I promessi sposi

by Roberto Devoto

This free e-book was created with
Ourboox.com

Create your own amazing e-book!
It's simple and free.

Start now

I promessi sposi

  • Joined Jan 2023
  • Published Books 2

I promessi sposi

2

Capitolo I

 

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogior-
no, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e

a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli,
vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e
figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia
costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le
due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio

questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago ces-
sa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago

dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua di-
stendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La

costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti,
scende appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di
san Martino, l’altro, con voce lombarda, il Resegone, dai

molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somi-
gliare a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, pur-
ché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Mi-
lano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto,

a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, da-
gli altri monti di nome più oscuro e di forma più comu-
ne. Per un buon pezzo, la costa sale con un pendìo lento

e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte

e in ispianate, secondo l’ossatura de’ due monti, e il la-
voro dell’acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de’

torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi

e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qualche par-
te boschi, che si prolungano su per la montagna. Lecco,

la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio,

giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi vie-
ne in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo in-
grossa: un gran borgo al giorno d’oggi, e che s’incammi-
na a diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che

prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l’onore d’alloggiare
un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile

guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la mode-
stia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di

tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche pa-
dre; e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di span-
dersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ conta-
dini le fatiche della vendemmia. (…)

Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla
passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre
dell’anno 1628, don Abbondio, curato d’una delle terre
accennate di sopra: il nome di questa, né il casato del
personaggio, non si trovan nel manoscritto, né a questo
luogo né altrove. Diceva tranquillamente il suo ufizio, e

talvolta, tra un salmo e l’altro, chiudeva il breviario, te-
nendovi dentro, per segno, l’indice della mano destra, e,

messa poi questa nell’altra dietro la schiena, proseguiva
il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un
piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel
sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi
all’intorno, li fissava alla parte d’un monte, dove la luce
del sole già scomparso, scappando per i fessi del monte
opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come

a larghe e inuguali pezze di porpora. Aperto poi di nuo-
vo il breviario, e recitato un altro squarcio, giunse a una

voltata della stradetta, dov’era solito d’alzar sempre gli
occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche
quel giorno. Dopo la voltata, la strada correva diritta,
forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole,

a foggia d’un ipsilon: quella a destra saliva verso il mon-
te, e menava alla cura: l’altra scendeva nella valle fino a

un torrente; e da questa parte il muro non arrivava che

all’anche del passeggiero. I muri interni delle due viotto-
le, in vece di riunirsi ad angolo, terminavano in un ta-
bernacolo, sul quale eran dipinte certe figure lunghe,

serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell’intenzion

dell’artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, vole-
van dir fiamme; e, alternate con le fiamme, cert’altre fi-
gure da non potersi descrivere, che volevan dire anime

del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, sur
un fondo bigiognolo, con qualche scalcinatura qua e là.

Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com’era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non

s’aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uo-
mini stavano, l’uno dirimpetto all’altro, al confluente,

per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcio-
ni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di

fuori, e l’altro piede posato sul terreno della strada; il
compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia
incrociate sul petto. L’abito, il portamento, e quello che,
dal luogo ov’era giunto il curato, si poteva distinguer

dell’aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor con-
dizione. Avevano entrambi intorno al capo una reticella

verde, che cadeva sull’omero sinistro, terminata in una
gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme

ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cin-
tura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un

piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come

una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuo-
ri d’un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spado-
ne, con una gran guardia traforata a lamine d’ottone,

congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista

si davano a conoscere per individui della specie de’ bra-
vi. (…)

Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar
qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quel che più
dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per
certi atti, che l’aspettato era lui. Perché, al suo apparire,
coloro s’eran guardati in viso, alzando la testa, con un

movimento dal quale si scorgeva che tutt’e due a un trat-
to avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s’era

alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l’altro s’era
staccato dal muro; e tutt’e due gli s’avviavano incontro.
Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come

se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mos-
se di coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu

assalito a un tratto da mille pensieri. Domandò subito in
fretta a se stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche

uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subi-
to di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato contro

qualche potente, contro qualche vendicativo; ma, anche

in quel turbamento, il testimonio consolante della co-
scienza lo rassicurava alquanto: i bravi però s’avvicina-
vano, guardandolo fisso. Mise l’indice e il medio della

mano sinistra nel collare, come per raccomodarlo; e, gi-
rando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la fac-
cia all’indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando

con la coda dell’occhio, fin dove poteva, se qualcheduno
arrivasse; ma non vide nessuno. Diede un’occhiata, al di
sopra del muricciolo, ne’ campi: nessuno; un’altra più
modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorché i bravi.
Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a
gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio.

Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, per-
ché i momenti di quell’incertezza erano allora così peno-
si per lui, che non desiderava altro che d’abbreviarli. Af-
frettò il passo, recitò un versetto a voce più alta,

compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che poté,
fece ogni sforzo per preparare un sorriso; quando si

Letteratura italiana Einaudi 12

trovò a fronte dei due galantuomini, disse mentalmente:
ci siamo; e si fermò su due piedi.
– Signor curato, – disse un di que’ due, piantandogli
gli occhi in faccia.

– Cosa comanda? – rispose subito don Abbondio, al-
zando i suoi dal libro, che gli restò spalancato nelle ma-
ni, come sur un leggìo.

– Lei ha intenzione, – proseguì l’altro, con l’atto mi-
naccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore sull’in-
traprendere una ribalderia, – lei ha intenzione di maritar

domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!

– Cioè… – rispose, con voce tremolante, don Abbon-
dio: – cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno

benissimo come vanno queste faccende. Il povero cura-
to non c’entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi… e

poi, vengon da noi, come s’anderebbe a un banco a ri-
scotere; e noi… noi siamo i servitori del comune.

– Or bene, – gli disse il bravo, all’orecchio, ma in to-
no solenne di comando, – questo matrimonio non s’ha

da fare, né domani, né mai.
– Ma, signori miei, – replicò don Abbondio, con la

voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impa-
ziente, – ma, signori miei, si degnino di mettersi ne’ miei

panni. Se la cosa dipendesse da me,… vedon bene che a
me non me ne vien nulla in tasca…

– Orsù, – interruppe il bravo, – se la cosa avesse a de-
cidersi a ciarle, lei ci metterebbe in sacco. Noi non ne

sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo avvertito…
lei c’intende.

– Ma lor signori son troppo giusti, troppo ragionevo-
li…

– Ma, – interruppe questa volta l’altro compagnone,
che non aveva parlato fin allora, – ma il matrimonio non
si farà, o… – e qui una buona bestemmia, – o chi lo farà
non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e… –
un’altra bestemmia.

Alessandro Manzoni – I Promessi sposi

Letteratura italiana Einaudi 13

Alessandro Manzoni – I Promessi sposi

– Zitto, zitto, – riprese il primo oratore: – il signor cu-
rato è un uomo che sa il viver del mondo; e noi siam ga-
lantuomini, che non vogliam fargli del male, purché ab-
bia giudizio. Signor curato, l’illustrissimo signor don

Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente.

Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, co-
me, nel forte d’un temporale notturno, un lampo che il-
lumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e ac-
cresce il terrore. Fece, come per istinto, un

grand’inchino, e disse: – se mi sapessero suggerire…

– Oh! suggerire a lei che sa di latino! – interruppe an-
cora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. – A

lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su que-
sto avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti…

ehm… sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio.

Via, che vuol che si dica in suo nome all’illustrissimo si-
gnor don Rodrigo?

– Il mio rispetto…
– Si spieghi meglio!
-… Disposto… disposto sempre all’ubbidienza -. E,

proferendo queste parole, non sapeva nemmen lui se fa-
ceva una promessa, o un complimento. I bravi le prese-
ro, o mostraron di prenderle nel significato più serio.

– Benissimo, e buona notte, messere, – disse l’un d’es-
si, in atto di partir col compagno. Don Abbondio, che,

pochi momenti prima, avrebbe dato un occhio per

iscansarli, allora avrebbe voluto prolungar la conversa-
zione e le trattative. – Signori… – cominciò, chiudendo il

libro con le due mani; ma quelli, senza più dargli udien-
za, presero la strada dond’era lui venuto, e s’allontana-
rono, cantando una canzonaccia che non voglio trascri-
vere. Il povero don Abbondio rimase un momento a

bocca aperta, come incantato; poi prese quella delle due
stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a

stento una gamba dopo l’altra, che parevano aggran-
chiate. Come stesse di dentro, s’intenderà meglio, quando avrem detto qualche cosa del suo naturale, e de’ tem-
pi in cui gli era toccato di vivere. (…)

Giunto, tra il tumulto di questi pensieri, alla porta di ca-
sa sua, ch’era in fondo del paesello, mise in fretta nella

toppa la chiave, che già teneva in mano; aprì, entrò, ri-
chiuse diligentemente; e, ansioso di trovarsi in una com-
Letteratura italiana Einaudi 20

pagnia fidata, chiamò subito: – Perpetua! Perpetua! -,

avviandosi pure verso il salotto, dove questa doveva es-
ser certamente ad apparecchiar la tavola per la cena. Era

Perpetua, come ognun se n’avvede, la serva di don Ab-
bondio: serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e

comandare, secondo l’occasione, tollerare a tempo il

brontolìo e le fantasticaggini del padrone, e fargli a tem-
po tollerar le proprie, che divenivan di giorno in giorno

più frequenti, da che aveva passata l’età sinodale dei

quaranta, rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i par-
titi che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver

mai trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue
amiche.
– Vengo, – rispose, mettendo sul tavolino, al luogo
solito, il fiaschetto del vino prediletto di don Abbondio,

e si mosse lentamente; ma non aveva ancor toccata la so-
glia del salotto, ch’egli v’entrò, con un passo così legato,

con uno sguardo così adombrato, con un viso così stra-
volto, che non ci sarebbero nemmen bisognati gli occhi

esperti di Perpetua, per iscoprire a prima vista che gli
era accaduto qualche cosa di straordinario davvero.
– Misericordia! cos’ha, signor padrone?
– Niente, niente, – rispose don Abbondio, lasciandosi
andar tutto ansante sul suo seggiolone.
– Come, niente? La vuol dare ad intendere a me? così
brutto com’è? Qualche gran caso è avvenuto.
– Oh, per amor del cielo! Quando dico niente, o è
niente, o è cosa che non posso dire.

– Che non può dir neppure a me? Chi si prenderà cu-
ra della sua salute? Chi le darà un parere?…

– Ohimè! tacete, e non apparecchiate altro: datemi
un bicchiere del mio vino.
– E lei mi vorrà sostenere che non ha niente! – disse

Perpetua, empiendo il bicchiere, e tenendolo poi in ma-
no, come se non volesse darlo che in premio della confi-
denza che si faceva tanto aspettare.

– Date qui, date qui, – disse don Abbondio, prenden-
dole il bicchiere, con la mano non ben ferma, e votando-
lo poi in fretta, come se fosse una medicina.

– Vuol dunque ch’io sia costretta di domandar qua e
là cosa sia accaduto al mio padrone? – disse Perpetua,
ritta dinanzi a lui, con le mani arrovesciate sui fianchi, e
le gomita appuntate davanti, guardandolo fisso, quasi
volesse succhiargli dagli occhi il segreto.
– Per amor del cielo! non fate pettegolezzi, non fate
schiamazzi: ne va… ne va la vita!
– La vita!
– La vita.
– Lei sa bene che, ogni volta che m’ha detto qualche
cosa sinceramente, in confidenza, io non ho mai…
– Brava! come quando…
Perpetua s’avvide d’aver toccato un tasto falso; onde,
cambiando subito il tono, – signor padrone, – disse, con
voce commossa e da commovere, – io le sono sempre
stata affezionata; e, se ora voglio sapere, è per premura,
perché vorrei poterla soccorrere, darle un buon parere,
sollevarle l’animo…
Il fatto sta che don Abbondio aveva forse tanta voglia
di scaricarsi del suo doloroso segreto, quanta ne avesse

Perpetua di conoscerlo; onde, dopo aver respinti sem-
pre più debolmente i nuovi e più incalzanti assalti di lei,

dopo averle fatto più d’una volta giurare che non fiate-
rebbe, finalmente, con molte sospensioni, con molti

ohimè, le raccontò il miserabile caso. Quando si venne
al nome terribile del mandante, bisognò che Perpetua
proferisse un nuovo e più solenne giuramento; e don
Abbondio, pronunziato quel nome, si rovesciò sulla
spalliera della seggiola, con un gran sospiro, alzando le

mani, in atto insieme di comando e di supplica, e dicen-
do: – per amor del cielo!

– Delle sue! – esclamò Perpetua. – Oh che birbone!
oh che soverchiatore! oh che uomo senza timor di Dio!

Letteratura italiana Einaudi 22

– Volete tacere? o volete rovinarmi del tutto?
– Oh! siam qui soli che nessun ci sente. Ma come
farà, povero signor padrone?

– Oh vedete, – disse don Abbondio, con voce stizzo-
sa: – vedete che bei pareri mi sa dar costei! Viene a do-
mandarmi come farò, come farò; quasi fosse lei nell’im-
piccio, e toccasse a me di levarnela.

– Ma! io l’avrei bene il mio povero parere da darle;
ma poi…
– Ma poi, sentiamo.
– Il mio parere sarebbe che, siccome tutti dicono che

il nostro arcivescovo è un sant’uomo, e un uomo di pol-
so, e che non ha paura di nessuno, e, quando può fare

star a dovere un di questi prepotenti, per sostenere un
curato, ci gongola; io direi, e dico che lei gli scrivesse
una bella lettera, per informarlo come qualmente…
– Volete tacere? volete tacere? Son pareri codesti da
dare a un pover’uomo? Quando mi fosse toccata una
schioppettata nella schiena, Dio liberi! l’arcivescovo me
la leverebbe?
– Eh! le schioppettate non si dànno via come confetti:
e guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte

che abbaiano! E io ho sempre veduto che a chi sa mo-
strare i denti, e farsi stimare, gli si porta rispetto; e, ap-
punto perché lei non vuol mai dir la sua ragione, siam ri-
dotti a segno che tutti vengono, con licenza, a…

– Volete tacere?
– Io taccio subito; ma è però certo che, quando il
mondo s’accorge che uno, sempre, in ogni incontro, è
pronto a calar le…

– Volete tacere? È tempo ora di dir codeste baggiana-
te?

– Basta: ci penserà questa notte; ma intanto non co-
minci a farsi male da sé, a rovinarsi la salute; mangi un

boccone.

– Ci penserò io, – rispose, brontolando, don Abbondio: – sicuro; io ci penserò, io ci ho da pensare – E

s’alzò, continuando: – non voglio prender niente; nien-
te: ho altra voglia: lo so anch’io che tocca a pensarci a

me. Ma! la doveva accader per l’appunto a me.

– Mandi almen giù quest’altro gocciolo, – disse Per-
petua, mescendo. – Lei sa che questo le rimette sempre

lo stomaco.

– Eh! ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro. Così di-
cendo prese il lume, e, brontolando sempre: – una pic-
cola bagattella! a un galantuomo par mio! e domani

com’andrà? – e altre simili lamentazioni, s’avviò per sali-
re in camera. Giunto su la soglia, si voltò indietro verso

Perpetua, mise il dito sulla bocca, disse, con tono lento e
solenne : – per amor del cielo! -, e disparve.

3

Capitolo II

 

Lorenzo o, come dicevan tutti, Renzo

non si fece molto aspettare. Appena gli parve ora di po-
ter, senza indiscrezione, presentarsi al curato, v’andò,

con la lieta furia d’un uomo di vent’anni, che deve in

quel giorno sposare quella che ama. Era, fin dall’adole-
scenza, rimasto privo de’ parenti, ed esercitava la pro-
fessione di filatore di seta, ereditaria, per dir così, nella

sua famiglia; professione, negli anni indietro, assai lu-
crosa; allora già in decadenza, ma non però a segno che

un abile operaio non potesse cavarne di che vivere one-
stamente. Il lavoro andava di giorno in giorno sceman-
do; ma l’emigrazione continua de’ lavoranti, attirati ne-
gli stati vicini da promesse, da privilegi e da grosse

paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora a quelli che
rimanevano in paese. Oltre di questo, possedeva Renzo
un poderetto che faceva lavorare e lavorava egli stesso,
quando il filatoio stava fermo; di modo che, per la sua

condizione, poteva dirsi agiato. E quantunque quell’an-
nata fosse ancor più scarsa delle antecedenti, e già si co-
minciasse a provare una vera carestia, pure il nostro gio-
vine, che, da quando aveva messi gli occhi addosso a

Lucia, era divenuto massaio, si trovava provvisto bastan-
temente, e non aveva a contrastar con la fame. Compar-
Letteratura italiana Einaudi 26

ve davanti a don Abbondio, in gran gala, con penne di

vario colore al cappello, col suo pugnale del manico bel-
lo, nel taschino de’ calzoni, con una cert’aria di festa e

nello stesso tempo di braverìa, comune allora anche agli
uomini più quieti. L’accoglimento incerto e misterioso

di don Abbondio fece un contrapposto singolare ai mo-
di gioviali e risoluti del giovinotto.

«Che abbia qualche pensiero per la testa», argomentò
Renzo tra sé; poi disse: – son venuto, signor curato, per
sapere a che ora le comoda che ci troviamo in chiesa.
– Di che giorno volete parlare?
– Come, di che giorno? non si ricorda che s’è fissato
per oggi?
– Oggi? – replicò don Abbondio, come se ne sentisse

parlare per la prima volta. – Oggi, oggi… abbiate pazien-
za, ma oggi non posso.

– Oggi non può! Cos’è nato?
– Prima di tutto, non mi sento bene, vedete.
– Mi dispiace; ma quello che ha da fare è cosa di così
poco tempo, e di così poca fatica…
– E poi, e poi, e poi…
– E poi che cosa?
– E poi c’è degli imbrogli.
– Degl’imbrogli? Che imbrogli ci può essere?
– Bisognerebbe trovarsi nei nostri piedi, per conoscer
quanti impicci nascono in queste materie, quanti conti

s’ha da rendere. Io son troppo dolce di cuore, non pen-
so che a levar di mezzo gli ostacoli, a facilitar tutto, a far

le cose secondo il piacere altrui, e trascuro il mio dove-
re; e poi mi toccan de’ rimproveri, e peggio.

– Ma, col nome del cielo, non mi tenga così sulla cor-
da, e mi dica chiaro e netto cosa c’è.

– Sapete voi quante e quante formalità ci vogliono per
fare un matrimonio in regola?
– Bisogna ben ch’io ne sappia qualche cosa, – disse
Renzo, cominciando ad alterarsi, – poiché me ne ha già

Alessandro Manzoni – I Promessi sposi

Letteratura italiana Einaudi 27

Alessandro Manzoni – I Promessi sposi

rotta bastantemente la testa, questi giorni addietro. Ma
ora non s’è sbrigato ogni cosa? non s’è fatto tutto ciò
che s’aveva a fare?
– Tutto, tutto, pare a voi: perché, abbiate pazienza, la

bestia son io, che trascuro il mio dovere, per non far pe-
nare la gente. Ma ora… basta, so quel che dico. Noi po-
veri curati siamo tra l’ancudine e il martello: voi impa-
ziente; vi compatisco, povero giovane; e i superiori…

basta, non si può dir tutto. E noi siam quelli che ne an-
diam di mezzo.

– Ma mi spieghi una volta cos’è quest’altra formalità
che s’ha a fare, come dice; e sarà subito fatta.
– Sapete voi quanti siano gl’impedimenti dirimenti?
– Che vuol ch’io sappia d’impedimenti?
– Error, conditio, votum, cognatio, crimen,
Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas,
Si sis affinis,… – cominciava don Abbondio, contando
sulla punta delle dita.
– Si piglia gioco di me? – interruppe il giovine. – Che
vuol ch’io faccia del suo latinorum?
– Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e
rimettetevi a chi le sa.
– Orsù!…
– Via, caro Renzo, non andate in collera, che son
pronto a fare… tutto quello che dipende da me. Io, io
vorrei vedervi contento; vi voglio bene io. Eh!… quando

penso che stavate così bene; cosa vi mancava? V’è salta-
to il grillo di maritarvi…

– Che discorsi son questi, signor mio? – proruppe
Renzo, con un volto tra l’attonito e l’adirato.

– Dico per dire, abbiate pazienza, dico per dire. Vor-
rei vedervi contento.

– In somma…
– In somma, figliuol caro, io non ci ho colpa; la legge

non l’ho fatta io. E, prima di conchiudere un matrimo-
Letteratura italiana Einaudi 28

nio, noi siam proprio obbligati a far molte e molte ricer-
che, per assicurarci che non ci siano impedimenti.

– Ma via, mi dica una volta che impedimento è so-
pravvenuto?

– Abbiate pazienza, non son cose da potersi decifrare
così su due piedi. Non ci sarà niente, così spero; ma,
non ostante, queste ricerche noi le dobbiam fare. Il testo

è chiaro e lampante: antequam matrimonium denun-
ciet…

– Le ho detto che non voglio latino.
– Ma bisogna pur che vi spieghi…
– Ma non le ha già fatte queste ricerche?
– Non le ho fatte tutte, come avrei dovuto, vi dico.
– Perché non le ha fatte a tempo? perché dirmi che
tutto era finito? perché aspettare…

– Ecco! mi rimproverate la mia troppa bontà. Ho fa-
cilitato ogni cosa per servirvi più presto: ma… ma ora mi

son venute… basta, so io.
– E che vorrebbe ch’io facessi?

– Che aveste pazienza per qualche giorno. Figliuol ca-
ro, qualche giorno non è poi l’eternità: abbiate pazienza.

– Per quanto?
«Siamo a buon porto», pensò fra sé don Abbondio; e,
con un fare più manieroso che mai, – via, – disse: – in
quindici giorni cercherò,… procurerò…
– Quindici giorni! oh questa sì ch’è nuova! S’è fatto
tutto ciò che ha voluto lei; s’è fissato il giorno; il giorno

arriva; e ora lei mi viene a dire che aspetti quindici gior-
ni! Quindici… – riprese poi, con voce più alta e stizzosa,

stendendo il braccio, e battendo il pugno nell’aria; e chi
sa qual diavoleria avrebbe attaccata a quel numero, se
don Abbondio non l’avesse interrotto, prendendogli
l’altra mano, con un’amorevolezza timida e premurosa:

– via, via, non v’alterate, per amor del cielo. Vedrò, cer-
cherò se, in una settimana…

– E a Lucia che devo dire?
Alessandro Manzoni – I Promessi sposi

Letteratura italiana Einaudi 29

Alessandro Manzoni – I Promessi sposi
– Ch’è stato un mio sbaglio.
– E i discorsi del mondo?

– Dite pure a tutti, che ho sbagliato io, per troppa fu-
ria, per troppo buon cuore: gettate tutta la colpa addos-
so a me. Posso parlar meglio? via, per una settimana.

– E poi, non ci sarà più altri impedimenti?
– Quando vi dico…

– Ebbene: avrò pazienza per una settimana; ma riten-
ga bene che, passata questa, non m’appagherò più di

chiacchiere. Intanto la riverisco -. E così detto, se
n’andò, facendo a don Abbondio un inchino men

profondo del solito, e dandogli un’occhiata più espressi-
va che riverente.

Uscito poi, e camminando di mala voglia, per la pri-
ma volta, verso la casa della sua promessa, in mezzo alla

stizza, tornava con la mente su quel colloquio; e sempre
più lo trovava strano. L’accoglienza fredda e impicciata
di don Abbondio, quel suo parlare stentato insieme e
impaziente, que’ due occhi grigi che, mentre parlava,
eran sempre andati scappando qua e là, come se avesser
avuto paura d’incontrarsi con le parole che gli uscivan
di bocca, quel farsi quasi nuovo del matrimonio così
espressamente concertato, e sopra tutto quell’accennar
sempre qualche gran cosa, non dicendo mai nulla di
chiaro; tutte queste circostanze messe insieme facevan
pensare a Renzo che ci fosse sotto un mistero diverso da

quello che don Abbondio aveva voluto far credere. Stet-
te il giovine in forse un momento di tornare indietro,

per metterlo alle strette, e farlo parlar più chiaro; ma, al-
zando gli occhi, vide Perpetua che camminava dinanzi a

lui, ed entrava in un orticello pochi passi distante dalla

casa. Le diede una voce, mentre essa apriva l’uscio; stu-
diò il passo, la raggiunse, la ritenne sulla soglia, e, col di-
segno di scovar qualche cosa di più positivo, si fermò ad

attaccar discorso con essa.

– Buon giorno, Perpetua: io speravo che oggi si sareb-
be stati allegri insieme.

– Ma! quel che Dio vuole, il mio povero Renzo.
– Fatemi un piacere: quel benedett’uomo del signor

curato m’ha impastocchiate certe ragioni che non ho po-
tuto ben capire: spiegatemi voi meglio perché non può o

non vuole maritarci oggi.

– Oh! vi par egli ch’io sappia i segreti del mio padro-
ne?

«L’ho detto io, che c’era mistero sotto», pensò Renzo;
e, per tirarlo in luce, continuò: – via, Perpetua; siamo

amici; ditemi quel che sapete, aiutate un povero figliuo-
lo.

– Mala cosa nascer povero, il mio caro Renzo.
– È vero, – riprese questo, sempre più confermandosi

ne’ suoi sospetti; e, cercando d’accostarsi più alla que-
stione, – è vero, – soggiunse, – ma tocca ai preti a trattar

male co’ poveri?
– Sentite, Renzo; io non posso dir niente, perché…
non so niente; ma quello che vi posso assicurare è che il
mio padrone non vuol far torto, né a voi né a nessuno; e
lui non ci ha colpa.
– Chi è dunque che ci ha colpa? – domandò Renzo,
con un cert’atto trascurato, ma col cuor sospeso, e con
l’orecchio all’erta.
– Quando vi dico che non so niente… In difesa del
mio padrone, posso parlare; perché mi fa male sentire

che gli si dia carico di voler far dispiacere a qualchedu-
no. Pover’uomo! se pecca, è per troppa bontà. C’è bene

a questo mondo de’ birboni, de’ prepotenti, degli uomi-
ni senza timor di Dio…

«Prepotenti! birboni! – pensò Renzo: – questi non
sono i superiori». – Via, – disse poi, nascondendo a
stento l’agitazione crescente, – via, ditemi chi è.

– Ah! voi vorreste farmi parlare; e io non posso parla-
re, perché… non so niente: quando non so niente, è co
me se avessi giurato di tacere. Potreste darmi la corda,
che non mi cavereste nulla di bocca. Addio; è tempo
perduto per tutt’e due -. Così dicendo, entrò in fretta

nell’orto, e chiuse l’uscio. Renzo, rispostole con un salu-
to, tornò indietro pian piano, per non farla accorgere

del cammino che prendeva; ma, quando fu fuor del tiro
dell’orecchio della buona donna, allungò il passo; in un

momento fu all’uscio di don Abbondio; entrò, andò di-
viato al salotto dove l’aveva lasciato, ve lo trovò, e corse

verso lui, con un fare ardito, e con gli occhi stralunati.
– Eh! eh! che novità è questa? – disse don Abbondio.
– Chi è quel prepotente, – disse Renzo, con la voce
d’un uomo ch’è risoluto d’ottenere una risposta precisa,
– chi è quel prepotente che non vuol ch’io sposi Lucia?
– Che? che? che? – balbettò il povero sorpreso, con
un volto fatto in un istante bianco e floscio, come un
cencio che esca del bucato. E, pur brontolando, spiccò
un salto dal suo seggiolone, per lanciarsi all’uscio. Ma

Renzo, che doveva aspettarsi quella mossa, e stava all’er-
ta, vi balzò prima di lui, girò la chiave, e se la mise in ta-
sca.

– Ah! ah! parlerà ora, signor curato? Tutti sanno i
fatti miei, fuori di me. Voglio saperli, per bacco, anch’io.
Come si chiama colui?
– Renzo! Renzo! per carità, badate a quel che fate;
pensate all’anima vostra.
– Penso che lo voglio saper subito, sul momento -. E,
così dicendo, mise, forse senza avvedersene, la mano sul
manico del coltello che gli usciva dal taschino.

– Misericordia! – esclamò con voce fioca don Abbon-
dio.

– Lo voglio sapere.
– Chi v’ha detto…
– No, no; non più fandonie. Parli chiaro e subito.
– Mi volete morto?
– Voglio sapere ciò che ho ragion di sapere.

Letteratura italiana Einaudi 32

– Ma se parlo, son morto. Non m’ha da premere la
mia vita?
– Dunque parli. Quel «dunque» fu proferito con una
tale energia, l’aspetto di Renzo divenne così minaccioso,
che don Abbondio non poté più nemmen supporre la
possibilità di disubbidire.
– Mi promettete, mi giurate, – disse – di non parlarne
con nessuno, di non dir mai…?

– Le prometto che fo uno sproposito, se lei non mi di-
ce subito subito il nome di colui.

A quel nuovo scongiuro, don Abbondio, col volto, e

con lo sguardo di chi ha in bocca le tanaglie del cava-
denti, proferì: – don…

– Don? – ripeté Renzo, come per aiutare il paziente a
buttar fuori il resto; e stava curvo, con l’orecchio chino
sulla bocca di lui, con le braccia tese, e i pugni stretti
all’indietro.

– Don Rodrigo! – pronunziò in fretta il forzato, preci-
pitando quelle poche sillabe, e strisciando le consonanti,

parte per il turbamento, parte perché, rivolgendo pure
quella poca attenzione che gli rimaneva libera, a fare

una transazione tra le due paure, pareva che volesse sot-
trarre e fare scomparir la parola, nel punto stesso ch’era

costretto a metterla fuori.
– Ah cane! – urlò Renzo. – E come ha fatto? Cosa le
ha detto per…?

– Come eh? come? – rispose, con voce quasi sdegno-
sa, don Abbondio, il quale, dopo un così gran sagrifizio,

si sentiva in certo modo divenuto creditore. – Come eh?
Vorrei che la fosse toccata a voi, come è toccata a me,

che non c’entro per nulla; che certamente non vi sareb-
ber rimasti tanti grilli in capo -. E qui si fece a dipinger

con colori terribili il brutto incontro; e, nel discorrere,
accorgendosi sempre più d’una gran collera che aveva in
corpo, e che fin allora era stata nascosta e involta nella
paura, e vedendo nello stesso tempo che Renzo, tra la

Alessandro Manzoni – I Promessi sposi

Letteratura italiana Einaudi 33

Alessandro Manzoni – I Promessi sposi

rabbia e la confusione, stava immobile, col capo basso,
continuò allegramente: – avete fatta una bella azione!
M’avete reso un bel servizio! Un tiro di questa sorte a
un galantuomo, al vostro curato! in casa sua! in luogo
sacro! Avete fatta una bella prodezza! Per cavarmi di

bocca il mio malanno, il vostro malanno! ciò ch’io vi na-
scondevo per prudenza, per vostro bene! E ora che lo

sapete? Vorrei vedere che mi faceste…! Per amor del
cielo! Non si scherza. Non si tratta di torto o di ragione;
si tratta di forza. E quando, questa mattina, vi davo un
buon parere… eh! subito nelle furie. Io avevo giudizio
per me e per voi; ma come si fa? Aprite almeno; datemi
la mia chiave.

– Posso aver fallato, – rispose Renzo, con voce rad-
dolcita verso don Abbondio, ma nella quale si sentiva il

furore contro il nemico scoperto: – posso aver fallato;
ma si metta la mano al petto, e pensi se nel mio caso…
Così dicendo, s’era levata la chiave di tasca, e andava

ad aprire. Don Abbondio gli andò dietro, e, mentre que-
gli girava la chiave nella toppa, se gli accostò, e, con vol-
to serio e ansioso, alzandogli davanti agli occhi le tre pri-
me dita della destra, come per aiutarlo anche lui dal

canto suo, – giurate almeno… – gli disse.
– Posso aver fallato; e mi scusi, – rispose Renzo,
aprendo, e disponendosi ad uscire.
– Giurate… – replicò don Abbondio, afferrandogli il
braccio con la mano tremante.
– Posso aver fallato, – ripeté Renzo, sprigionandosi
da lui; e partì in furia, troncando così la questione, che,

al pari d’una questione di letteratura o di filosofia o d’al-
tro, avrebbe potuto durar dei secoli, giacché ognuna

delle parti non faceva che replicare il suo proprio argo-
mento.

– Perpetua! Perpetua! – gridò don Abbondio, dopo

avere invano richiamato il fuggitivo. Perpetua non risponde: don Abbondio non sapeva più in che mondo si
fosse. (…)

Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle ma-
ni della madre. Le amiche si rubavano la sposa, e le face-
van forza perché si lasciasse vedere; e lei s’andava scher-
mendo, con quella modestia un po’ guerriera delle

contadine, facendosi scudo alla faccia col gomito, chi-
nandola sul busto, e aggrottando i lunghi e neri soprac-
cigli, mentre però la bocca s’apriva al sorriso. I neri e

giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca

e sottile dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cer-
chi moltiplici di trecce, trapassate da lunghi spilli d’ar-
gento, che si dividevano all’intorno, quasi a guisa de’

raggi d’un’aureola, come ancora usano le contadine nel

Milanese. Intorno al collo aveva un vezzo di granati al-
ternati con bottoni d’oro a filigrana: portava un bel bu-
sto di broccato a fiori, con le maniche separate e allac-
ciate da bei nastri: una corta gonnella di filaticcio di

seta, a pieghe fitte e minute, due calze vermiglie, due
pianelle, di seta anch’esse, a ricami. Oltre a questo,
ch’era l’ornamento particolare del giorno delle nozze,
Lucia aveva quello quotidiano d’una modesta bellezza,
rilevata allora e accresciuta dalle varie affezioni che le si

dipingevan sul viso: una gioia temperata da un turba-
mento leggiero, quel placido accoramento che si mostra

di quand’in quando sul volto delle spose, e, senza scom-
por la bellezza, le dà un carattere particolare. La piccola

Bettina si cacciò nel crocchio, s’accostò a Lucia, le fece

intendere accortamente che aveva qualcosa da comuni-
carle, e le disse la sua parolina all’orecchio.

– Vo un momento, e torno, – disse Lucia alle donne; e
scese in fretta. Al veder la faccia mutata, e il portamento

inquieto di Renzo, – cosa c’è? – disse, non senza un pre-
sentimento di terrore.

– Lucia! – rispose Renzo, – per oggi, tutto è a monte;
e Dio sa quando potremo esser marito e moglie.
– Che? – disse Lucia tutta smarrita. Renzo le raccontò
brevemente la storia di quella mattina: ella ascoltava con
angoscia: e quando udì il nome di don Rodrigo, – ah! –
esclamò, arrossendo e tremando, – fino a questo segno!
– Dunque voi sapevate…? – disse Renzo.
– Pur troppo! – rispose Lucia; – ma a questo segno!
– Che cosa sapevate?

– Non mi fate ora parlare, non mi fate piangere. Cor-
ro a chiamar mia madre, e a licenziar le donne: bisogna

che siam soli.
Mentre ella partiva, Renzo sussurrò: – non m’avete
mai detto niente.

– Ah, Renzo! – rispose Lucia, rivolgendosi un mo-
mento, senza fermarsi. Renzo intese benissimo che il suo nome pronunziato in quel momento, con quel tono, da

Lucia, voleva dire: potete voi dubitare ch’io abbia taciu-
to se non per motivi giusti e puri?

Intanto la buona Agnese (così si chiamava la madre di
Lucia), messa in sospetto e in curiosità dalla parolina

all’orecchio, e dallo sparir della figlia, era discesa a ve-
der cosa c’era di nuovo. La figlia la lasciò con Renzo,

tornò alle donne radunate, e, accomodando l’aspetto e

la voce, come poté meglio, disse: – il signor curato è am-
malato; e oggi non si fa nulla -. Ciò detto, le salutò tutte

in fretta, e scese di nuovo.

Le donne sfilarono, e si sparsero a raccontar l’accadu-
to. Due o tre andaron fin all’uscio del curato, per verifi-
car se era ammalato davvero.

– Un febbrone, – rispose Perpetua dalla finestra; e la
trista parola, riportata all’altre, troncò le congetture che

già cominciavano a brulicar ne’ loro cervelli, e ad an-
nunziarsi tronche e misteriose ne’ loro discorsi.

4

Capitolo III

 

– Sentite, figliuoli; date retta a me, – disse, dopo qual-
che momento, Agnese. – Io son venuta al mondo prima

di voi; e il mondo lo conosco un poco. Non bisogna poi

spaventarsi tanto: il diavolo non è brutto quanto si di-
pinge. A noi poverelli le matasse paion più imbrogliate,

perché non sappiam trovarne il bandolo; ma alle volte
un parere, una parolina d’un uomo che abbia studiato…
so ben io quel che voglio dire. Fate a mio modo, Renzo;
andate a Lecco; cercate del dottor Azzecca-garbugli,
raccontategli… Ma non lo chiamate così, per amor del
cielo: è un soprannome. Bisogna dire il signor dottor…

Come si chiama, ora? Oh to’! non lo so il nome vero: lo

chiaman tutti a quel modo. Basta, cercate di quel dotto-
re alto, asciutto, pelato, col naso rosso, e una voglia di

lampone sulla guancia.
– Lo conosco di vista, – disse Renzo.

– Bene, – continuò Agnese: – quello è una cima d’uo-
mo! Ho visto io più d’uno ch’era più impicciato che un

pulcin nella stoppa, e non sapeva dove batter la testa, e,

dopo essere stato un’ora a quattr’occhi col dottor Az-
zecca-garbugli (badate bene di non chiamarlo così!),

l’ho visto, dico, ridersene. Pigliate quei quattro capponi,
poveretti! a cui dovevo tirare il collo, per il banchetto di
domenica, e portateglieli; perché non bisogna mai andar
con le mani vote da que’ signori. Raccontategli tutto
l’accaduto; e vedrete che vi dirà, su due piedi, di quelle

cose che a noi non verrebbero in testa, a pensarci un an-
no.

Renzo abbracciò molto volentieri questo parere; Lu-
cia l’approvò; e Agnese, superba d’averlo dato, levò, a

una a una, le povere bestie dalla stìa, riunì le loro otto
gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e
le strinse con uno spago, e le consegnò in mano a Renzo;
il quale, date e ricevute parole di speranza, uscì dalla
parte dell’orto, per non esser veduto da’ ragazzi, che gli
correrebber dietro, gridando: lo sposo! lo sposo! Così,
attraversando i campi o, come dicon colà, i luoghi, se

n’andò per viottole, fremendo, ripensando alla sua di-
sgrazia, e ruminando il discorso da fare al dottor Azzec-
ca-garbugli. Lascio poi pensare al lettore, come dovesse-
ro stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e

tenute per le zampe, a capo all’in giù, nella mano d’un
uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava
col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la
mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l’alzava

per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per mi-
naccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intan-
to s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come acca-
de troppo sovente tra compagni di sventura.

Giunto al borgo, domandò dell’abitazione del dotto-
re; gli fu indicata, e v’andò. All’entrare, si sentì preso da

quella suggezione che i poverelli illetterati provano in vi-
cinanza d’un signore e d’un dotto, e dimenticò tutti i di-
scorsi che aveva preparati; ma diede un’occhiata ai cap-
poni, e si rincorò. Entrato in cucina, domandò alla serva

se si poteva parlare al signor dottore. Adocchiò essa le
bestie, e, come avvezza a somiglianti doni, mise loro le

mani addosso, quantunque Renzo andasse tirando in-
dietro, perché voleva che il dottore vedesse e sapesse

ch’egli portava qualche cosa. Capitò appunto mentre la
donna diceva: – date qui, e andate innanzi -. Renzo fece
un grande inchino: il dottore l’accolse umanamente, con

un – venite, figliuolo, – e lo fece entrar con sé nello stu-
dio. Era questo uno stanzone, su tre pareti del quale

eran distribuiti i ritratti de’ dodici Cesari; la quarta, co-
perta da un grande scaffale di libri vecchi e polverosi:

nel mezzo, una tavola gremita d’allegazioni, di suppli-
che, di libelli, di gride, con tre o quattro seggiole all’in-
torno, e da una parte un seggiolone a braccioli, con una

spalliera alta e quadrata, terminata agli angoli da due or-
namenti di legno, che s’alzavano a foggia di corna, co-
perta di vacchetta, con grosse borchie, alcune delle qua-
li, cadute da gran tempo, lasciavano in libertà gli angoli

della copertura, che s’accartocciava qua e là. Il dottore
era in veste da camera, cioè coperto d’una toga ormai
consunta, che gli aveva servito, molt’anni addietro, per

perorare, ne’ giorni d’apparato, quando andava a Mila-
no, per qualche causa d’importanza. Chiuse l’uscio, e fe-
ce animo al giovine, con queste parole: – figliuolo, dite-
mi il vostro caso.

– Vorrei dirle una parola in confidenza.

– Son qui, – rispose il dottore: – parlate -. E s’accomodò sul seggiolone. Renzo, ritto davanti alla tavola,

con una mano nel cocuzzolo del cappello, che faceva gi-
rar con l’altra, ricominciò: – vorrei sapere da lei che ha

studiato…
– Ditemi il fatto come sta, – interruppe il dottore.
– Lei m’ha da scusare: noi altri poveri non sappiamo
parlar bene. Vorrei dunque sapere…

– Benedetta gente! siete tutti così: in vece di raccon-
tar il fatto, volete interrogare, perché avete già i vostri

disegni in testa.

– Mi scusi, signor dottore. Vorrei sapere se, a minac-
ciare un curato, perché non faccia un matrimonio, c’è

penale.
«Ho capito», disse tra sé il dottore, che in verità non
aveva capito. «Ho capito». E subito si fece serio, ma
d’una serietà mista di compassione e di premura; strinse

fortemente le labbra, facendone uscire un suono inarti-
colato che accennava un sentimento, espresso poi più

chiaramente nelle sue prime parole. – Caso serio, fi-
gliuolo; caso contemplato. Avete fatto bene a venir da

me. È un caso chiaro, contemplato in cento gride, e…

appunto, in una dell’anno scorso, dell’attuale signor go-
vernatore. Ora vi fo vedere, e toccar con mano.

Così dicendo, s’alzò dal suo seggiolone, e cacciò le
mani in quel caos di carte, rimescolandole dal sotto in
su, come se mettesse grano in uno staio. (…)

Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole,
Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica,

come un materialone sta sulla piazza guardando al gio-
cator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca

stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e na-
stro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene

cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse pre-
so, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor

dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio.
Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose,

Alessandro Manzoni – I Promessi sposi

Letteratura italiana Einaudi 49

Alessandro Manzoni – I Promessi sposi

io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà

che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bric-
coneria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere co-
me ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento

d’aver visto quella grida.

– Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli oc-
chi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possi-
bile che non sappiate dirle chiare le cose?

– Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le rac-
conterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo

sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, –
dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo,

fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno sta-
bilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco

che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse…
basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro,
com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato
proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel
prepotente di don Rodrigo…
– Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando
le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca,
– eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste

fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sa-
pete misurar le parole; e non venite a farli con un galan-
tuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sa-
pete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non

voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.
– Le giuro…
– Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri
giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le

andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Im-
parate a parlare: non si viene a sorprender così un galan-
tuomo.

– Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il
dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso

l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che
ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.
Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era
stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era
stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a
ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a
Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che
pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella.

Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugna-
bile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, do-
vette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a

raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizio-
ne.

 

5

Capitolo IV

 

Il padre Cristoforo non era sempre stato così, né sem-
pre era stato Cristoforo: il suo nome di battesimo era

Lodovico. Era figliuolo d’un mercante di *** (questi

asterischi vengon tutti dalla circospezione del mio ano-
nimo) che, ne’ suoi ultim’anni, trovandosi assai fornito

Letteratura italiana Einaudi 58

di beni, e con quell’unico figliuolo, aveva rinunziato al
traffico, e s’era dato a viver da signore.
Nel suo nuovo ozio, cominciò a entrargli in corpo una
gran vergogna di tutto quel tempo che aveva speso a far

qualcosa in questo mondo. Predominato da una tal fan-
tasia, studiava tutte le maniere di far dimenticare ch’era

stato mercante: avrebbe voluto poterlo dimenticare an-
che lui. Ma il fondaco, le balle, il libro, il braccio, gli

comparivan sempre nella memoria, come l’ombra di
Banco a Macbeth, anche tra la pompa delle mense, e il
sorriso de’ parassiti. E non si potrebbe dire la cura che
dovevano aver que’ poveretti, per schivare ogni parola

che potesse parere allusiva all’antica condizione del con-
vitante. Un giorno, per raccontarne una, un giorno, sul

finir della tavola, ne’ momenti della più viva e schietta
allegria, che non si sarebbe potuto dire chi più godesse,

o la brigata di sparecchiare, o il padrone d’aver apparec-
chiato, andava stuzzicando, con superiorità amichevole,

uno di que’ commensali, il più onesto mangiatore del
mondo. Questo, per corrispondere alla celia, senza la
minima ombra di malizia, proprio col candore d’un
bambino, rispose: – eh! io fo l’orecchio del mercante -.
Egli stesso fu subito colpito dal suono della parola che
gli era uscita di bocca: guardò, con faccia incerta, alla
faccia del padrone, che s’era rannuvolata: l’uno e l’altro
avrebber voluto riprender quella di prima; ma non era
possibile. Gli altri convitati pensavano, ognun da sé, al

modo di sopire il piccolo scandolo, e di fare una diver-
sione; ma, pensando, tacevano, e, in quel silenzio, lo

scandolo era più manifesto. Ognuno scansava d’incon-
trar gli occhi degli altri; ognuno sentiva che tutti eran

occupati del pensiero che tutti volevan dissimulare. La
gioia, per quel giorno, se n’andò; e l’imprudente o, per
parlar con più giustizia, lo sfortunato, non ricevette più

invito. Così il padre di Lodovico passò gli ultimi suoi an-
ni in angustie continue, temendo sempre d’essere scher-
Alessandro Manzoni – I Promessi sposi

Letteratura italiana Einaudi 59

Alessandro Manzoni – I Promessi sposi

nito, e non riflettendo mai che il vendere non è cosa più
ridicola che il comprare, e che quella professione di cui

allora si vergognava, l’aveva pure esercitata per tant’an-
ni, in presenza del pubblico, e senza rimorso. Fece edu-
care il figlio nobilmente, secondo la condizione de’ tem-
pi, e per quanto gli era concesso dalle leggi e dalle

consuetudini; gli diede maestri di lettere e d’esercizi ca-
vallereschi; e morì, lasciandolo ricco e giovinetto.

Lodovico aveva contratte abitudini signorili; e gli
adulatori, tra i quali era cresciuto, l’avevano avvezzato
ad esser trattato con molto rispetto. Ma, quando volle
mischiarsi coi principali della sua città, trovò un fare
ben diverso da quello a cui era accostumato; e vide che,

a voler esser della lor compagnia, come avrebbe deside-
rato, gli conveniva fare una nuova scuola di pazienza e

di sommissione, star sempre al di sotto, e ingozzarne

una, ogni momento. Una tal maniera di vivere non s’ac-
cordava, né con l’educazione, né con la natura di Lodo-
vico. S’allontanò da essi indispettito. Ma poi ne stava

lontano con rammarico; perché gli pareva che questi ve-
ramente avrebber dovuto essere i suoi compagni; soltan-
to gli avrebbe voluti più trattabili. Con questo misto

d’inclinazione e di rancore, non potendo frequentarli fa-
migliarmente, e volendo pure aver che far con loro in

qualche modo, s’era dato a competer con loro di sfoggi

e di magnificenza, comprandosi così a contanti inimici-
zie, invidie e ridicolo. La sua indole, onesta insieme e

violenta, l’aveva poi imbarcato per tempo in altre gare
più serie. Sentiva un orrore spontaneo e sincero per
l’angherie e per i soprusi: orrore reso ancor più vivo in
lui dalla qualità delle persone che più ne commettevano
alla giornata; ch’erano appunto coloro coi quali aveva
più di quella ruggine. Per acquietare, o per esercitare
tutte queste passioni in una volta, prendeva volentieri le
parti d’un debole sopraffatto, si piccava di farci stare un
soverchiatore, s’intrometteva in una briga, se ne tirava

Letteratura italiana Einaudi 60

addosso un’altra; tanto che, a poco a poco, venne a co-
stituirsi come un protettor degli oppressi, e un vendica-
tore de’ torti. L’impiego era gravoso; e non è da doman-
dare se il povero Lodovico avesse nemici, impegni e

pensieri. Oltre la guerra esterna, era poi tribolato conti-
nuamente da contrasti interni; perché, a spuntarla in un

impegno (senza parlare di quelli in cui restava al di sot-
to), doveva anche lui adoperar raggiri e violenze, che la

sua coscienza non poteva poi approvare. Doveva tenersi
intorno un buon numero di bravacci; e, così per la sua

sicurezza, come per averne un aiuto più vigoroso, dove-
va scegliere i più arrischiati, cioè i più ribaldi; e vivere

co’ birboni, per amor della giustizia. Tanto che, più

d’una volta, o scoraggito, dopo una trista riuscita, o in-
quieto per un pericolo imminente, annoiato del conti-
nuo guardarsi, stomacato della sua compagnia, in pen-
siero dell’avvenire, per le sue sostanze che se n’andavan,

di giorno in giorno, in opere buone e in braverie, più
d’una volta gli era saltata la fantasia di farsi frate; che, a

que’ tempi, era il ripiego più comune, per uscir d’impic-
ci. Ma questa, che sarebbe forse stata una fantasia per

tutta la sua vita, divenne una risoluzione, a causa d’un
accidente, il più serio che gli fosse ancor capitato.

Andava un giorno per una strada della sua città, se-
guito da due bravi, e accompagnato da un tal Cristofo-
ro, altre volte giovine di bottega e, dopo chiusa questa,

diventato maestro di casa. Era un uomo di circa cin-
quant’anni, affezionato, dalla gioventù, a Lodovico, che

aveva veduto nascere, e che, tra salario e regali, gli dava
non solo da vivere, ma di che mantenere e tirar su una
numerosa famiglia. Vide Lodovico spuntar da lontano
un signor tale, arrogante e soverchiatore di professione,
col quale non aveva mai parlato in vita sua, ma che gli
era cordiale nemico, e al quale rendeva, pur di cuore, il
contraccambio: giacché è uno de’ vantaggi di questo

mondo, quello di poter odiare ed esser odiati, senza co-
Alessandro Manzoni – I Promessi sposi

Letteratura italiana Einaudi 61

Alessandro Manzoni – I Promessi sposi

noscersi. Costui, seguito da quattro bravi, s’avanzava di-
ritto, con passo superbo, con la testa alta, con la bocca

composta all’alterigia e allo sprezzo. Tutt’e due cammi-
navan rasente al muro; ma Lodovico (notate bene) lo

strisciava col lato destro; e ciò, secondo una consuetudi-
ne, gli dava il diritto (dove mai si va a ficcare il diritto!)

di non istaccarsi dal detto muro, per dar passo a chi si
fosse; cosa della quale allora si faceva gran caso. L’altro
pretendeva, all’opposto, che quel diritto competesse a
lui, come a nobile, e che a Lodovico toccasse d’andar

nel mezzo; e ciò in forza d’un’altra consuetudine. Peroc-
ché, in questo, come accade in molti altri affari, erano in

vigore due consuetudini contrarie, senza che fosse deci-
so qual delle due fosse la buona; il che dava opportunità

di fare una guerra, ogni volta che una testa dura s’abbat-
tesse in un’altra della stessa tempra. Que’ due si veniva-
no incontro, ristretti alla muraglia, come due figure di

basso rilievo ambulanti. Quando si trovarono a viso a vi-
so, il signor tale, squadrando Lodovico, a capo alto, col

cipiglio imperioso, gli disse, in un tono corrispondente
di voce: – fate luogo.
– Fate luogo voi, – rispose Lodovico. – La diritta è
mia.
– Co’ vostri pari, è sempre mia.

– Sì, se l’arroganza de’ vostri pari fosse legge per i pa-
ri miei. I bravi dell’uno e dell’altro eran rimasti fermi,

ciascuno dietro il suo padrone, guardandosi in cagne-
sco, con le mani alle daghe, preparati alla battaglia. La

gente che arrivava di qua e di là, si teneva in distanza, a

osservare il fatto; e la presenza di quegli spettatori ani-
mava sempre più il puntiglio de’ contendenti.

– Nel mezzo, vile meccanico; o ch’io t’insegno una
volta come si tratta co’ gentiluomini.
– Voi mentite ch’io sia vile.
– Tu menti ch’io abbia mentito -. Questa risposta era
di prammatica. – E, se tu fossi cavaliere, come son io, –

Letteratura italiana Einaudi 62

aggiunse quel signore, – ti vorrei far vedere, con la spa-
da e con la cappa, che il mentitore sei tu.

– E un buon pretesto per dispensarvi di sostener co’
fatti l’insolenza delle vostre parole.

– Gettate nel fango questo ribaldo, – disse il gentiluo-
mo, voltandosi a’ suoi.

– Vediamo! – disse Lodovico, dando subitamente un
passo indietro, e mettendo mano alla spada.
– Temerario! – gridò l’altro, sfoderando la sua: – io

spezzerò questa, quando sarà macchiata del tuo vil san-
gue.

Così s’avventarono l’uno all’altro; i servitori delle due

parti si slanciarono alla difesa de’ loro padroni. Il com-
battimento era disuguale, e per il numero, e anche per-
ché Lodovico mirava piùttosto a scansare i colpi, e a di-
sarmare il nemico, che ad ucciderlo; ma questo voleva la

morte di lui, a ogni costo. Lodovico aveva già ricevuta al

braccio sinistro una pugnalata d’un bravo, e una sgraf-
fiatura leggiera in una guancia, e il nemico principale gli

piombava addosso per finirlo; quando Cristoforo, ve-
dendo il suo padrone nell’estremo pericolo, andò col

pugnale addosso al signore. Questo, rivolta tutta la sua
ira contro di lui, lo passò con la spada. A quella vista,
Lodovico, come fuor di sé, cacciò la sua nel ventre del
feritore, il quale cadde moribondo, quasi a un punto col
povero Cristoforo. I bravi del gentiluomo, visto ch’era
finita, si diedero alla fuga, malconci: quelli di Lodovico,
tartassati e sfregiati anche loro, non essendovi più a chi
dare, e non volendo trovarsi impicciati nella gente, che
già accorreva, scantonarono dall’altra parte: e Lodovico
si trovò solo, con que’ due funesti compagni ai piedi, in
mezzo a una folla.
– Com’è andata? – È uno. – Son due. – Gli ha fatto
un occhiello nel ventre. – Chi è stato ammazzato? –
Quel prepotente. – Oh santa Maria, che sconquasso! –
Chi cerca trova. – Una le paga tutte. – Ha finito anche

Alessandro Manzoni – I Promessi sposi

Letteratura italiana Einaudi 63

Alessandro Manzoni – I Promessi sposi

lui. – Che colpo! – Vuol essere una faccenda seria. – E
quell’altro disgraziato! – Misericordia! che spettacolo! –
Salvatelo, salvatelo. – Sta fresco anche lui. – Vedete
com’è concio! butta sangue da tutte le parti. – Scappi,
scappi. Non si lasci prendere.
Queste parole, che più di tutte si facevan sentire nel

frastono confuso di quella folla, esprimevano il voto co-
mune; e, col consiglio, venne anche l’aiuto. Il fatto era

accaduto vicino a una chiesa di cappuccini, asilo, come
ognun sa, impenetrabile allora a’ birri, e a tutto quel

complesso di cose e di persone, che si chiamava la giu-
stizia. L’uccisore ferito fu quivi condotto o portato dalla

folla, quasi fuor di sentimento; e i frati lo ricevettero dal-
le mani del popolo, che glielo raccomandava, dicendo: –

è un uomo dabbene che ha freddato un birbone super-
bo: l’ha fatto per sua difesa: c’è stato tirato per i capelli.

6

Capitolo VI

 

– In che posso ubbidirla? – disse don Rodrigo, pian-
tandosi in piedi nel mezzo della sala. Il suono delle pa-
role era tale; ma il modo con cui eran proferite, voleva

dir chiaramente: bada a chi sei davanti, pesa le parole, e
sbrigati.
Per dar coraggio al nostro fra Cristoforo, non c’era

mezzo più sicuro e più spedito, che prenderlo con ma-
niera arrogante. Egli che stava sospeso, cercando le pa-
role, e facendo scorrere tra le dita le ave marie della co-
rona che teneva a cintola, come se in qualcheduna di

quelle sperasse di trovare il suo esordio; a quel fare di
don Rodrigo, si sentì subito venir sulle labbra più parole
del bisogno. Ma pensando quanto importasse di non
guastare i fatti suoi o, ciò ch’era assai più, i fatti altrui,
corresse e temperò le frasi che gli si eran presentate alla

mente, e disse, con guardinga umiltà: – vengo a propor-
le un atto di giustizia, a pregarla d’una carità. Cert’uo-
mini di mal affare hanno messo innanzi il nome di vossi-
gnoria illustrissima, per far paura a un povero curato, e

impedirgli di compire il suo dovere, e per soverchiare

due innocenti. Lei può, con una parola, confonder colo-
ro, restituire al diritto la sua forza, e sollevar quelli a cui

è fatta una così crudel violenza. Lo può; e potendolo…
la coscienza, l’onore…
– Lei mi parlerà della mia coscienza, quando verrò a
confessarmi da lei. In quanto al mio onore, ha da sapere

che il custode ne son io, e io solo; e che chiunque ardi-
sce entrare a parte con me di questa cura, lo riguardo

come il temerario che l’offende.

Fra Cristoforo, avvertito da queste parole che quel si-
gnore cercava di tirare al peggio le sue, per volgere il di-
scorso in contesa, e non dargli luogo di venire alle stret-
te, s’impegnò tanto più alla sofferenza, risolvette di

Alessandro Manzoni – I Promessi sposi

Letteratura italiana Einaudi 91

Alessandro Manzoni – I Promessi sposi

mandar giù qualunque cosa piacesse all’altro di dire, e

rispose subito, con un tono sommesso: – se ho detto co-
sa che le dispiaccia, è stato certamente contro la mia in-
tenzione. Mi corregga pure, mi riprenda, se non so par-
lare come si conviene; ma si degni ascoltarmi. Per amor

del cielo, per quel Dio, al cui cospetto dobbiam tutti
comparire… – e, così dicendo, aveva preso tra le dita, e
metteva davanti agli occhi del suo accigliato ascoltatore
il teschietto di legno attaccato alla sua corona, – non
s’ostini a negare una giustizia così facile, e così dovuta a
de’ poverelli. Pensi che Dio ha sempre gli occhi sopra di

loro, e che le loro grida, i loro gemiti sono ascoltati las-
sù. L’innocenza è potente al suo…

– Eh, padre! – interruppe bruscamente don Rodrigo:
– il rispetto ch’io porto al suo abito è grande: ma se

qualche cosa potesse farmelo dimenticare, sarebbe il ve-
derlo indosso a uno che ardisse di venire a farmi la spia

in casa.
Questa parola fece venir le fiamme sul viso del frate:

il quale però, col sembiante di chi inghiottisce una me-
dicina molto amara, riprese: – lei non crede che un tal ti-
tolo mi si convenga. Lei sente in cuor suo, che il passo

ch’io fo ora qui, non è né vile né spregevole. M’ascolti,
signor don Rodrigo; e voglia il cielo che non venga un

giorno in cui si penta di non avermi ascoltato. Non vo-
glia metter la sua gloria… qual gloria, signor don Rodri-
go! qual gloria dinanzi agli uomini! E dinanzi a Dio! Lei

può molto quaggiù; ma…
– Sa lei, – disse don Rodrigo, interrompendo, con
istizza, ma non senza qualche raccapriccio, – sa lei che,
quando mi viene lo schiribizzo di sentire una predica, so
benissimo andare in chiesa, come fanno gli altri? Ma in
casa mia! Oh! – e continuò, con un sorriso forzato di

scherno: – lei mi tratta da più di quel che sono. Il predi-
catore in casa! Non l’hanno che i principi.

– E quel Dio che chiede conto ai principi della parola

Letteratura italiana Einaudi 92

che fa loro sentire, nelle loro regge; quel Dio le usa ora
un tratto di misericordia, mandando un suo ministro,
indegno e miserabile, ma un suo ministro, a pregar per
una innocente…
– In somma, padre, – disse don Rodrigo, facendo atto

d’andarsene, – io non so quel che lei voglia dire: non ca-
pisco altro se non che ci dev’essere qualche fanciulla che

le preme molto. Vada a far le sue confidenze a chi le pia-
ce; e non si prenda la libertà d’infastidir più a lungo un

gentiluomo.
Al moversi di don Rodrigo, il nostro frate gli s’era
messo davanti, ma con gran rispetto; e, alzate le mani,

come per supplicare e per trattenerlo ad un punto, ri-
spose ancora: – la mi preme, è vero, ma non più di lei;

son due anime che, l’una e l’altra, mi premon più del
mio sangue. Don Rodrigo! io non posso far altro per lei,
che pregar Dio; ma lo farò ben di cuore. Non mi dica di

no: non voglia tener nell’angoscia e nel terrore una po-
vera innocente. Una parola di lei può far tutto.

– Ebbene, – disse don Rodrigo, – giacché lei crede
ch’io possa far molto per questa persona; giacché questa
persona le sta tanto a cuore…
– Ebbene? – riprese ansiosamente il padre Cristoforo,

al quale l’atto e il contegno di don Rodrigo non permet-
tevano d’abbandonarsi alla speranza che parevano an-
nunziare quelle parole.

– Ebbene, la consigli di venire a mettersi sotto la mia
protezione. Non le mancherà più nulla, e nessuno ardirà
d’inquietarla, o ch’io non son cavaliere.
A siffatta proposta, l’indegnazione del frate, rattenuta

a stento fin allora, traboccò. Tutti que’ bei proponimen-
ti di prudenza e di pazienza andarono in fumo: l’uomo

vecchio si trovò d’accordo col nuovo; e, in que’ casi, fra
Cristoforo valeva veramente per due.
– La vostra protezione! – esclamò, dando indietro

due passi, postandosi fieramente sul piede destro, met-
Alessandro Manzoni – I Promessi sposi

Letteratura italiana Einaudi 93

Alessandro Manzoni – I Promessi sposi

tendo la destra sull’anca, alzando la sinistra con l’indice

teso verso don Rodrigo, e piantandogli in faccia due oc-
chi infiammati: – la vostra protezione! È meglio che ab-
biate parlato così, che abbiate fatta a me una tale propo-
sta. Avete colmata la misura; e non vi temo più.

– Come parli, frate?…
– Parlo come si parla a chi è abbandonato da Dio, e

non può più far paura. La vostra protezione! Sapevo be-
ne che quella innocente è sotto la protezione di Dio; ma

voi, voi me lo fate sentire ora, con tanta certezza, che

non ho più bisogno di riguardi a parlarvene. Lucia, di-
co: vedete come io pronunzio questo nome con la fronte

alta, e con gli occhi immobili.
– Come! in questa casa…!
– Ho compassione di questa casa: la maledizione le
sta sopra sospesa. State a vedere che la giustizia di Dio
avrà riguardo a quattro pietre, e suggezione di quattro

sgherri. Voi avete creduto che Dio abbia fatta una crea-
tura a sua immagine, per darvi il piacere di tormentarla!

Voi avete creduto che Dio non saprebbe difenderla! Voi

avete disprezzato il suo avviso! Vi siete giudicato. Il cuo-
re di Faraone era indurito quanto il vostro; e Dio ha sa-
puto spezzarlo. Lucia è sicura da voi: ve lo dico io pove-
ro frate; e in quanto a voi, sentite bene quel ch’io vi

prometto. Verrà un giorno…
Don Rodrigo era fin allora rimasto tra la rabbia e la
maraviglia, attonito, non trovando parole; ma, quando
sentì intonare una predizione, s’aggiunse alla rabbia un
lontano e misterioso spavento.

Afferrò rapidamente per aria quella mano minaccio-
sa, e, alzando la voce, per troncar quella dell’infausto

profeta, gridò: – escimi di tra’ piedi, villano temerario,
poltrone incappucciato.

Queste parole così chiare acquietarono in un momen-
to il padre Cristoforo. All’idea di strapazzo e di villanià,

era, nella sua mente, così bene, e da tanto tempo, asso-
Letteratura italiana Einaudi 94

ciata l’idea di sofferenza e di silenzio, che, a quel com-
plimento, gli cadde ogni spirito d’ira e d’entusiasmo, e

non gli restò altra risoluzione che quella d’udir tranquil-
lamente ciò che a don Rodrigo piacesse d’aggiungere.

Onde, ritirata placidamente la mano dagli artigli del
gentiluomo, abbassò il capo, e rimase immobile, come,
al cader del vento, nel forte della burrasca, un albero
agitato ricompone naturalmente i suoi rami, e riceve la
grandine come il ciel la manda.
– Villano rincivilito! – proseguì don Rodrigo: – tu
tratti da par tuo. Ma ringrazia il saio che ti copre codeste
spalle di mascalzone, e ti salva dalle carezze che si fanno
a’ tuoi pari, per insegnar loro a parlare. Esci con le tue

gambe, per questa volta; e la vedremo. Così dicendo, ad-
ditò, con impero sprezzante, un uscio in faccia a quello

per cui erano entrati; il padre Cristoforo chinò il capo, e

se n’andò, lasciando don Rodrigo a misurare, a passi in-
furiati, il campo di battaglia.

7
This free e-book was created with
Ourboox.com

Create your own amazing e-book!
It's simple and free.

Start now

Ad Remove Ads [X]
Skip to content