando da Messina verso la Calabria , si vede nell’aria l’ immagine di Messina e, viceversa, guardando da Reggio Calabria, si vede nello stretto la città di Messina.

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Lu bancu di Didisi

La tradizione degli Arabi in Sicilia , ha lasciato dietro di sé numerose leggende.
Tra queste una delle più note é quella del Banco di Didisi (Lu Banco di Didisi) antico feudo che si trova a Grisì , nel comune di Monreale.
Secondo la leggenda in questo luogo c’é una grotta dove é nascosto un tesoro, talmente ricco che nessun uomo da solo potrebbe goderne .
Trovare la grotta non é difficile, tuttavia una maledizione impedirebbe a chiunque di impossessarsene, pena l’impossibilità di trovare l’ uscita.
Tale leggenda avrebbe spinto molti avventurieri a cercare il tesoro , ma tutti raccontavano di forze sovrannaturali che costringevano i predatori a lasciare tutto.
Si racconta, anche, che esiste un modo per sconfiggere la maledizione .
Si deve entrare nella grotta accompagnati da un cavallo e da tre uomini di nome Santi Turrisi , provenienti da tre angoli della Sicilia .
Una volta al cospetto del tesoro, bisogna uccidere il cavallo e mangiare le interiora fritte e sacrificare i tre poveri Santi Turrisi, in onore degli spiriti protettori.
Soltanto allora si potrà portare via il tesoro.

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La leggenda di Polifemo
Polifemo era una creatura  selvaggia, un ciclope con

un occhio solo.

Fiiglio di Nettuno, Dio del mare, Polifemo era un tipo solitario e viveva su un’isola, all’interno di una spelonca.

Aveva come abitudine quella di mangiare i viaggiatori che sbarcavano sulla sua isola.

Un giorno un furbo navigatore, di nome Ulisse, con i suoi compagni di viaggio, arrivò nella sua grotta mentre lui era assente; mangiarono i suoi formaggi e bevvero il suo latte.

Quando Polifemo rientrò, andò su tutte le furie e mangiò due di loro con le melenzane.

Ulisse, allora, gli fece bere del vino e, quando Polifemo ubriaco si addormentò, gli conficcò un ramo di ulivo incandescente nell’occhio, accecandolo.

Polifemo infuriato e tormentato dal dolore, cominciò a lanciare dei grossi massi in mare, cercando di colpire la nave di Ulisse, ma non ci riuscì. Ulisse e i suoi compagni riuscirono a mettersi in salvo e i massi lanciati da Polifemo non sono altro che i famosi faraglioni che ancora oggi si trovano davanti la città siciliana di Acitrezza.

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Indice

-Nei castelli dei fantasmi siciliani……………… pag 3

-Li diavoli di la Zisa…………………………………… pag 6

-Il cavallo senza testa…………………………………pag 8

-Leggenda di Colapesce……………………………  pag 11

-Cosma e Damiano……………………………………  pag 13

-Leggenda dell’Etna…………………………………   pag 15

-Scilla e Cariddi………………………………………   pag 18

-La principessa di Sicilia…………………………… pag 20

-La leggenda del mandorlo in fiore…………. pag 22

-La leggenda di Santa Lucia………………………pag 24

-Le tre Ninfe……………………………………………   pag 26

-La leggenda della fata Morgana……………   pag 28

-Lu bancu di Didisi…………………………………    pag 30

-La leggenda di Polifemo……………………….  pag 32

 

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