Stromboli, tra sogno e realtà by Cantieri Multimediali - Illustrated by Liceo Vasco-Beccaria-Govone Mondovì - Ourboox.com
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Stromboli, tra sogno e realtà

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Artwork: Liceo Vasco-Beccaria-Govone Mondovì

  • Joined Jun 2023
  • Published Books 1

Le case bianche, basse, le persiane azzurre – a fare il verso alle isolette greche – e improvvisa una pennellata di fucsia, quella della bouganville – pianta tropicale ma perfettamente a suo agio nel Mediterraneo. Il mare blu, di un blu scuro quasi nero, come il nero di quella roccia. La roccia vulcanica. Ecco, quella le isolette greche non ce l’hanno, non così almeno: non hanno Iddu, lui, il soprannome con cui da sempre gli abitanti chiamano il vulcano: lo Stromboli, sempre attivo, sempre borbottante e visibile in tutto il suo antico splendore soprattutto da uno dei versanti dell’isola, quello della sciara del fuoco.

È lì che io e la mia famiglia ci trasferivamo in estate, da circa sei anni, e io passavo le mie giornate con Antonino detto Nino, muratore d’inverno e tassista d’estate, che mi insegnava a guidare l’Ape, l’unico mezzo, insieme a biciclette e motorini, con il quale si potessero percorrere quelle stradine così strette, ripide. A parte i piedi, ovviamente, con i quali potevi arrampicarti fin quasi sulla cima del vulcano. Con Nino, dicevo, ma anche con Daniel che mi insegnava ad andare a caccia di patelle, di ricci, da mangiare crudi, seduti su uno scoglio, con il pane di semola; con Sonia, la proprietaria del bar Ingrid, in cima al paese, dove si mangiava la granita di pistacchio e mandorla più buona del mondo. Con Bartolo, il proprietario di un piccolo motoscafo, con il quale facevo i giri intorno all’isola. Bartolo, che a furia di fare immersioni in apnea era diventato totalmente sordo. O quasi. Con Zurro, un cuoco, un romanaccio, che gestiva il ristorante di pesce più prestigioso e più modaiolo, ma dove c’era sempre tempo per fare due chiacchiere e imparare anche lì. Imparare anche da lui a riconoscere il pesce buono, quello pescato con la lenza o con le mani dai pescatori che al mattino, ricoperti di sale, andavano in giro a piedi scalzi e con la maglietta ancora bagnata e pure strappata, in qualche caso. 

Così ho trascorso le settimane più belle della mia infanzia e adolescenza, camminando di notte con gli amici per scoprire quello che ancora l’isola non mi aveva rivelato, al buio. Buio pesto, perché non c’è luce elettrica di sera per le strade di Stromboli. Si cammina con le torce e senti solo il rumore del mare e vedi solo le lampare in lontananza.

Fino ai primi giorni di luglio di quel 2019 il vulcano erano stato buono, sbuffando ogni tanto, come sempre, e io e la mia famiglia avevamo passato i primi giorni a portarci avanti con l’acquisto dei soliti souvenir e a goderci la solita spiaggia nera – e di che colore altrimenti? – allo Scalo dei Balordi. In quell’estate dei miei sedici anni mi sentivo un balordo anch’io, inselvatichito dal sale e dal sole. Anche quell’estate sarebbe passata: l’aliscafo ci avrebbe riportato in Sicilia, e poi da lì avremmo preso il volo per Torino. Se non fosse stato per Iddu, che aveva avuto la brillante idea di cominciare a borbottare ed esplodere proprio una notte di inizio luglio, quando tutti uscimmo dalle camere degli alberghi, delle case vacanze, dei semplici appartamenti riversandoci tutti in strada. A quel punto fu chiaro per tutti che Stromboli, stavolta, non ci avrebbe fatto andare via così facilmente. Tutto cominciò intorno alle due di quella notte e il primo a capire e parlare fu mio padre.

2

CAPITOLO 1

 

Non si era ancora addormentato, aveva la mente occupata, con lo sguardo fisso sui fogli sparsi per la stanza, impegnato da giorni nella stesura del suo libro Arte della geomanzia.

Sembrava tutto tranquillo, il profumo delle candele era avvolgente e la luce soffusa rendeva piacevole l’atmosfera della stanza; sedeva lì da ore, accompagnato dal rigoroso ticchettio che faceva da contrasto al disordine che lo circondava.

Fece per prendere in mano la tazza di tè e iniziò ad avvertire piccole scosse, il parquet scricchiolare, i piatti e i decori nella credenza scivolare, il portapenne rotolare per terra, i quadri oscillare e si spensero persino le candele.

Tirò indietro la sedia, ancora tremante e con sgomento fissò per qualche secondo quella che prima era una pila di libri, adesso rovesciatasi a terra; si accorse persino che i vetri vecchi delle finestre traballavano. Si rese subito conto della situazione: quando era bambino, fenomeni come questi erano abbastanza frequenti, ma le scosse erano più lievi. Decise dunque che sarebbe stato meglio allontanarsi dalla casa e a quel pensiero si diresse verso il piano di sopra.

Salì velocemente le scale, inciampando su alcuni gradini. Appena raggiunto il pianerottolo quasi gattonando, andò a passi svelti verso la camera da letto, per avvertire la moglie di ciò che era successo.

– Paola! Paola! – urlò mio padre.

– Cos’jé, Salvatore? – rispose lei con agitazione.

– Sùsiti! Ho sentito una scossa!

– O no, sgnù benedet! Dobbiamo svegliare i ragazzi!

– Statti femma! Prima di svegliarli prepariamoci, così facciamo più veloce!

– D’accordo, vado a prendere le giacche nell’armadio.

Le luci erano spente e mia madre, per la paura del momento, non vide la lampada di ceramica e la urtò; questa cadde a terra in mille pezzi e si sentì il rimbombo.

– Noooo!

– Ma chi facisti?

– Che pastis! Ho rotto la lampada!

– Niente ci fa! Ci ni dobbiamo iri.

– Salvatore, ho paura!

Ci fu un momento di assordante silenzio, poi mia madre si fece prendere dallo sconforto e disse con voce tremolante:

– Cosa può essere stato? E se non dovessimo più riuscire a tornare a Torino?

Mia madre cominciò a piangere e si strinse tra le braccia di papà, ma proprio in quel momento si udì un altro boato, questa volta più forte del precedente.

– Dai forza, andiamo dai ragazzi, dobbiamo fare in fretta!

«Sono sicuro che sia il vulcano… sta per eruttare! Non posso dirlo a Paola, si preoccuperebbe ancora di più» – pensò tra sé e sé papà, mentre mamma si ricomponeva.

Io venni svegliato nel cuore della notte dalle voci dei miei genitori. Guardai la sveglia sul mio comodino, segnava le 02:18. Mi alzai dal letto per svegliare mia sorella. La scossi leggermente e lei aprì immediatamente gli occhi.

– Camilla, hai sentito? – chiesi sussurrando con un filo di preoccupazione nella voce.

– Sì, perché mamma e papà stanno discutendo? – replicò la mia sorellina.

– Non lo so, andiamo a vedere. Intanto mettiti le ciabatte.

Attraversammo il corridoio buio fino alla stanza dei nostri genitori e accostammo l’orecchio alla porta per ascoltare meglio la conversazione. Sentimmo allora i loro passi avvicinarsi alla porta e indietreggiammo un po’, facendo cigolare leggermente il pavimento. Stavano venendo a svegliarci.

– Perché siete ancora in piedi? – chiesi incuriosito.

– Papà ha sentito un rumore, adesso andiamo in piazza a vedere cosa succede. Prendete qualcosa per coprirvi.

Allora mia sorella corse in camera a recuperare delle felpe, mentre io e mamma scendevamo in salotto. Qualche istante dopo vedemmo arrivare Milla con il suo coniglietto Ludo fra le mani; per ultimo ci raggiunse papà. Iniziavo a pensare che qualcosa di grave avrebbe rovinato la nostra vacanza.

Mamma prese velocemente le chiavi di casa e si diresse verso la porta. Le tremavano le mani, infatti provò svariate volte prima di centrare la serratura. Quando finalmente riuscì ad aprirla, arrivò papà con in mano due torce. Uscimmo fuori e per le vie del paesino si percepiva un’aria di tensione. Vidi arrivare Daniel dal molo che correva freneticamente con la sua famiglia. La scossa aveva sorpreso tutti. Zurro, che come sempre arrivava dal suo ristorante, indossava ancora le ciabatte. Sonia aveva addosso ancora la sua vestaglia di seta rosa e teneva i capelli raccolti in bigodini; arrivava con la madre e il suo dannato fidanzato. Provavo dei sentimenti per lei da molto tempo, ma sono sempre stato troppo timido per dichiararmi.

Ci dirigemmo tutti nella piazza principale e durante il tragitto si sentivano i commenti preoccupati degli strombolani. Mentre la gente formulava ipotesi su ciò che era successo, io pensavo al da farsi. In caso di eruzione la piazza sarebbe stata troppo vicina al vulcano. Dovevo trovare un luogo più sicuro, che fosse abbastanza lontano da Iddu e facile da raggiungere per i soccorsi. Improvvisamente mi venne un lampo di genio. Il luogo più sicuro era il bar Ingrid della famiglia di Sonia. Con la sua posizione in cima all’isola, di fronte la Chiesa di San Vincenzo, era perfetto per rimanere al sicuro e avvistare i soccorsi; dovevo dirlo assolutamente a papà.

Mi avvicinai a lui: – Papà, ho una cosa molto importante da dirti, credo di aver avuto un’idea per salvarci tutti.

– Dimmi, Filippo.

– Restare in piazza è un’idea insana!

– Perché? Dobbiamo rimanere uniti, altrimenti qualcuno rischierà di farsi molto male.

– Sì, ma questo non è il luogo più adatto. Sarebbe molto meglio andare a rifugiarci al bar Ingrid.

– Che cosa intendi?

– Per prima cosa è il luogo più lontano dal vulcano, inoltre da quell’altezza potremmo immediatamente avvistare i soccorsi!

– Beh, adesso che ci penso bene… Forse hai ragione! Dobbiamo avvertire gli altri per arrivare lassù il prima possibile.

Detto questo, mio padre si mise in piedi su una panchina e comunicò a tutti la nuova direzione.  All’inizio alcuni non erano d’accordo, poi si convinsero e insieme ci dirigemmo verso il bar.

 

3

CAPITOLO 2

 

Il sentiero era molto stretto e ripido, fatto di terra e di sassi viscidi su cui si scivolava. In lontananza si sentivano i boati del vulcano e l’odore di cenere pizzicava le narici.

Daniel, che quella sera era rimasto fino a tardi a pescare seduto sul legno vecchio impregnato di acqua e aria salata, era appena giunto dal molo di corsa mentre mio padre arringava la folla dalla panchina. Nell’ombra non si notava la maglietta totalmente bagnata che il trentenne indossava con una punta di fierezza. I capelli neri e mossi si piegavano al soffio del vento. Gli occhi castani erano sbarrati per la paura e la barba marrone, non rasa da almeno tre giorni, gli conferiva un’aria stanca e trasandata. Era magro ma possente grazie alle molteplici traversate che intraprendeva ogni giorno con la sua barcarella a remi. “Io vado all’osservatorio, per concapire come procede l’eruzione, qualcuno vuole seguirmi?”, disse pieno di orgoglio. Il gruppo di spedizione non lo notò nel trambusto generale, se non il buon vecchio Zurro, il romano di quarantacinque anni, ormai grande esperto dell’isola. Portava un classico berretto da pizzaiolo (anche se il suo ristorante offriva numerose pietanze), il grembiale bianco appannato da olio e farina. I suoi occhi castani cercavano un punto di riferimento in quella confusione destabilizzante. Si mosse goffamente in ciabatte con il suo fisico robusto e non allenato.

Famme venì! Prendiamo il mio motorino.”

E che motorino!

Il Malaguti F10 rosso pieno di adesivi di Zurro ne aveva viste di tutti i colori: comprato di terza mano nel 2006, negli anni era diventato oggetto di molteplici modifiche: prima la marmitta, poi il cilindro, in barba al draconiano codice della strada. Appena acquistato, raggiungeva a fatica i 70 km/h. Ora, con la cilindrata maggiorata, sfiorava gli 85 correndo sulla spiaggia.

Lo scooter, con i due a bordo, partì quasi per miracolo sotto tutto quel peso. Sferragliando si incamminò verso il sentiero, sconnesso e rustico.

Ad ogni sobbalzo un sufficiente numero di santi veniva scomodato. Il motorino arrancava, dal pianale giungevano inquietanti scricchiolii. La boscaglia fitta rendeva ancora più cupa la situazione. Non videro dunque una buca nel terreno. Il ciclomotore, dopo un salto, si tranciò in due, facendo ruzzolare gli intrepidi sul selciato. “, procederemo a piedi. Fatto trenta, famo trentuno!” disse Zurro che ancora adesso, ogni volta che mi racconta questa storia, compiange il suo defunto motorino.

Intanto mio padre, ignaro della loro disavventura, stava guidando il gruppo al bar Ingrid ed era sicuro che in poco tempo saremmo arrivati, anche se eravamo tutti spaventati e stanchi. Gli anziani del paese, usciti in pigiama e con aria ancora assonnata, iniziarono presto a lamentarsi e a borbottare come caffettiere sul fuoco: “Matri santissima! Chi ce l’ha fatto fare!” esclamò qualcuno.

Camilla aveva sonno e si lagnava con nostra madre che, più stanca di lei, cercava di calmarla; la mamma di Sonia, coi suoi anni, faticava a camminare e si lamentava del freddo e del mal di schiena, aiutata dal fidanzato della figlia.

Era buio pesto, tuttavia era possibile scorgere la sommità di Iddu, parzialmente illuminata dalla fioca luce dei lapilli che sembravano fuoriuscire dalla bocca dell’Inferno; il tutto accompagnato dal suo crepitio.

L’illuminazione della piazza era saltata, così come la corrente sull’intera isola. Camminammo per alcuni interminabili minuti nell’oscurità della notte con la sola luce flebile delle torce, che minacciavano di spegnersi ad ogni istante.

Notai al mio fianco Sonia: i lunghi capelli ramati costretti in mille bigodini colorati, il viso struccato dai tratti delicati, le braccia conserte sul petto le conferivano un’aria apparentemente autoritaria. Gli occhi silvani riflettevano la luce della luna e celavano un velo di panico.

“Che hai? Qualcosa non va?” domandai preoccupato.

“Stavo solo pensando che forse non è una buona idea rifugiarsi nel mio bar”, replicò lei, stranamente senza quella sanguisuga del suo fidanzato.

“Cosa intendi?” la incalzai.

“Stiamo camminando da molto tempo e i soccorsi non sono ancora arrivati. Faremmo prima ad andare a Struognulicchiu, l’isoletta poco distante da qui. Se riusciamo ad arrivarci, possiamo contattare i soccorsi e mettere in salvo tutti. Lì c’è l’eliporto”, proseguì.

“Ma come facciamo ad arrivarci?”

“Andiamo a cercare Bartolo e chiediamogli in prestito la sua barca”, concluse il suo ragionamento.

Il discorso rimase sospeso e mi rinchiusi nuovamente nei miei pensieri, valutando le conseguenze di quella decisione.

-E se non riuscissimo ad arrivare? Se succedesse qualcosa durante il viaggio? Durante il tragitto potrei, però, dimostrare tutto il mio valore a Sonia e finalmente trascorreremo del tempo da soli…

Proprio quando eravamo ormai giunti al bar Ingrid, il vecchio pino marittimo crollò fragorosamente: “Che pau”, tuonò mia madre, “Marunnuzza bedda! Accùra!”, le fece eco la voce di un vecchio. La porta del bar era totalmente sbarrata.

Ne approfittai, presi per mano Sonia e cominciai a correre.

“Cosa stai facendo?!”, domandò sorpresa.

“Non era tua l’idea di andare a Strombolicchio? Ho riflettuto e credo anche io che sia la soluzione migliore.”

“Allora sbrigati”, disse lei iniziando a ripercorre il sentiero. Le strette stradine del paese, pavimentate di pietre e ciottoli, si snodavano tra le case già parzialmente ricoperte dalla cenere e da una coltre di polvere e lapilli caduti dal cielo scuro e teso. Grazie al trambusto generale nessuno si era accorto di noi e in pochissimo tempo raggiungemmo nuovamente la piazza e subito dopo il porto. La banchina era deserta.

Il mare era agitato e bollente come una pentola sul fuoco ardente, si udivano gonfie le onde rompersi contro le spiaggette nere, ormai quasi del tutto sommerse; un forte odore salmastro sembrava volerci ricordare la complessità della fuga da quell’incubo.

Strombolicchio, a nord-est del vulcano di Stromboli, emergeva dal mare come un iceberg di roccia. L’imponente scoglio, col suo faro e il suo piccolo eliporto sembrava essere la nostra salvezza. Sorvegliato su uno dei suoi lati da una grande roccia che ricorda la forma del busto di un cavallo, si stagliava lì, a pochi metri da noi. In quel momento notammo due figure in procinto di scappare: uno era basso e dalla costituzione mingherlina, con lunghi capelli ricci; l’altro decisamente più robusto, parzialmente calvo con solo alcuni ciuffi castani raccolti in una coda a coprirgli la nuca. Li riconobbi immediatamente: erano Nino e Bartolo, entrambi vestiti con le loro camicie hawaiane dai colori sgargianti ma sbiadite dal sole.

Dove volevano andare?

 

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CAPITOLO 3

Nino e Bartolo si stavano dirigendo verso il porto, cercando di non farsi notare dalla folla in panico.

Stavano caricando delle taniche di benzina sul motoscafo e sembravano agitati.

– Bartolo, stiamo facendo la cosa giusta? – disse Nino con voce tremolante. Aveva le mani sudate e una tanica gli cadde a terra.

Sbìgghiati, ma cosa stai dicendo! – disse Bartolo.

– Forse dovremmo pensare anche agli altri e non solo a noi. – rispose Nino indietreggiando.

– Ma non capisci che moriranno tutti, vuoi salvarti la vita oppure no?! – pronunciò Bartolo scaldandosi. Nino abbassò lo sguardo, consapevole che era inutile discutere con una persona irascibile come lui.

Il ragazzo, un po’ titubante, slegò gli ormeggi e Bartolo accese il motore per partire verso un luogo sicuro.

– Fermatevi! – gridai.

I due si avvicinarono a noi, avendoci visto e fecero una smorfia bizzarra. Il nostro cuore batteva forte, perché non sapevamo cosa ci saremmo dovuti aspettare da quell’incontro. Ad aprire il discorso fu Bartolo che disse: – Che cosa ci fate qui voi due?

– Potrei farvi la stessa domanda – risposi io – Stavate cercando di fuggire abbandonando tutti noi?

Con volti imploranti e pieni di paura e preoccupazione, si guardarono negli occhi disperati, quando Nino propose: – Se promettete di non dire niente a nessuno, verrete con noi. Sonia e io ci scambiammo uno sguardo d’intesa e decidemmo di accettare la proposta.

Poche ore dopo si avvicinò un forte vento, lampi e fulmini cominciavano a sentirsi e illuminarono il cielo per pochi secondi. Il rumore continuo e intenso del vento sembrava volerci indurre a scappare, ma in quel momento eravamo isolati in mezzo al mare, che ruggiva, agitato dalle scosse che dall’isola si propagavano tutt’intorno. Mantenersi in equilibrio era difficile. Arrivati a metà di quel lembo di mare che ci separava da Strombolicchio, a Bartolo risultò impossibile governare il motoscafo.

– Nino! Nino! Mòviti e vieni ad aiutarmi!

Ma quelle parole intrise di ansia e di terrore arrivavano troppo ovattate alle sue orecchie e lui non si mosse dall’angolino dove, in preda al panico, si era accoccolato.

– Resta qui! – intimai a Sonia.

– Fai accura, Filippo! – mi gridò lei di rimando.

Mentre Bartolo reggeva il timone, io regolavo la velocità, ma dentro di me già sapevo che non sarebbe finita bene. Il vento sferzante mi graffiava il viso, schizzi d’acqua ci impregnarono i vestiti e le onde erano talmente alte che ci oscurarono la vista di Strombolicchio, come se man mano l’isola venisse inghiottita da un sipario di buio. Passarono forse dieci minuti in quell’inferno di acqua e di vento; il motoscafo, sopraffatto dalla forza del mare, d’improvviso si rovesciò.

Mentre cercavo di tenere la testa fuori dalle acque torbide, sentii qualcosa aggrapparsi a me… Sonia. Ci sorreggemmo a vicenda cercando di scorgere Nino e Bartolo, ma senza successo.

Ad un tratto una luce accecante ci inondò; una barca si era avvicinata a noi e ci puntava addosso il suo faro di prua. Guardai Sonia con aria interrogativa. Una voce bassa e gutturale gridò: – Fozza, figghjoli! Nchianàti!

Ci fu calata una corda, Sonia ci si aggrappò, salì sul battello e poi mi porse il braccio. Un uomo in carne uscì allo scoperto. Doveva avere almeno settant’anni, spalle larghe e braccia robuste. Aveva un paio di folti baffi grigi e neri e gli occhi azzurri; portava una spessa giacca rossa, lisa da tanti anni passati tra le onde e un cappellino della marina intriso di salsedine. Non so perché, ma aveva l’aria molto familiare.

– Voi due, andate in cabina! Io tiro su i vostri amici! Ragazzo, mettiti al timone e cerca di non farci affondare!

Per me, che a mala pena sapevo guidare il motoscafo di Bartolo, gestire una barca del genere risultò quasi impossibile.

Scansati, Filippo! – Sonia mi spinse via dal timone e, con un’abile manovra, stabilizzò il battello.                                                                                                                           Stavo per chiederle come avesse fatto quando Nino, Bartolo e lo sconosciuto che ci aveva salvati entrarono in cabina. Quest’ultimo chiuse la porta e ci domandò: – Chi siete? Cosa ci facevate in mare con una bagnarola come quella?

Parlai io a nome di tutti: – Veniamo da Stromboli. Cercavamo di raggiungere Strombolicchio per allertare i soccorsi; il vulcano sta per eruttare.

L’uomo si accese una sigaretta.

– Non mi stupisce. Ho ripetuto per mesi che Iddu sarebbe eruttato quest’estate e questi due – indicò con un gesto plateale Nino e Bartolo – u sapìunu.

– Via, via Giuseppe. Nessuno dei geologi ti ha dato retta; non avevano rilevato scosse, fremiti, niente di niente! Come potevamo sapere…

L’uomo dai vivaci occhi azzurri sputò una buona bestemmia: – Geologi! Iddu non parla ai laureati, parla solo ai veri isolani che però sono diventati troppo sordi per ascoltarlo!

– Chi è quest’uomo? – domandai spazientito.

– Lo chiamano l’eremita di Strombolicchio. Ma è una lunga storia, Filippo.

– E non sarò di certo io a raccontartela, ragazzino.  Adesso sedetevi laggiù nell’angolino e fate silenzio; vi ci porto io a Strombolicchio, ma una volta arrivati là… vi arrangerete.

Squadrai l’omone dall’alto al basso poi feci come mi aveva ordinato.

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CAPITOLO 4

 

Guardai attentamente lo “straniero”, poiché tanto straniero non mi sembrava. Impugnava saldamente il timone e il suo sguardo era fisso sull’orizzonte. Un po’ quell’omone mi intimoriva, ma allo stesso tempo mi incuriosiva. Mi sembrava di conoscerlo, ma i miei pensieri offuscati non mi permisero di mettere a fuoco chi potesse essere. Però forse un collegamento l’avevo trovato, poiché mio padre mi raccontava sempre…

-Ehi giovanotto, perché continui a fissarmi?- Mi risvegliò dalle mie confuse riflessioni la voce profonda e rauca di Giuseppe. Non risposi, ma il vecchio mi fece cenno con la mano di raggiungerlo al timone. Mi alzai e andai da lui. Aveva lo sguardo concentrato e, tutto d’un tratto, guardandomi, scoppiò a ridere. Ero sempre più confuso, Giuseppe sembrò notarlo e improvvisamente mi chiese: -Non mi riconosci, Filippo?-. Finì la frase con un piccolo ghigno, che un po’ mi impaurì. Come faceva quell’uomo a conoscermi?

– Che c’è? Il gatto ti ha mangiato la lingua?-, scherzò Giuseppe non sentendo arrivare nessuna risposta da parte mia. E ancora una volta non parlai. Strano, non era da me. Ma in quel momento le parole mi si bloccarono in gola. Sono sempre stato estroverso e socievole, però davanti a quell’uomo mi sentivo solo un piccolo ragazzino impotente. Guardai Giuseppe e, sospirando, lui iniziò a raccontare:

-Filippo, io conosco la tua famiglia e specialmente tuo padre più di quanto tu possa immaginare -, iniziò l’uomo. Lo guardai con aria perplessa: come faceva a conoscere la mia famiglia?

-Io e tuo padre siamo lontani cugini, ma da giovani eravamo molto legati. Siamo cresciuti insieme, tra risate e avventure -, continuò Giuseppe. Spalancai gli occhi dallo stupore, non potevo credere a quello che avevo appena sentito. Ecco perché quell’uomo aveva un’aria così familiare…eravamo parenti!

Giuseppe vide la mia reazione sconcertata, ma non se ne curò e continuò il racconto: -In città, fin da quando io e tuo padre eravamo piccoli, si narrava una leggenda che ha sempre catturato la nostra attenzione, incuriosendoci e spingendoci a volerne sapere di più. Ci raccontarono che sull’isola di Strombolicchio era nascosto un diario, nel quale erano custodite le indicazione su come prevedere le eruzioni di Iddu –

– DAVVERO???-, esclamai incredulo e sbalordito.

– Ti sembro uno che scherza su questi argomenti?-, mi domandò improvvisamente Giuseppe.

– Sì -, risposi ironicamente ed entrambi scoppiammo in una grossa risata.

Notai in Giuseppe uno sguardo più amichevole rispetto a prima, ora mi faceva un po’ meno paura. L’uomo proseguì dicendo: – Eravamo giovani e, incuriositi dalla leggenda, una notte decidemmo di prendere il motoscafo di Bartolo, ovviamente a sua insaputa,  per raggiungere Strombolicchio -. Non pensavo che mio padre fosse così avventuroso, visto che non avrebbe nemmeno avuto il coraggio di togliere un ragno dalla credenza.

– Alle 00.01 arrivammo a Strombolicchio. Iniziammo ad ispezionare l’isola, cercando disperatamente il diario. Erano passate due ore e ancora non avevamo trovato nulla. La stanchezza prese il sopravvento e così decidemmo di accamparci lì per la notte. La mattina seguente continuammo le ricerche, ma invano. Così tuo padre cominciò a dubitare della veridicità della leggenda. Io, invece, ero sicuro che avremmo trovato il diario e che arrendersi così presto sarebbe stata la decisione meno opportuna -, raccontò Giuseppe.

– E alla fine cosa avete deciso di fare? -, lo interruppi.

– Litigammo. Di discussioni ne avevamo affrontate parecchie, ma quella fu la peggiore. Infatti, tuo padre decise di abbandonare l’isola con il motoscafo e di lasciarmi continuare le ricerche da solo. Non me lo sarei mai aspettato da lui, eravamo un’ottima squadra, alleati da sempre e condividevamo le stesse idee.-. continuò l’uomo.

Si intravedeva una certa tristezza e delusione negli occhi di Giuseppe. In fondo un po’ lo capivo, perché non è facile essere abbandonati nel momento del bisogno. Nonostante la malinconia che Giuseppe provava in quel momento, proseguì dicendo: – Rimasi sull’isola e continuai a cercare il diario. Un pomeriggio, trovai una casa che sembrava abbandonata e ci entrai. Ispezionai qualsiasi angolo dell’abitazione e, aprendo un cassetto, notai un piccolo quadernino impolverato. Lo presi e iniziai a sfogliarlo. Sulle pagine si potevano intravedere alcuni disegni di Iddu, rifiniti nei minimi dettagli. A fianco, c’erano varie scritte che, a quel tempo, mi sembravano incomprensibili, ma sapevo che se fossi riuscito a decifrarle avrei avuto in mano la chiave per prevedere le eruzioni di Iddu. Perciò, rimasi sull’isola come eremita e trascorsi molti anni ad interpretare quelle diciture, fino a quando non ci riuscii.-.

“Urca!!!”, pensai tra me e me.

– La barca, che ora ci sta portando a Strombolicchio, la trovai casualmente un giorno sull’isola e da quel momento diventammo inseparabili. Questa bambina mi accompagna ogni giorno nelle mie avventure ed è grazie a lei se voi siete salvi. Le dovete un grosso favore!!-, ironizzò Giuseppe. Avevo una strana espressione in volto, poiché non riuscivo proprio a capire il sarcasmo di quell’uomo. E, per l’ennesima volta, tacqui.

Giuseppe ricominciò a parlare: – Filippo, io sapevo che Iddu avrebbe eruttato. Il diario non sbaglia mai. Avevo già avvisato Nino e Bartolo per telefono qualche mese fa, poiché tra tutti gli abitanti di Stromboli loro erano gli unici reperibili e che sono riuscito a contattare, però non mi hanno voluto ascoltare. Ed, infatti, ora siamo qua.-.

Nella mia mente navigavano una marea di pensieri riguardanti tutto ciò di cui Giuseppe mi aveva parlato fino ad ora. Il protagonista della storia, che mio padre mi raccontava sempre e che era molto simile a questa, era proprio Giuseppe? E come mai mio padre non aveva più provato a ricontattarlo per sapere se fosse ancora vivo? Come mai Nino e Bartolo non gli avevano dato ascolto? Probabilmente non avrei mai trovato una risposta a tutte le domande che avevo in testa. E, forse, nemmeno me ne importava, poiché ormai eravamo intrappolati in quella situazione e sicuramente non ne saremmo usciti dando delle risposte ai miei mille interrogativi.

Giuseppe impugnò più saldamente il timone della barca ed esclamò: -Tenetevi forte, stiamo per arrivare!-. Ci girammo tutti verso l’orizzonte e intravedemmo un’isola in lontananza. Dopo un breve lasso di tempo, che mi parve infinito, approdammo finalmente a Strombolicchio.

6

CAPITOLO 5

 

La vegetazione dell’isoletta non era rigogliosa come credevo, il paesaggio si mostrava aspro e roccioso. Mentre mi guardavo intorno, riflettevo su come avremmo contattato i soccorsi e chiesto aiuto. Guardai Sonia, era visibilmente preoccupata e in pensiero per i suoi cari rimasti a Stromboli e incrociando il mio sguardo smarrito mi chiese: —“E ora che si fa?”

La mia attenzione venne catturata dal faro che si trovava sulla parte alta dell’isola, in particolare dalle sue finestre. Erano illuminate da una luce interna, mi sembrava di scorgere vagamente la sagoma di un uomo.

“Guardate! — dissi — C’è un uomo all’interno del faro! Avrà sicuramente i mezzi di comunicazione necessari per chiedere aiuto, andiamo lì!”

A questa affermazione sul viso di Giuseppe si formò un ghigno malizioso, che non prometteva nulla di buono.

“Non andremo proprio da nessuna parte” — disse Giuseppe con aria minacciosa, tirando fuori dalla tasca della sua giacca un revolver nero e puntandolo verso di noi. “Fate un altro passo e non esiterò a sparare!”

Nel frattempo Nino e Bartolo si erano affrettati a procurarsi delle funi per legare me e Sonia, che assistevamo increduli alla scena. Non credevo ai miei occhi, perché si stavano comportando così? Mentre cercavo una spiegazione a quanto stava accadendo, Bartolo e Nino legavano i nostri polsi. Giuseppe ci intimava di seguirli, minacciando di spararci nel caso in cui avessimo tentato di fuggire.

Dopo un lungo cammino arrivammo all’ingresso di una grotta. Io e Sonia, scortati da Nino e Bartolo, entrarono e ammirarono l’immensa cavità sotterranea. L’entrata era buia, quindi Bartolo tirò fuori dal taschino della sua camicia hawaiana una torcia e la grotta si illuminò.

Alzando lo sguardo notai moltissime stalattiti, che pendevano dal soffitto. Sentivo l’aria fredda accarezzare la mia pelle e l’ansia crescere sempre più. Dopo aver percorso un tratto che mi sembrò infinitamente lungo, arrivammo di fronte a una parete, su cui erano raffigurate le isole Eolie. La mia attenzione si concentrò sulla raffigurazione dell’isola di Stromboli, diversa rispetto alle altre perché presentava una cavità occupata solo per metà da un cristallo.

Mi girai verso Sonia, sembrava molto confusa, e tutto a un tratto si mise a gridare contro Nino in lacrime: “Perchè lo stai facendo?!? Tutti sanno che Giuseppe è matto, ma tu?!?”

“Io e Bartolo non avevamo più soldi, non sapevamo più che fare, eravamo davvero disperati.

Un giorno però inaspettatamente la soluzione ci arrivò da Giuseppe. Ci regalò delle monete d’oro, che a suo dire facevano parte del tesoro di Strombolicchio, da lui ritrovato molti anni prima. In cambio, ci aveva soltanto chiesto di cercare su Stromboli un cristallo, che a noi non sembrava di particolare valore. Non potevamo rifiutarci di aiutarlo! E poi ci aveva promesso di dividere con noi il resto del tesoro!!!”

Mentre Bartolo mi sorvegliava attentamente, Giuseppe si avvicinò a noi. Io e Sonia ci scambiammo uno sguardo pieno di terrore: “Perché ci stai facendo questo?” — chiesi perplesso e impaurito. “Voi, ragazzini, non potrete mai capire ciò che ho passato!” — esclamò Giuseppe con una notevole frustrazione che traspariva dai suoi occhi.

Ascoltando queste parole mi vennero in mente tutta una serie di aneddoti riguardanti Giuseppe, ciò che i miei parenti mi raccontavano su di lui e la sua famiglia. Gli abitanti di Stromboli lo consideravano un po’ matto perché non faceva altro che parlare di eruzioni e di un fantomatico diario da decifrare.

“Vi odio tutti”— grido con foga Giuseppe.

Sonia incroció il mio sguardo e comprendemmo, infine, che l’emarginazione e le maldicenze nei suoi confronti avevano alimentato un forte sentimento di vendetta verso gli strombolani.

“Finalmente! Dopo tanti anni potrò avere la mia vendetta!” esclamò trionfante Giuseppe. “Quante notti ho passato a cercare di decifrare questo diario: la chiave per distruggere Stromboli!” Il pensiero lo aveva ossessionato per così tanto tempo e ora, che era così vicino a raggiungere l’obiettivo che  tanto aveva aspettato, il sangue gli scorreva nelle vene con la medesima velocità che la lava avrebbe impiegato per sommergere l’isola.

“Ma che stai dicendo? Non puoi controllare il vulcano!” protestai alterandomi alquanto.

“Oh, sì che posso!” Un sorriso folle e maligno si dipinse sul suo volto.

“Nino e Bartolo mi hanno portato il cristallo mancante che, unito all’altro già presente sulla parete della grotta, mi permetterà di innescare contemporaneamente una serie di terremoti e un’eruzione senza precedenti e cancellerò l’isola dalla faccia della Terra!”

“Ma come puoi farlo?!? Le nostre famiglie e i nostri cari sono sull’isola! Risparmiali, ti prego!” lo implorò Sonia con le lacrime agli occhi.

“Sciocca! È proprio per sbarazzarmi dei suoi odiosi abitanti che distruggerò l’isola!”

“Gli abitanti dell’isola non hanno alcuna colpa!” urlai.

“Mi hanno esiliato e trattato come un pazzo eremita! Sono stato disprezzato e odiato tutti questi anni! Ma adesso le cose cambieranno, sì! Cambieranno!!!”

“Hanno fatto bene a isolarti, squilibrato!”.

Giuseppe afferrò la pistola e la puntò verso di me.

“No!” urlò Sonia.

Il proiettile passò a pochi centimetri dal mio braccio sinistro. Giuseppe scoppiò in una risata isterica, che metteva i brividi. In quel momento pensai che non avrei più rivisto la mia famiglia.

La paura sul volto di Sonia tuttavia mi rincuorò. Pensai che forse la sua preoccupazione non era quella che si ha per un semplice amico. L’inquietante sguardo di Giuseppe mi riportò alla realtà. Eravamo imprigionati, nessuno sapeva che ci trovavamo lì. Ci doveva pur essere un modo per liberarci e salvare le persone a cui volevamo bene.

 

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CAPITOLO 6     

Nel frattempo, mentre io e Sonia ci stavamo ancora dirigendo a Strombolicchio, Zurro e Daniel, dopo aver sfasciato e abbandonato il motorino lungo la strada, erano giunti all’Osservatorio: la situazione non sembrava delle migliori. Dal vulcano fuoriusciva fumo e si iniziavano a percepire alcune scosse più forti. Prima dell’esplosione, il vulcano aveva dato dei segnali: i crateri avevano emesso colate di magma da tutte le bocche per un paio di minuti. Le esplosioni iniziarono verso le due di notte con l’espulsione di ceneri, bombe e lapilli che ricadevano attorno alla bocca principale. Erano violente e improvvise e stavano danneggiando parte del centro abitato. L’eruzione suscitava sgomento e preoccupazione, ma nonostante questo erano tutti riuniti nella piazza di fronte al bar Ingrid e alla chiesa di San Vincenzo. Si facevano forza l’un l’altro, poiché sapevano che la lava incandescente sarebbe colata solo verso la parte disabitata dell’isola: la Sciara del fuoco.

Zurro e Daniel, mentre discutevano sul da farsi, videro un motoscafo partire. Erano confusi. Chiunque stava per avventurarsi nel mare in piena notte, durante una tempesta e con l’imminente eruzione doveva essere pazzo, a detta loro. Decisero di raggiungere gli abitanti di Stromboli, tornando indietro. Dovevano individuare un tragitto veloce che non gli facesse perdere tempo e così decisero di passare dallo Scalo dei Balordi. Tacevano entrambi e correvano dritti senza distrazioni, ma Zurro si arrestò di colpo e urlò: ”Mortacci sua, quello è il motoscafo di Bartolo, cosa diavolo sta facendo in mare mentre lo Stromboli sta eruttando!?!”.

Daniel ci mise qualche secondo per realizzare ciò che stava succedendo e propose di proseguire per la faticosa strada su per la collina. Arrivati, iniziarono ad urlare per avvertire gli abitanti della situazione. La confusione di emozioni era tale che i più si limitavano a rimanere in silenzio, come se lo stomaco si stesse restringendo e le corde vocali fossero state tagliate.

I genitori erano attoniti per paura che i propri figli fossero a bordo e, per quanto si fidassero di Bartolo, erano consapevoli delle scelte sconsiderate che era in grado di prendere. Altri invece urlavano ed erano molto agitati – turisti stranieri compresi, naturalmente – che certo non potevano immaginare un simile risvolto. 

Intervenne mio padre, mantenendo il suo caratteristico sangue freddo, fu in grado di zittire la maggior parte delle persone e iniziò a controllare se vi fossero degli scomparsi.

Lo sguardo degli abitanti era rivolto al mare: c’era un altro motoscafo ribaltato e una barca a fianco. Zurro disse: ”Saranno i soccorsi, spero!”. Daniel sussurrò al suo amico: ”Non penso proprio, guarda in che direzione stanno andando”. Il cuoco subito non capì, poi realizzò che la barca si stava dirigendo verso la piccola isola di Strombolicchio e capirono che stava accadendo qualcosa di losco.  

Ormai le scosse erano sempre più forti e ad ognuna di esse la terra tremava, senza contare che la temperatura del terreno, a causa del magma sottostante, sembrava aumentare sempre di più, di minuto in minuto, di ora in ora. Da Piazza San Vincenzo si poteva vedere la cima del vulcano colorata di rosso striato di oro: il caratteristico aspetto della lava. 

I miei genitori, Salvatore e Marta, avevano realizzato la mia assenza – come i genitori di Sonia, del resto – e, preoccupati, pensarono ad alta voce: ”Ades cum i fuma a rintraceie?! I telefoni non funzionano e non possiamo dividerci per cercarli tra le stradine” e aggiunse: ”Salvatore, come faremo? Sento che i ragazzi sono in pericolo”.

”Non preoccuparti per loro, sono più furbi di noi e sanno come cavarsela. Adesso li vado a cercare. Riandate al bar Ingrid. Io tornerò appena troverò i ragazzi”.

 “Non allontanarti, è pericoloso! Non puoi sapere cosa ti aspetta! E se anche tu finisci nei guai non potremo rintracciarti”, disse mia madre.

“Va bene, rimango qui e aspettiamo che arrivino i soccorsi”, rispose, momentaneamente rassegnato mio padre.

Anche Luciana e Marcello, i genitori di Sonia non sapevano dove sbattere la testa. La mamma di Sonia disse con la voce tremolante: ”Cumu fazzu senza di lei?”. Il papà, cercando perlomeno di tranquillizzarla, disse:”Amuri miu, stai calma, anche Filippo non s’attrova, sarannu nzemi, per questo possiamo essere un po’ meno preoccupati”.

“Vita mia, come faccio a stare tranquilla?”

Il marito strinse a sé la moglie, non solo in segno d’affetto, ma anche per rasserenarla. In quel momento la donna sgranò gli occhi e disse: ”Guardate in acqua! Lì, vicino alla spiaggia!”.

Tutti si voltarono verso il punto che Luciana stava indicando e videro un corpo che galleggiava nel mare.

A tale vista, tutto quello che era stato trattenuto da mia madre scoppiò in un pianto isterico che racchiudeva tutto il suo più primitivo istinto materno. Mio padre invece cercò – ancora una volta – di tenere a bada gli impulsi e di ragionare. “Devo andare, devo andare io”, disse.

 

 

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CAPITOLO 7

 

Mio padre iniziò a correre verso la spiaggia quando vide il corpo in acqua, era come paralizzato dallo shock. Ad un certo punto mentre si precipitava sulla riva iniziò a pensare seriamente fossi io il morto galleggiante, non sarebbe riuscito a sopportare un dolore così grande; ipotizzò che quando da giovane aveva lasciato Giuseppe per cercare il diario delle eruzioni del vulcano di Stromboli, lui se la fosse presa e che adesso avesse cercato la vendetta uccidendomi. Mio padre cercò di non pensare a questa opzione anche se era più forte di lui,

alla luce di questo suo pensiero iniziò a correre ancora più forte per cercare di soccorrermi se fossi stato proprio io quel corpo galleggiante in acqua, era straziato da quell’ansia che non andava mai via.

Arrivato a riva, senza pensarci due volte anche se pieno di paura, si gettò in acqua.

Iniziò a nuotare più veloce che poteva e da lontano cercò di riconoscere il corpo dai vestiti. Osservando attentamente, fece un sospiro di sollievo, fortunatamente gli indumenti del cadavere non erano miei, con le lacrime agli occhi dalla commozione ringraziò il Signore.

Mio padre sollevò il cadavere e lo posò sulla spiaggia inorridito e disgustato dal corpo decapitato: la sua testa era stata tagliata crudelmente dall’elica di una barca nel momento in cui cadde in mare durante la tempesta.

La pelle era completamente sbiancata a causa della salinità dell’acqua, con pieghe in tutto il corpo, la carne del collo era di un rosso scuro e i vestiti sgualciti e sudici. Mio padre invitò tutti i presenti ad avvicinarsi: “Correte! Ho bisogno di voi! Il vulcano non è l’unico a fornirci vittime, ora inizia anche il mare…”.

Tutti corsero a vedere cosa fosse successo e mia madre si sentì male per la paura che quel ragazzo fossi io, non ragionando su chi fosse il corpo, fu travolta da questa enorme paura: “Non sarà mica Filippo vero? Aiuto mio Dio, non può essere il mio caro dolce unico Filí”.

“Possiamo avere ancora una possibilità che non sia lui, osserva i vestiti, aveva altri indumenti addosso l’ultima volta che lo abbiamo visto” aggiunse mio padre.

Mia madre ringraziò il cielo quando si rese conto di questo particolare, ma il corpo divenne comunque famigliare. Mio padre intervenne: “Guardate! Indossa un braccialetto al polso, qualcuno lo riconosce?”

In quel momento nessuno aprì bocca.

Dopo aver analizzato attentamente il cadavere e cercato di trovare piú indizi possibili sull’identità, tutti furono travolti da un’ondata di verità.

In quel momento i presenti capirono e la mamma di Tony prima di svenire urlò: “Noooooo, mio figliooo!”.

Tony era il fidanzato di Sonia, stavano insieme da quando avevano 14 anni, era un ragazzo alto con fisico sportivo, capelli scuri e occhi azzurri; aveva un carattere lunatico e scorbutico, era geloso della sua ragazza e in paese non stava simpatico a molta gente. Qui sorse il dubbio… Yuri, un ragazzo tra la folla lì presente chiese: “Quindi è un presunto incidente o abbiamo davanti agli occhi un omicidio?”.

 

Intanto io e Sonia avevamo fortunatamente scampato il colpo di pallottola che era saettato davanti ai nostri occhi, colpendo la parete della grotta, che già stava iniziando a sgretolarsi a causa dell’imminente eruzione che faceva tremare tutta l’isola sotto i nostri piedi. Giuseppe non era però intimorito dal vulcano, perché riuscivamo a vedere nei suoi occhi il desiderio di compiere ciò che era il suo obiettivo sin dall’inizio; restava un colpo solo che avrebbe determinato se saremo sopravvissuti, ma sembrava non avessimo scampo né da lui né dal vulcano che echeggiava sempre di più all’interno della caverna.
Potevo percepire il respiro di Sonia e il suo battito aumentare  di fianco a me e mi venne subito l’impulso di prenderla per mano, avrei preferito un’altra immagine di noi due assieme, ma forse sarebbe stata l’ultima. Così, con la voce che tremava riuscii solo a dirle: “Sonia, non credo che sopravvivremo”. Lei con la sua voglia di cercare del positivo in ogni situazione aveva detto sorridendo: “Filì, c’è sempre una via di uscita e ce la faremo.”
In una situazione del genere non riuscivo a crederle, ma di fronte a tale criticità avevo finalmente trovato il coraggio di dirle quello che provavo, sebbene sapessi del suo fidanzato: se doveva finire così, volevo sapesse cosa provavo per lei.
Nel frattempo Giuseppe iniziò, con sorpresa per noi, ad abbassare la pistola e i suoi occhi si facevano più lucidi e come se si stessero immergendo in qualcosa che gli ricordava il suo passato.
“Sonia, se dovesse finire qua, voglio che tu sappia che non voglio morire senza averti detto quello che provo per te, e avrei voluto immaginarci insieme diversamente, magari in spiaggia come piace tanto a te….”
Alzai lo sguardo, in volto aveva un’espressione stupita, ma che fortunatamente accennava a un piccolo sorriso. Improvvisamente, prima che potessi continuare, si avvicinò e mi baciò, ma a interrompere, senza che potessimo dire qualsiasi cosa, l’ultimo colpo echeggiò nella caverna e scese il silenzio.

All’improvviso sbucò un’ombra da dietro un masso a cui non avevo fatto caso, quando insieme ad essa apparve anche la persona ero incredulo, era Tony; ancora non lo sapevamo, ma sulla spiaggia credevano che fosse morto. Aveva visto tutto e preso dalla gelosia e dalla furia, impugnò il coltello che aveva nella cintura e si diresse correndo velocemente verso di me. Sonia era disperata e implorava Tony di fermarsi, di non farlo, ma lui non l’ascoltava e continuava imperterrito, era accecato dalla rabbia. Voleva infliggermi un colpo letale al cuore, ma io riuscii a girarmi e in questo modo subii il colpo sul braccio sinistro, salvandomi; così si tagliò anche la fune che mi teneva legato, riuscii poi a liberare me e Sonia. Nino e Bartolo erano sconvolti dalla scena appena accaduta ed esitavano ad aiutarci, ma per fortuna, quando videro che Tony si era scagliato di nuovo contro di me, tornarono in loro e cercarono di immobilizzarlo, cosa che  poco dopo riuscirono a fare.

Il coltello nel mio braccio mi doleva sempre di più, intanto Tony continuava a ribellarsi e Sonia cercava di tranquillizzare entrambi, con scarsi risultati. A un certo punto, Nino si diresse verso di me per aiutarmi con la ferita, strappò la manica della sua maglia, mentre Sonia estrasse il coltello dal mio braccio e poi me lo bendarono, in modo che il sangue si fermasse; intanto Bartolo teneva ancora stretto Tony, il quale aveva smesso di dimenarsi e piano piano si stava calmando, i suoi occhi, che prima erano di fuoco, stavano tornando del loro colore azzurro ghiaccio.

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CAPITOLO 8

Filippo durante la terapia di gruppo nella clinica si alzò d’un tratto. Sudato, palpitante e tachicardico, andò da Sonia, la sua infermiera.

Dalle sue labbra cominciò a fuoriuscire la storia che fino a poco prima era viva nella sua immaginazione: “L’uomo del faro…Tony…noo il vulcano!”.

Sonia, abituata a situazioni simili, fece sedere Filippo il quale raccontò la fine dell’avventura immaginaria che la sua mente contorta aveva generato.

“Ma certo! Giacomo, sì, Giacomo, l’uomo del faro, è lui la chiave di tutto! É sicuramente d’accordo con Tony e Giuseppe… ma qualcosa non quadra… e se Giacomo non fosse completamente complice di quegli altri due?”

Filippo, ancora scosso dal ritorno alla realtà, chiuse gli occhi e la sua mente ricominció a viaggiare e si immerse nuovamente in quella notte di luglio che gli si presentava incredibilmente vivida.

 

Mentre giacevo sanguinante nella grotta, Tony, pentitosi della scellerata azione appena compiuta andò con passo spedito a cercare Giacomo, la misteriosa sagoma sul faro, ma quando uscì dalla caverna e rivolse il suo sguardo al nero mare notturno vivo di luce lavica, vide una forma galleggiante colpita dal moto ripetitivo delle onde e un’idea raccapricciante gli fece gelare il sangue.

Tony scese l’insidioso sentiero tra gli scogli e raccolse inorridito ciò che restava del povero Giacomo. Alcune lacrime salate si fondevano con il sangue gocciolante dalle eliche della barca lì a fianco.

 

Giuseppe, ancora all’interno della cupa caverna, rimase pietrificato al pensiero delle azioni che aveva premeditato; un brivido gli attraversò il corpo e terminò quell’intricato esame di coscienza ripensando a tutto quello che aveva passato e sofferto: discriminazione emarginazione solitudine tradimento delusione… esilio.

Una volta rinvigorito grazie ai suoi loschi pensieri estrasse dalla tasca della sua malconcia giacca della marina divorata dalla salsedine la metà di cristallo mancante e con tutta la forza di volontà rimasta lo incastonò violentemente nella fessura.

I cristalli ormai uniti diedero inizio al temuto rituale predetto dal diario: “Quando le due parti del cristallo maledetto verranno riunite all’interno della grotta del fratello del grande Stromboli l’apocalisse si abbatterà sull’intera isola e gli sfortunati presenti su di essa”.

S’udì d’improvviso un rombo cupo e profondo; un boato orribile e tremendo o come una specie di mina che esplodendo sotto i piedi volesse sprofondare e inabissare la terra. Si sentì un rumore assordante che rimbombando risuonava nella cruda notte; in pochi secondi ebbe termine l’opera istantanea di distruzione, d’inaudito terrore e di generale desolazione. Filippo e Sonia, terrorizzati, scapparono velocemente dalla grotta, seguiti da Nino e Bartolo. Appena fecero capolino oltre le rocce frastagliate ed ebbero raggiunto la spiaggia rimasero attoniti guardando l’isola di fronte: la profezia si  avverò, una fontana di fuoco uscì dalla bocca dello Stromboli, i lapilli e le bombe distrussero tutte le abitazioni dell’isola, le colate si facevano strada sui versanti del cono divorando tutto ciò che si trovava sul percorso. La distruzione del vulcano aveva però risparmiato l’altura sulla quale si trovava il bar Ingrid, tutte le famiglie erano strette in quel piccolo locale su quel piccolo lembo di terra. Il calore attraversava le pareti rendendo l’angusto bar una sauna, i pensieri degli isolani erano concentrati sulla propria sopravvivenza ma i miei genitori, quelli di Tony e di Sonia erano disperati per i loro figli dispersi ormai da parecchie ore.

Le nubi ardenti avvolsero Stromboli in un abbraccio mortale mentre i quattro sfortunati su Strombolicchio si precipitarono disperatamente alla vetta del vecchio faro, sperando di trovarvi rifugio dalla calamità incombente, ma una gigantesca onda anomala scatenatasi a causa delle violente scosse arrivava minacciosa inghiottendo le imbarcazioni attorno all’isola e le poche speranze di fuga dei naufraghi.

Avevamo appena raggiunto la cima del faro quando l’onda si infranse sui ripidi scogli dell’isolotto provocando un boato. La caverna venne sommersa dalla gelida acqua, vidi Giuseppe uscire dalla grotta e venire travolto dalla violenza del mare. Odiavo ormai quell’uomo ma alla vista di un tale abominio non potei non provare compassione.

Tornai ancora scosso nel faro e vidi Sonia disperata, seduta per terra in lacrime. Ero anche io molto provato ma nel vederla così mi feci forza e la strinsi nella presa salda e confortevole delle mie braccia. Sonia ancora singhiozzava quando mi strinse i capelli sulla nuca e mi avvicinò il viso fino a toccarmi le labbra;  sentivo il suo respiro sul mio collo quando le nostre bocche si congiunsero in un momento di passione in cui dimenticai tutto ciò che era successo.

Finalmente dopo tante vacanze passate sull’isola il mio sogno si era realizzato: Sonia era mia…”

 

Filippo, che stava sognando ad occhi aperti durante la terapia di gruppo, venne svegliato da Sonia, l’infermiera. Ci mise qualche secondo a riprendersi e a capire ciò che stava succedendo attorno a lui, gli altri pazienti lo guardavano in modo curioso. Non era mai successa una cosa simile durante la terapia. Molte volte alcuni pazienti avevano avuto degli attacchi di altro genere, fisico o mentale, ma attorno a Filippo si era creata un’atmosfera surreale. Da quando aveva iniziato la narrazione nessuno aveva più aperto bocca, tutti erano focalizzati sulla vicenda, che si rendeva ad ogni istante sempre più incalzante, mentre dottori e infermieri si domandavano come una mente umana potesse aver generato una storia di tale complessità e capirono che, anche se si trattava di un malato, Filippo era in grado di sviluppare racconti a partire semplicemente dall’amore che egli provava per Sonia.

La ragazza rimase commossa dalle parole di Filippo e, nonostante non si potesse instaurare più che una solida amicizia tra i due, capì che le persone che vivevano in quella struttura non erano solo emarginati sociali privi di senno, ma dentro di loro si celavano intense attività intellettuali, che spesso rimanevano all’interno della testa, e che anche loro provavano emozioni forti.

 

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Coordinatori del progetto

Prof.ssa Alessandra Belfiore

Prof.ssa Silvia Bertone

Prof. Santi Messina

Prof.ssa Martina Strati

Prof.ssa Agnese Perassi

Classi

 

1^ C LSU

1^ A CLASSICO

1^ S LISS

2^ S LISS

1^ E LINGUISTICO

1^ F LINGUISTICO

 

Progetto grafico

 

Prof. Andrea Sanfilippo

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