27 gennaio 2021
“Giornata della Memoria”
Scuola Secondaria di primo grado
“F. Giacobbe” Scaletta Zanclea
….per non dimenticare!
Immaginando lo svolgersi della vita di ognuno di noi, proviamo a pensarla come se fosse una narrazione all’interno della quale hanno luogo e si snodano, si avvicendano accadimenti, esperienze, situazioni. Pensiamo alla nostra vita, al suo svolgersi come a un discorso nel quale si possa essere “virgole” e non “punti “. I punti chiudono un discorso, le virgole, le semplici virgole, lo continuano, lo spiegano, lo chiariscono e lo migliorano. Ricordiamo, raccontiamo, diamo testimonianza di ciò che è stato, delle nostre esperienze, del discorso della nostra vita che ricco di tante, semplici virgole, si è reso migliore non soltanto a noi ma soprattutto agli altri.
Anna Virginia Di Bella
Classe 1A
I ragazzi della IA con animo commosso riflettono, attraverso un sogno immaginario, sulle innumerevoli vittime di un cieco odio razziale e religioso, che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte in quei luoghi aberranti e disumani.
La memoria di tali fatti, del dramma della Shoà susciti un sempre più convinto rispetto della dignità di ogni essere umano, perché tutti gli uomini si percepiscano una sola grande famiglia.
Prof.ssa Isabella Floresta
Duo di chitarra
Francesco Freni – Natale Rizzo
Schindeler’s list theme
Classe 2A
In occasione della Giornata della Memoria, la classe II A ha realizzato un elaborato digitale per manifestare il proprio impegno e la propria volontà di ricordare le vittime della Shoah.
Gli alunni, coadiuvati dai professori Calderone, Muscolino e De Francesco hanno recitato alcuni brani tratti dal diario dell’ufficiale britannico Mervin Willet Gonin, che fu il primo a liberare il campo di concentramento di BERGEN-BELSEN. Inoltre, gli studenti hanno posto l’attenzione anche sulla figura di Gino Bartali, “Giusto tra le Nazioni “, che con il suo coraggio salvò molti Ebrei dalla persecuzione nazifascista.
Con questo lavoro, i ragazzi hanno dimostrato che il ricordo non si ferma, neanche in questo particolare momento storico.
Prof. A. Muscolino
Classe 3A
Questo evento va ricordato non solo perché è parte fondamentale di un tempo storico tra i più tragici che si ricordino, ma anche perché è diventato il paradigma della violenza, della sopraffazione, del tentativo di cancellazione non solo di un intero popolo ma di ogni forma di diversità e di una cultura che non ha voluto difendere i valori assoluti della libertà, della fraternità, del rispetto per ogni singola persona. Con i ragazzi abbiamo realizzato un percorso emotivo facendoli riflettere che siamo tutti uguali, che la diversità è una ricchezza, Incoraggiandoli a una maggior consapevolezza dell’altro, così da favorire una convivenza più armonica.
Parlare della shoah oggi è un compito tanto più urgente perché coloro i quali erano gli unici a poterne parlare “i testimoni” stanno per evidenti ragioni anagrafiche morendo uno dopo l’altro e dunque anche la scuola deve porsi l’obiettivo di essere testimone dopo i testimoni. Sami Modiano, un sopravvissuto ha affermato ”Chi ascolta un testimone, diventa un testimone.
Prof.ssa Rosella Costantino
Per te
Oggi nel giorno della memoria
che narra un evento della storia,
proprio te voglio ricordare
“Liliana Segre” per non dimenticare.
Donna forte e coraggiosa
che va premiata per ogni cosa,
contro l’INDIFFERENZA sei sempre stata
e per questo vai lodata.
Il binario 21, il tuo destino ha segnato
da lì gli ebrei hanno deportato.
Arrivata a Auschwitz tutte le sere il cielo osservavi
e ad una stella le tue preghiere affidavi
e per una promessa, quando ti sei salvata
sempre con te nella collana l’hai portata.
A te la stella 75190 hanno dedicato,
numero che porterai sul braccio per tutta la vita.
Sei il simbolo del nostro passato
pur essendo tanto sbagliato,
dona a noi giovani la tua forza e il tuo coraggio
per poterti rendere sempre omaggio.
Giulia Mangano
classe 3A
Non si può e non si deve dimenticare
Non si può e non si deve dimenticare
il giorno in cui tanti ebrei, qualcuno decise di sterminare.
Gente innocente, che niente di male aveva fatto
eppure il loro destino era stato tratto,
Shoah fu chiamato,
questo fenomeno reale e documentato.
Quante torture hanno dovuto subire
discriminazione e persecuzione affrontare,
lavori disumani ricoprire
fino ad arrivare a morire.
In campo di concentramento furono deportati
e nei forni crematori bruciati.
È impossibile immaginare
il dolore che hanno dovuto provare.
Non si può e non si deve dimenticare
questo terribile e drammatico periodo infernale,
nasce così il giorno della memoria
ricorrenza internazionale che rimarrà nella storia
che ci permette ogni 27 gennaio di celebrare
la liberazione del campo di concentramento di Auschwitz,
fatto storico da ricordare.
Francesco Freni
classe 3A
Shoah
Spesso decidiamo di non pensare
forse per cercare di dimenticare
delle parole, delle situazioni, degli atteggiamenti
per proteggerci da ciò che ci ha ferito profondamente.
Non tutto però può essere dimenticato
anzi ha il diritto di essere ricordato
come il giorno della memoria,
una data molto importante per la storia.
Il 27 gennaio 1945 finalmente fu da tutti conosciuto
quello che realmente era accaduto
l’orrore del genocidio nazista
che ancora oggi tutti noi rattrista.
Uomini, donne e bambini
in forni vennero inceneriti
furono a volte torturati con metodi terrificanti
per poi farne saponi e fertilizzanti.
Furono istituiti diversi campi di concentramento
e per gli ebrei fu un vero tormento
Auschwitz di questi fu il più vasto,
6 milioni di ebrei furono uccisi durante l’olocausto.
L’essere umano fu privato della propria identità,
un numero gli venne assegnato con crudeltà,
alle donne i capelli vennero rasati
mentre gli uomini furono costretti a lavori forzati.
È difficile credere
che tutto questo sia potuto davvero succedere
ma per evitare che qualcosa di simile accada nuovamente
basta semplicemente
che ciò che è stato
rimanga impresso nella nostra mente.
Alessia Rizzo Spurna
Classe 3A
Marco e Rose
Da quando i tedeschi erano arrivati nel nostro paese, i miei genitori erano in costante ansia, a pranzo e a cena parlavano solo di luoghi dove potersi nascondere, di come provare a scappare, senza prendersi la briga di spiegare a me e a mio fratello ciò che stava succedendo, così come non l’avevano fatto quando gli parlavamo delle persone che ci guardavano e ci indicavano mentre tornavamo a casa o quando ci avevano espulso dalla nostra scuola. Non ci dicevano mai niente, convinti che così saremmo stati più sereni. Io e Marco avevamo solo 11 e 8 anni il giorno in cui i nostri genitori ci dissero che saremmo stati lontani per un po’, avremmo vissuto a casa di una vecchia amica di famiglia mentre loro sarebbero andati da un’altra parte. Non ci dissero dove o quando li avremmo rivisti, forse perché non lo sapevano. Due settimane dopo ci trovavamo a casa di Anne e di suo marito Robin che ci diedero diverse regole: non dovevamo lasciare oggetti in giro, avremmo mangiato e dormito nella cantina (a cui si accedeva spostando il tappeto del soggiorno, aprendo la botola e scendendo le scale) che era stata ripulita e dove si trovavano due lettini. Saremmo usciti da lì solo per andare in bagno o quando ci avrebbero chiamato, inoltre se sentivamo delle voci che non conoscevamo, dovevamo stare in completo silenzio. Non fu facile adattarsi a questa nuova situazione anche perché io e Marco eravamo abituati ad uscire per fare delle passeggiate o giocare e a volte anche a litigare di brutto creando confusione. Proprio come mamma e papà, Anna e Robin non ci dissero perché eravamo lì ma alle nostre domande rispondevano dicendo soltanto: “E’ un brutto periodo, passerà presto.”
Non fu così.
Dovemmo passare molti mesi in quel nascondiglio fino a quando un giorno tutto precipitò così velocemente che ci volle un po’ per metabolizzare. Io e Marco stavamo giocando a carte (Anne ce le aveva date il quarto giorno che eravamo lì, dicendo che sarebbe stato un bel passatempo) nella cantina, usavamo una candela per vedere, dato che non c’era corrente. Sentimmo qualcuno bussare alla porta al piano di sopra, poi una voce che gridava degli ordini in una lingua straniera. In quel momento ci guardammo negli occhi, sapendo cosa fare, spegnemmo la candela e attenti a non produrre alcun rumore, ci nascondemmo sotto il letto, tenendoci per mano. Ora la stanza era completamente buia e non si sentivano altro che grida provenire dal piano terra: «Non c’è nessuno qui! Non nascondiamo nessuno!» urlavano Anne e Robin. Fu in quel momento che capii che chiunque ci fosse in quella casa, era lì per noi, che ci stavano cercando, anche se non sapevo il perché. I passi si fecero sempre più vicini, fino ad arrivare proprio sopra di noi, sentimmo il tappeto spostarsi, la botola aprirsi e qualcuno scendere le scale. Marco mi strinse più forte la mano. Ormai chiunque ci fosse nella stanza era davanti a noi, per qualche secondo non sentimmo altro che il silenzio, le urla si erano interrotte. Poi il lettino sopra di noi venne spostato. Alzai gli occhi e lo vidi. Era un uomo sulla quarantina, con i capelli castani e gli occhi azzurri, era alto e magro. Indossava un’uniforme grigia. Dopo averci guardato per un po’ gridò qualcosa nella direzione delle scale. Gli risposero e lui ci trascinò per il braccio portandoci di sopra. Anne e Robin erano seduti sul divano con delle armi puntate contro. Gli occhi mi si riempirono di lacrime al pensiero che fosse colpa nostra se erano in quella situazione. I soldati parlavano tra di loro per qualche minuto mentre io continuavo a guardare Marco (che non aveva smesso di stringere la mia mano) e Anne che mi sorrideva, anche se vedevo che aveva gli occhi lucidi. L’uomo che non aveva mai smesso di tenerci per il braccio, si avviò verso la porta d’ingresso, uscì, poi mise me e mio fratello su un camion, al cui interno c’erano altre persone. Dopo un po’ anche Robin e Anne erano lì. I due soldati si sedettero nei sedili anteriori e fecero partire il furgone. Non so quanto durò il viaggio e neanche dove stavamo andando. Ad un certo punto ci fermammo, i soldati scesero e ci indicarono di fare lo stesso. Ci trovavamo in una stazione dove c’erano persone che scendevano da altri furgoni e che venivano portati all’interno dei vagoni di un treno. Cosa che poi fecero fare anche a noi. Anne e Robin vennero messi in uno diverso dal nostro, lei mi guardò dispiaciuta e quella fu l’ultima volta che la vidi. Dopo che il nostro vagone fu pieno, lo chiusero, non si vedeva più niente. Abbracciai mio fratello non solo per proteggerlo ma anche per sentire che non ero sola, anch’io avevo paura. C’erano persone che piangevano, altre che pregavano e altre che stavano in silenzio. Non sapevo che fare, dove stavamo andando, perché eravamo lì, e Marco continuava a farmi domande, cercando di non piangere. Per cercare di tranquillizzarlo gli raccontai alcune delle sue storie preferite. Quando ci fermammo i soldati iniziarono a spingerci fuori dal vagone per poi farci salire su altri camion. Eravamo stanchi ma dovemmo fare un altro viaggio che durò ore, alla fine di questo ci divisero in tre gruppi: donne, uomini e bambini. Ci sottoposero a degli esami, controllavano quanto pesavamo, la nostra altezza, la nostra età, ci rasarono i capelli e ci marchiarono un numero nel braccio facendoci indossare delle divise a righe bianche e nere. Successivamente ci dissero di metterci in riga e man mano che chiamavano i nostri numeri dovevamo fare un passo avanti, io e mio fratello lo facemmo insieme. Subito dopo ci portarono dall’altra parte di quel campo, dentro un edificio separato dal resto della struttura. C’erano delle tavole di legno attaccate al muro che fungevano da letti, per il resto la stanza era vuota. Il soldato che ci aveva accompagnato, chiuse la porta di ferro alle nostre spalle, lasciandoci soli. Ci girammo e quello che vedemmo non fu certo confortante: c’erano dei bambini di diversa età, malnutriti e pieni di paura. Non passò molto tempo prima di scoprirne il perché. Ci davano da mangiare solo una fetta di pane nero e da bere solo un po’ d’acqua. Ogni volta che aprivano quella porta, il cuore ci batteva fortissimo e cercavamo di nasconderci il più possibile, sperando di non sentire pronunciare il nostro numero. Quell’uomo dal camice bianco, il dottor Mengele ci infondeva terrore perché chiamava dei numeri, li portava con sé e a volte non facevano ritorno. Per questo nascondevo mio fratello dietro di me. I giorni passavano e anche se arrivavano altri bambini, diventavamo sempre di meno. Le nostre condizioni non facevano che peggiorare, eravamo sempre più magri e stanchi. Poi arrivò quel giorno, sapevo che saremmo stati chiamati prima o poi. Come al solito avevo nascosto mio fratello dietro di me, sperando che non lo chiamassero. Invece dissero proprio il suo numero. Non sapevo che fare, quindi semplicemente rimasi ferma davanti a lui, sussurrandogli di non muoversi. Il soldato che era con il dottore si avvicinò e, invece di prendere Marco, prese me insieme ai gemelli francesi. Quando mi trovai di fronte alla porta, mi girai sorridendogli, anche se non sapevo se quella sarebbe stata l’ultima volta che lo avrei visto. Ci portarono in una stanza non molto lontana da dove eravamo prima. Era un laboratorio, c’erano diversi lettini, mobili con sopra medicine e fialette. Mensole con diverse siringhe. Deglutii, non sapendo cosa mi sarebbe successo. Il dottor Mengele mi fece stendere sul lettino, i gemelli vennero fatti sedere su due sedie vicine, mentre un altro medico si occupava di loro. Troppo occupata a guardarli, non mi resi conto di ciò che aveva preso Mengele. Sentii solo una sua mano aprirmi l’occhio destro e poi una goccia di quello che credevo fosse collirio (Metilene, veniva usato per rendere gli occhi azzurri) entrare all’interno. Fece la stessa cosa con l’occhio sinistro e dopo io non riuscii ad aprirli a causa del dolore. Me li apri lui e poi li guardò dopodiché mi rispedì indietro. Quando tornai nella stanza, la prima cosa che vidi fu mio fratello corrermi incontro e poi abbracciarmi. Successivamente per un po’ di tempo non ero stata più chiamata ma avevo paura per mio fratello. Una sera eravamo seduti in un angolo della stanza, entrarono e presero due bambini, quindi pensai: “Per oggi siamo salvi.” Mi sbagliavo dopo qualche minuto entrò il dottor Mengele. Non feci in tempo a muovermi per prendere mio fratello che fu portato via. Lo guardai con gli occhi lucidi mentre lasciava la stanza. Quella notte non dormii continuando a guardare la porta, sperando che tornasse ma non fu così. Passavano i mesi ma il mio tempo si era fermato a quella sera, pensavo sempre a Marco; nel frattempo noi bambini continuavamo a diminuire fino a rimanere in sei. Sapevo che tra un po’ sarebbe arrivato il mio turno, probabilmente quello stesso giorno. Non fu così, sono stata molto fortunata. Nelle ore successive iniziai a sentire molta confusione, urla e esplosioni, per la paura mi nascosi nel letto più in alto sdraiandomi completamente. Sentii la porta aprirsi convinta che fosse il dottor Mengele, venuto a prendermi, invece era un soldato, non un soldato tedesco ma uno russo. Quell’immagine non la dimenticherò mai e rimarrà impressa nella mia mente (come tutte le altre cicatrici), capii dal tono di voce che non voleva farmi del male, così scesi dal letto e uscii da quella stanza. La prima cosa che feci fu cercare con lo sguardo mio fratello ma non lo vidi. Non trovai nulla che gli appartenesse nelle vicinanze. Fu in quel momento che iniziai a pensare che fosse morto veramente e da lì iniziai a pormi delle domande. Potevo fare di più per aiutare mio fratello? Se avessi trovato un posto dove nasconderlo? Se avessi impedito a Mengele di prenderlo?
Troppe domande e troppi “se” per una bambina di 12 anni che ha vissuto una storia più grande e più forte di lei.
Alessia Rizzo Spurna
Classe 3 A
Flauto traverso
Alessia Rizzo Spurna
Gam Gam (canzone ebraica)
Classe 3B
Quest’anno la nostra pietra d’inciampo, sul percorso della memoria, è stata la consapevolezza: quella di avere, tutti, il diritto alla diversità, ma che nessuno è diverso di fronte ai diritti.
Affermarlo è semplice, pensarlo, viverlo, farlo diventare consapevolezza molto meno. È necessario fermarsi, ascoltare, porsi domande spesso scomode, mettersi in discussione.
Occorrono occhi curiosi di vedere, orecchie disposte ad ascoltare, menti aperte, cuori senza porte.
Occorre essere capaci di guardare l’altro e di riconoscerci se stesso.
Occorre essere disposti ad inciamparci, nella consapevolezza, che è innanzitutto conoscenza: dei diritti inalienabili dell’uomo e delle loro violazioni, della Costituzione e dell’immensa bellezza dei suoi principi fondamentali, dell’uomo e della sua storia, dei troppi aguzzini , ma anche dei tanti Giusti.
Occorre decidere da che parte stare.
La classe III B della Scuola Secondaria di Scaletta Zanclea ha risposto così…
Prof.ssa Giuseppina Bavuso
La tragedia dell’Olocausto, come tutti gli sconvolgimenti violenti della Storia, comporta difficoltà intrinseche ad essere trasmessa agli studenti di questa particolare fascia d’età. A ciò si unisce il momento in cui viviamo dove il rapporto discente-docente risente delle restrizioni dovute all’emergenza sanitaria. Ma noi non ci siamo fermati!
La tecnologia ci è stata di grande supporto. Essa è stata lo strumento che ha consentito, mantenendone l’essenza, di continuare a trasmettere, in modo efficace, quei valori imprescindibili che rendono ogni essere umano “persona”.
Ogni singolo frame di questo lavoro collettivo è l’espressione dell’intensità interpretativa e rielaborativa posta in essere da ciascun alunno.
Nel ringraziare tutti i colleghi del plesso, pur non menzionandoli singolarmente, per la sinergia espressa, un grazie speciale è rivolto alla webmaster, prof.ssa Debora Di Bella, per la continua ricerca di modalità sempre più innovative sia nella progettazione sia nella presentazione dell’operatività dell’Istituto comprensivo di Alì Terme.
Questo lavoro è la consapevole testimonianza che la narrazione continua e continuerà.
La responsabile di plesso
Prof.ssa Anna Virginia Di Bella
Published: Jan 26, 2021
Latest Revision: Feb 1, 2021
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