PROLOGO
“Every day discovering something brand new/ I’m in love with your body
Oh—I—oh—I—oh—I—oh—I
I’m in love with your body
Oh—I—oh—I—oh—I—oh—I…”[1]
Ma che c… Pronto!
B… buongiorno. La si… la si… la signora Emilia?
Sì, sono io. Ma le pare questa l’ora di chiamare? È domenica, santiddio!
Non riattacchi, la prego! Sono il Maresciallo Sga… Sgarziglio, del Comando dei Carabinieri di ***[2]. Chiedo scusa per averla disturbata così presto, ma si tratta di una faccenda di una certa rilevanza. Il nome Agnese Ba… ba… ba…
Ma lei balbetta?
Qualche vo.. volta.
Mi spiace molto, ma potrebbe arrivare al dunque, per favore?
Balestra! Agnese Balestra… le dice qualcosa?
Silenzio.
Signora?
Sì, sì… sono qui…
Allora, signora? La conosce?
Sì… è mia madre.
Capisco. Sono desolato.
Perché sarebbe desolato?
Sua madre è deceduta questa notte.
Silenzio.
Come avete avuto il mio numero?
Preferirei non pa…parlarne al telefono.
Quindi?
Deve venire qui prima possibile per l’identificazione e per le esequie.
È indispensabile?
A meno che non mi fo… fo… fornisca il nominativo e il recapito di qualcun altro che po… po…possa farlo al p…posto suo.
Non c’è nessun altro.
Allora verrà?
Silenzio. Chiamata terminata.
Odio i balbuzienti e chi parla con la R moscia ma ancora di più odio quella maledetta suoneria, che, come per tante altre cose nella mia vita, non ho ancora trovato il tempo di eliminare. Me l’ha inserita Isaac, il mio compagno americano, prima di regalarmi il telefono, sperando così di rendermi un po’ meno selvatica. Come se una canzone potesse convertirmi. Ci sono cose nella vita che non si possono cambiare, e basta.
[1] Ed Sheeran, Shape of you
[2] Si omette il nome della cittadina per non offendere la sensibilità di chi possa riconoscersi in alcuni soggetti qui descritti. Manco a dirlo, ogni riferimento a fatti o persone esistenti è puramente casuale.
CAPITOLO 1 – La Grande Stronza se ne va
Avevo visto la Grande Stronza per l’ultima volta la vigilia di Natale dell’82, quando avevo dieci anni e un bel sorriso mi alleggeriva ancora i tratti del viso piuttosto severi che avevo ereditato da lei. Lei che invece non rideva mai. E aveva deciso che la mattina di Natale avrei dovuto alzarmi e, accanto ai regali, trovare mio padre in lacrime con una lettera spiegazzata in mano: “Mi sento soffocare. Devo andarmene da qui. Vi telefonerò presto”.
Invece la Grande Stronza non telefonò mai. Da quel momento cominciai a imparare a memoria la geografia del planisfero, a mangiarmi le unghie e ad avere incubi. Per cinque o sei anni la sognai morta in tutti i modi più pittoreschi che la mia piccola mente riusciva a elaborare: schiacciata da un iceberg in Antartide, divorata dagli alligatori in Mississippi, arrostita in un locale di harajuku girl a Tokyo andato a fuoco. Le cose erano due: o la volevo fatta fuori per somma volontà del Fato oppure speravo di sognare il luogo sulla Terra in cui si fosse rifugiata. Per trovarla e ammazzarla con le mie mani.
Mio padre non riuscì mai a guarire veramente da quella fuga e anche lui prese una decisione: mi avrebbe cresciuta, mi avrebbe garantito un’istruzione e poi, a 54 anni, sarebbe morto d’infarto, sull’autobus, mentre tornava dalla fabbrica. Così anche lui mi mollò, a Milano, con un lavoro mediocre, un appartamento straripante di oggetti inutili e un cervello molto incasinato. Anche io da allora smisi di sorridere.
CAPITOLO 2 – Come in un cartone animato
Mentre guardavo fuori dal finestrino del Freccia Rossa mi dicevo che almeno, dopo aver spulciato in lungo e in largo l’Atlante, adesso sapevo dove era andata a rintanarsi la peggiore figlia di puttana di tutto il Creato. Visto che aveva ereditato dal padre banchiere dei gusti piuttosto raffinati e pretenziosi, avevo sempre pensato che avrebbe scelto per sé una grande città europea: Londra, Parigi, Berlino… dove si sarebbe fatta mantenere da un riccone panciuto e avrebbe dimenticato la figlia tutto pelle e ossa e il marito con le mani sporche di grasso. E invece, in una bollente mattina di luglio, mi ero ritrovata a fare il biglietto per ***, una sperduta cittadina di campagna a circa 30 chilometri da Torino. Torino, ecco! Almeno Torino avrebbe avuto un senso, avrebbe sanato un po’ la ferita. Avrei potuto dire che la Grande Stronza aveva mollato lì me e mio padre a zampettare da soli come due cimici rivoltate sulla schiena per andare a Torino, la città dell’Egitto e del Barocco, la città dei Granata e dei Gobbi, la città dell’automobile e delle belle borghesi impellicciate che mangiano agnolotti la domenica. Invece no. Era a ***: 29 mila abitanti, quintali di peperoni, tre piazze e un canile.
Ma forse ad aspettarmi c’era un avvocato tronfio che non vedeva l’ora di dirmi che avevo ereditato una gigantesca villa rustica e tantissimi soldi. Che mi sarei tenuti ben stretti: durante gli anni dell’università, per alleggerire mio padre, lavoravo in una pizzeria alle dipendenze di una grassona che puzzava di birra e fumo e poi passavo le notti libere sui libri di economia. Mentre la Grande Stronza faceva il bagno nei quattrini e si ritemprava odorando l’aria che sapeva di camomilla.
Cambiai a Porta Nuova, salutandola con un po’ di rammarico, e, alle 11:01 precise, salii su di un treno diretto a Savona. Lungo il percorso i miei occhi si persero tra le ampie campagne piemontesi, i paesini e gli alberi raggruppati come tanti soldati in falangi isolate. A poche centinaia di metri dalla stazione ferroviaria di ***, nel punto in cui il treno aveva cominciato a rallentare, mi accolsero i primi tuguri di zingari ricoperti di lamiere e legname di fortuna: non so perché, ma sentii la rabbia ribollirmi nello stomaco.
Ad attendermi sulla piazzetta non c’era un tronfio avvocato ma il maresciallo Sgarziglio che avevo richiamato per dire a che ora sarei arrivata. Il maresciallo era quadrato e scuro e indossava un paio di sopracciglia che parevano di gesso; mi strinse la mano con vigore e mi rinnovò le sue balbettanti condoglianze.
È p… pronta per vederla o pre… preferisce prima darsi una rinfrescata?
No, andiamo.
Il maresciallo per fortuna non mi fece altre domande e mi condusse di volata alla camera mortuaria dell’ospedale dove avevano composto la salma. Non ero sicura di quel che avrei provato vedendo la Grande Stronza: forse non l’avrei riconosciuta, forse avrei constatato che quella che era morta sulla panchina non era neppure lei e sarei tornata a Milano. Ma se fosse stata lei l’avrei presa a schiaffi o le avrei sputato addosso decine di insulti. Così sarei finita dentro per vilipendio a cadavere di Grande Stronza. E amen.
Seguendo il mio ospite che camminava rigido come uno stoccafisso, attraversai il cortile dell’ospedale ed entrai in una stanza semi buia che odorava di disinfettante. Sulla parete a sinistra era appeso un enorme crocefisso un po’ inquietante e sulla parete opposta si aprivano tre piccole salette, come piccole celle di un alveare di morte: nelle prime due erano esposte due salme nelle loro bare, congiunte le mani ossute e coperti i volti da un velo nero; la terza era vuota. L’anticamera del Purgatorio doveva essere più allegra.
Il maresciallo Sgarziglio mi fece strada verso la parete di fondo, fin dinanzi ad una porta scorrevole. Dall’altra parte, su un tavolo di metallo, mi indicò l’ennesimo cadavere: un lenzuolo bianco lasciava scoperta solo la testa. Mi avvicinai e mi trovai sotto gli occhi un volto incavato, grigio, senza identità. Ma quella fronte! Corrugata per natura, e le sopracciglia aggrottate come se qualcuno le avesse incollate alla pelle in quella posizione. Solo la Grande Stronza era nata con la faccia incazzata, e adesso era schiattata portandosela appresso.
Mi limitai ad annuire. Uscimmo, al sole. Il maresciallo mi si accostò gentilmente:
Dobbiamo pa…parlare, signora.
Sì, dobbiamo parlare.
Preferisce farlo qui o in centrale? Dovrà comunque pa…passare per compilare un po’ di scartoffie.
Andiamo pure da lei: prima mi toglierò il pensiero e meglio sarà.
Quando fummo in centrale, il maresciallo Sgarziglio mi fece accomodare nel suo ufficio e un solerte appuntato mi allungò un bicchiere di caffè annacquato. Mi armai di stoica pazienza.
L’abbiamo trovata stamattina molto presto, seduta su una pa…panchina in centro. Pensiamo che sia morta stanotte. Dobbiamo ancora terminare gli accertamenti autooo…ptici, ma il medico legale è quasi certo che si sia trattato di morte per ipertermia, in altre pa…parole un colpo di calore. La disidratazione, la malnutrizione…
Malnutrizione? – fissai l’uomo con un’espressione incredula. Dov’erano finiti il riccone panciuto, la villona, la vasca piena di soldi?
Signora, sua madre era una senza tetto.
Ecco, questa mi mancava. Una senzatetto! La Grande Stronza che amava le scarpe lucide e le pellicce e che non mi puliva il moccio dal naso per paura di sporcarsi era diventata una barbona, in un luogo dimenticato da Dio per giunta! Conclusi che come veggente facevo schifo e a quel punto decisi di procedere con le domande.
Come fate a dirlo?
Oh! – il maresciallo si lasciò scappare un leggero sorriso e le sopracciglia di gesso si spostarono di lato come vivessero di vita propria – Agnese vive a *** da oltre dieci anni. La conoscevamo tutti qui. Silenziosa, appartata, molto dignitosa. Non sa…sapevo avesse una figlia. Le somiglia molto sa?
Non c’era che dire: ero passata in trenta secondi dall’essere figlia di una Grande Stronza che si era dileguata per rincorrere chissà quali sogni di gloria all’essere figlia di una megera senza denti morta su una panchina in un recondito angolo di terra ai bordi del mondo. Una gran fortuna! Tanto valeva raschiare il barile e sapere tutto.
E dove viveva? Aveva un rifugio, uno scatolone o cosa?
Dormiva dal parroco, don Virgilio, che l’aveva accolta quando era arrivata con il treno. Per spirito di ca…carità, sa com’è… – No, non sapevo com’è, cazzo! A me nessuno mai ha dato niente per spirito di carità, solo mazzate sui denti! – Le passava anche qualcosa da mangiare, ma lei era orgogliosa, preferiva provvedere a sé stessa, con qu…quello che le regalava la gente.
Ancora non mi ha detto come ha fatto a rintracciarmi.
Quando l’abbiamo trovata aveva qu…questo in mano – il maresciallo Sgarziglio fece scorrere verso di me una scatola sgualcita, che in passato doveva aver ospitato un paio di scarpe. Era legata con dello spago e sul coperchio, a pennarello, c’era scritto: EMILIA 3390857…
È il mio numero – constatai inutilmente.
Ho pe…pensato che si trattasse di qualcuno di importante per lei, così ho chiamato.
Cosa contiene la scatola?
Qualche euro e alcuni oggetti di scarso valore. Forse a lei diranno qualcosa.
E adesso?
Le farò firmare un po’ di ca…carte, anche se dovrà tornare quando gli ultimi esami saranno terminati e avremo la ce…certezza della causa del decesso. Penso che debba prendere contatto con le pompe funebri, per il funerale.
Già, il funerale! Quello di mio padre era stato deprimente ed eterno. Mi ero sentita svuotata e non avevo neppure pianto. Adesso ero chiamata di nuovo a scegliere bara, fiori, tomba. Per fortuna a tutto il resto avrebbe pensato l’agenzia: ne avevo vista una proprio davanti all’ospedale, in posizione strategica.
Mi congedai dallo scuro Maresciallo; telefonai a Isaac che mi aveva lasciato un milione di messaggi a cui non avevo voglia di rispondere; andai alle pompe funebri, aperte anche di domenica perché “non si sa mai quando capita”, e feci quel che doveva essere fatto: sborsai un sacco di soldi ma con un po’ di fortuna l’indomani mi avrebbero dato il via per le esequie ed entro tre o quattro giorni sarei risalita sul mio treno e tanti saluti.
Avevo prenotato in un piccolo albergo che aveva il nome di un santo e che quindi mi lasciava ben sperare che ci sarei stata comoda. Così, visto che era ampiamente trascorsa l’ora di pranzo, decisi di andare a rintanarmi in camera mia, fare una doccia e mangiare qualcosa.
La stanza era semplice ma confortevole. La doccia tiepida mi tolse un po’ di arsura dalla pelle e riuscii persino a farmi portare in camera un toast e un bicchiere di vino ghiacciato. Ma per tutto il tempo ebbi per la testa un unico pensiero: la scatola. Mi ero ripromessa di non aprirla fino a quando non fossi stata assolutamente rilassata. Temevo quel che avrei provato, perché non ero mai stata brava con le emozioni: mi invadevano e mi lasciavano spossata. Belle o brutte che fossero, anche se quelle brutte vincevano sicuramente di almeno tre lunghezze. Lì, sul letto di un luogo anonimo, in maglietta e mutande, le avrei gestite meglio.
Presi la scatola fra le mani, levai lo spago e sollevai il coperchio. Un odore di stantio emerse dall’interno. Sospettando che la scatola potesse aver ospitato resti di cibo o chissà quale altra schifezza, decisi di prendere un asciugamano dal bagno e di svuotarci sopra il contenuto per evitare di inzaccherare il copriletto. E fu così che mi ritrovai a fissare una serie di oggetti privi di logica.
L’unica cosa che avesse un senso era un sacchetto di plastica pieno di centesimi e di qualche euro: il risultato dell’ultimo accattonaggio, evidentemente. Seguivano un paio di cuffiette bluetooth piuttosto costose, un paio di guanti di plastica misura M ancora confezionati, un sacchetto di funghi secchi scaduto da un anno e un piccolo pupazzetto della Pimpa, la cagnolina a pois con la lingua quadrata e due lunghissime orecchie. Su ogni oggetto era attaccato un biglietto: “restituire a Salvo”, “restituire a Neve”, “restituire a Osvaldo”, “restituire a Pimpa”. Quella era l’eredità della Grande Stronza.
Non si era curata di me per quasi tutta la vita e ora, da morta, pretendeva ancora qualcosa. Che io riconsegnassi per lei degli stupidi insignificanti oggetti a quattro perfetti sconosciuti, invece di telefonarmi al numero che – solodiosacome – era riuscita ad avere e di chiedermi scusa, tentando magari di spiegarmi perché era fuggita lasciando dietro di sé solo poche vuote parole e tanta amarezza. Salvo, Neve, Osvaldo e la Pimpa: sembravano davvero i nomi di un cartone animato, i protagonisti di una favola assurda come assurda era tutta questa faccenda che mi era piovuta in testa.
Qualcosa in me suggeriva di prendere quella maledetta scatola e di gettarla nella spazzatura; ma qualcos’altro, una sensazione indefinibile, mi spingeva invece a mettermi sulle tracce dei quattro ignoti personaggi. Forse quella vocina era solo il mio forte desiderio di vendetta che voleva scoprire quanto il destino avesse inesorabilmente spinto in basso la Grande Stronza; o era una remota volontà di conoscere meglio colei che non avevo avuto il tempo nemmeno di mandare a quel paese. In ogni caso, ero bloccata in un paesello della campagna piemontese chissà ancora per quanto tempo e tanto valeva fare qualcosa che mi tenesse occupata. Infilai il misterioso lascito in borsa e poi feci un sonnellino, attendendo che trascorressero le ore più calde.
CAPITOLO 3 – Minestrone e tamarindo
A metà pomeriggio mi diedi una sistemata e uscii. Come unico indizio per partire avevo il nome di un parroco. E visto che nel remoto angolo dell’universo in cui mi trovavo non c’era traccia di taxi, decisi di prendermela comoda e di avviarmi a piedi.
Camminai per qualche chilometro e attraversai tutta la cittadina per affiorare in un borgo semideserto, come mi aveva indicato il maresciallo. La strada centrale si chiudeva proprio davanti alla chiesetta e fu lì, alla porta della sagrestia, che suonai il campanello. Venne ad aprirmi un ometto rotondo, con occhi ridenti e mani gigantesche che si stava pulendo in un canovaccio fradicio.
Desidera?
Don Virgilio?
Sì, sono io.
Mi chiamo Emilia Spini, e sono qui per farle alcune domande su Agnese Balestra.
Ah, la vecchia Agnese! Povera donna… ha sentito cosa le è successo? – si incupì.
Sì, ho sentito.
Perché vuole sapere di Agnese? È una giornalista?
Inventai in fretta una storiella su come l’avessi conosciuta e sul perché avessi la scatola, curandomi di non rivelare la mia vera identità perché mi vergognavo, non del fatto che chi mi aveva messa al mondo fosse diventata una senzatetto, ma piuttosto di quello che era stata prima: una Grande Stronza.
Il prete, dal canto suo, non fece troppe domande.
Avrebbe un momento per me? – chiesi con una certa insofferenza, asciugandomi due goccioloni di sudore che mi scendevano lungo le tempie.
Certo, certo. Se non la imbarazza un po’ di disordine, si accomodi pure.
Entrammo in un piccolo corridoio buio e da lì passammo in un’ampia cucina completamente invasa dal profumo di minestrone.
Credo di essere l’unico pazzo a cucinare il minestrone in estate, ma cosa vuole? Lo adoro, specie con le verdurine fresche dell’orto. E poi fare qualcosa mi aiuta a non pensare alla povera Agnese…
Don Virgilio era un uomo davvero d’altri tempi, spontaneo e cortese, come possono esserlo ancora i buoni parroci di campagna. Mi fece accomodare e cominciammo a parlare. Sentii che avrei potuto rivelargli tutto, come se fossi stata in un confessionale, io che non mettevo piede in chiesa da un’eternità, e mi rassicurava il fatto che davanti a me non ci fosse una scura grata di metallo, ma un tavolo ricoperto di barattoli di salsa, scodelle e piatti. Tuttavia mantenni il mio segreto.
Don Virgilio mi versò del tamarindo in un enorme bicchiere a righe gialle e si sedette accanto a me. Gli raccontai quello che avevo appreso nelle ultime ore e gli mostrai gli oggetti che avevo trovato nella scatola. Il prete rotondo non mi interruppe mai, e solo alla fine esclamò:
Purtroppo, così, su due piedi, queste cose non mi dicono nulla, ma la vecchiaia non aiuta la memoria e magari tra qualche giorno potrebbe riaffiorare qualcosa – poi mi dipinse un quadro molto diverso da quello che avevo io nella memoria.
Il quadro di una donna dai tratti del viso induriti da una vita difficile, ma con un animo docile e speranzoso. Una donna che sapeva farsi invisibile, che sapeva chiedere scusa, permesso e per favore, ma che mandava a quel paese senza troppi scrupoli chi non le andava a genio. Un mezzo idillio direi. Ma dopo tutto stavo parlando con un prete e, come è ben noto, i preti tendono a vedere il buono anche in una cloaca. Dal canto mio non potevo ammettere né volevo accettare nessuna delle parole che don Virgilio mi stava propinando, e poi non ero lì per sentire il panegirico di una stronza, ma per scoprire chi erano i quattro sconosciuti. Niente di più.
Don Virgilio si sforzò ancora ma non ricordò niente che potesse essermi d’aiuto, tranne che la vecchia Grande Stronza era piuttosto abitudinaria e ogni giorno percorreva sempre la stessa strada per arrivare in città e, una volta lì, faceva sempre lo stesso giro prima di tornare in casa parrocchiale a dormire, se ne aveva voglia. Chiunque sapeva dove trovarla ad una certa ora e quando non la si vedeva per un giorno o due si telefonava a don Virgilio per avere nuove. E se era malata, tutti le facevano avere gli auguri di pronta guarigione e le portavano qualcosa da mangiare o qualche medicina per rimetterla in piedi.
Don Virgilio, con occhi rossi e umidi, parlò ancora a lungo di lei. Io avevo sentito abbastanza.
Finii il mio tamarindo e alzai i tacchi. Non mi restava che ripercorrere il viaggio quotidiano della Grande Stronza.
CAPITOLO 4 – Chiacchierando tra le tombe
Don Virgilio aveva tracciato su di un foglietto una mappa che in effetti aveva tanto l’aria di uno scarabocchio ma che si rivelò sufficientemente dettagliata, così, il giorno dopo, verso le 9 del mattino, mi infilai le scarpe da ginnastica, inforcai gli occhiali da sole e indossai un comodo cappello di paglia. Poi uscii dall’albergo e mi diressi verso la prima tappa: il cimitero.
A sentire il proprietario dell’hotel, il cimitero di *** è uno dei più grandi della provincia: è in continuo ampliamento e le tombe vengono su come funghi. Ma questo non credo sia molto rassicurante, vista l’implicita conseguenza del fatto che qui la gente schiatta con una certa frequenza.
Non avevo la più pallida idea di cosa cercare e mi sentii subito un po’ imbarazzata a gironzolare per le tombe senza una meta precisa.
Ero immersa nella lettura dei nomi sulle lapidi, quando avvertii uno scalpicciare di piedi. Prima che avessi il tempo di voltarmi, qualcuno sfrecciò dietro di me. Lo inseguii con lo sguardo e mi sorpresi a osservare il di dietro di un tizio che faceva jogging. Ed era senza dubbio un signor si dietro, sodo e ben fasciato in un paio di leggins antracite che poco lasciavano all’immaginazione. Per fortuna i miei occhi abbandonarono in fretta i glutei per risalire sui fianchi ai quali era legato un minuscolo marsupio: dal marsupio partivano due fili che terminavano in due cuffiette ben salde nei padiglioni auricolari dell’uomo. Una lampadina si accese nel mio cervello e mi misi a correre. Cercai di farmi sentire dal proprietario del sedere sodo, che però doveva avere nelle orecchie qualche musica assordante con cui cercava di darsi ritmo ed entusiasmo. Così misi il turbo e lo affiancai. Quando si accorse della mia presenza si fermò e si tolse le cuffiette. Era sulla cinquantina, slanciato, dai tratti raffinati, brizzolato con un accenno di baffi sotto il naso leggermente adunco.
Buongiorno – mi disse con voce affannata – ha bisogno di qualcosa?
Non persi tempo: rovistai nello zaino che mi ero portata appresso, estrassi le cuffiette che avevo trovato nella scatola e gliele sventolai davanti al naso. Non appena le vide, l’uomo sorrise sorpreso:
Caspita! Sembrano le mie! Le ho perse qualche tempo fa… dove le ha trovate?
A quel punto ero in gara, per cui feci la mia seconda mossa.
Lei, per caso, si chiama Salvo?
Salvatore, Salvo per gli amici – l’uomo apparve stupito e divertito allo stesso tempo. Ma io non avevo ancora chiuso con le domande.
E conosce la signora Agnese?
Quante domande e nessuna risposta! – disse con espressione maliziosa, e io incalzai.
La prego, mi dica ancora questo e poi risponderò a tutto.
Sì, la conosco bene. Agnese mi ha salvato la vita.
Non mi ero mai seduta su di una tomba a chiacchierare con uno sconosciuto, eppure quella mattina di luglio lo feci e mi piacque. L’uomo dai glutei sodi si chiamava Salvatore Del Conte e aveva 52 anni. Sei anni prima sua moglie era morta di cancro e lui l’aveva sepolta proprio in quel cimitero. Gli era rimasta una figlia affetta dalla sindrome di Down di cui non credeva sarebbe riuscito ad occuparsi da solo. Salvatore Del Conte faceva il rappresentante ed era tutto il giorno fuori, quando non stava via intere settimane, e si chiedeva perché il destino fosse stato così feroce con lui. Se lo chiese per un po’, poi decise che sarebbe stato più facile farla finita e così comprò una pistola sotto banco e andò a salutare la moglie per l’ultima volta al cimitero un martedì di novembre. Quel giorno incrociò la Grande Stronza che andava a fare visita ai morti.
Salvatore Del Conte la vide davanti alla tomba della moglie intenta a parlare con la sua fotografia e le chiese cosa stesse facendo. La Grande Stronza gli rispose che ogni giorno andava a parlare con i morti e a chiedere scusa per qualcosa che aveva fatto tanto tempo prima a qualcuno che era sepolto da un’altra parte. Così insegnò a Salvo a parlare con sua moglie e a chiedere scusa per i brutti pensieri che aveva nella testa. Dopo quel giorno, Salvo prese ad andare al cimitero sempre alla stessa ora e ogni volta trovava lì la Grande Stronza e insieme chiedevano scusa ai morti, vicini e lontani. Salvo si sbarazzò della pistola, si prese una tata e continuò a parlare con i morti, anche facendo jogging, così “prendeva due piccioni con una fava”. Quando gli dissi che la Grande Stronza era morta pianse.
Mi diceva che facevo bene a correre tra le tombe, così i morti si sarebbero divertiti a vedermi in calzoni corti e tutto sudato. In effetti preferisco correre qui piuttosto che in mezzo alla gente viva – disse l’uomo giocherellando con le cuffiette che gli avevo restituito.
Vede cosa c’è scritto sul biglietto? – gli feci notare. Lesse e di nuovo sorrise di un sorriso un po’ malinconico.
Ce l’aveva che dovevo ascoltare le voci dei morti e non quelle del telefonino… La seppelliranno qui?
Sì.
Allora verrò a parlare con lei.
Nemmeno a lui dissi chi era per me la Grande Stronza, non volevo rovinargli il ricordo fasullo che aveva di lei, perché, dopo tutto, a quell’uomo la Grande Stronza aveva salvato la vita, lei e le sue idee strampalate sui morti: grazie a lei il signor Salvo era diventato lo sportivo dei morti, cosa che non si vede tutti i giorni. Gli chiesi se conoscesse le persone a cui appartenevano gli altri nomi e fra tutti solo uno sembrò dirgli qualcosa.
Una volta Agnese andava di fretta perché una certa Neve la aspettava al supermercato per la lezione.
Quale lezione?
Non me lo disse mai. Agnese aveva molti segreti e nessuna voglia di rivelarli.
In questo mi assomigliava davvero: una intera esistenza fatta di compartimenti stagni.
Ci salutammo e Salvatore del Conte riprese la sua corsa attraverso le lapidi. Io aprii il foglietto di don Virgilio e constatai che sulla mappa una crocetta indicava un supermercato. Era giunta l’ora di riprendere il viaggio.
CAPITOLO 5 – Neve e Jegermeister
Era quasi mezzogiorno. Nel supermercato affacciato sulla grande piazza, che manco a dirlo si chiama Piazza Italia, si aggiravano ancora parecchie persone e così anche io cominciai a muovermi tra gli scaffali, e mi salì la stessa sensazione di disagio che avevo provato poco prima andando per sepolcri. Tuttavia ora avevo qualche carta in più da giocare: potevo far finta di leggere valori nutrizionali e prezzi ed avvertenze d’impiego d’uso mentre mi davo in realtà alla ricerca della fantomatica Neve.
Non dovetti attendere a lungo: nel reparto dei surgelati mi imbattei in una giovane donna di colore inginocchiata a terra e impegnata ad asciugare l’acqua di condensa che era fuoriuscita dai frigoriferi. Non so perché, ma sentivo in cuor mio che lei era chi cercavo e che Neve era il nome che le aveva appioppato la Grande Stronza. E lo sapevo perché io adoravo le contraddizioni e forse anche questo avevo ereditato da lei. Passai così alla prova del nove:
Neve? – chiesi con voce ferma.
La ragazza si voltò molto sorpresa.
Nessuno mi chiama mai così. Solo Agnese. Tu come fai a sapere?
Questi sono tuoi? – e le mostrai i guanti nella busta.
Mi ha presi Agnese un giorno. Io so che lei è ladra ma non fa con cattiveria. Ha malattia.
Cosa vuoi dire? – chiesi sorpresa.
Non so come spiegare… Io so che lei ruba senza accorgersi. Io non ho detto niente dei guanti. Ne ho altri.
Appresi così un’altra colorita sfumatura della Grande Stronza: era cleptomane. Sciagurata, stronza e pure ladra, anche se non lo faceva con intenzione.
Sai cosa è successo ad Agnese? – chiesi alla ragazza.
Non ho vista da tre giorni. Lei non è venuta per lezioni.
Agnese è morta, Neve. Ieri.
A quelle parole, la ragazza si sedette di schianto a terra e la divisa da lavoro che indossava le si impregnò di acqua. Mi guardava con i suoi occhi neri ma non mi vedeva veramente; poi le salirono le lacrime e le grandi labbra tremarono. Si prese i lunghi capelli crespi tra le mani e cominciò a dondolarsi avanti e indietro emettendo lamenti e guaiti strazianti. La gente che era lì la guardava e poi guardava me e poi si allontanava come se fossimo due appestate. E io non riuscivo a muovermi davanti a quella insolita esternazione di dolore e restai impalata come una deficiente. Di lì a pochi istanti fece la sua comparsa un figuro che era il fumetto di se stesso: alto non più di un metro e cinquanta, magro, nervoso, con una pretenziosa targa identificativa da Vicedirettore sul petto, sfoderando parole poco gentili fece intendere a Neve che doveva ricomporsi e allontanarsi. A quel punto mi risvegliai dal mio torpore e aiutai la ragazza ad alzarsi. Seguimmo il fumetto nel magazzino e, mentre cercavo di spiegare l’accaduto, Neve continuava con il suo compianto funebre. Alla fine rimanemmo sole. Riuscii solo dopo molti tentativi a fermare quello che ormai avevo capito essere una sorta di tragico rituale. Parlammo.
Il vero nome della ragazza era Halima ed era arrivata dal Congo un anno prima con suo fratello. Non spiccicava una parola di italiano e si sentiva sperduta in un luogo ostile. L’associazione a cui si appoggiava per l’integrazione in Italia le aveva trovato diversi lavoretti come donna delle pulizie; da ultimo era finita lì, nel supermercato dove ogni giorno, alle 12:30 in punto, arrivava la Grande Stronza.
La Grande Stronza sistemava i carrelli della spesa, salutava la gente che entrava e che usciva e faceva arrabbiare il fumetto nervoso, che non sopportava gli accattoni. Ma la Direttrice, la dottoressa Clara Regina, era molto più condiscendente e lo metteva a tacere solo lanciandogli un’occhiataccia eloquente da sotto i pesanti occhiali.
La Grande Stronza e Halima si conobbero in un giorno di pioggia, quando la ragazza ebbe bisogno di una traduzione.
Io stava pulendo e una bella signora mi chiede dove trova “Jegermeister”. Io non sapeva cosa era “Jegermeister” e la signora comincia a fare l’isterica e mi dice che noi neri non sappiamo niente e che dobbiamo stare in nostro paese – mi raccontò Neve asciugandosi gli occhi con il dorso della mano e tirando rumorosamente su con il naso – Io non capiva cosa c’entra questo e mi sentivo male. Allora sento Agnese che dice “Lo Jegermeister lo trova nella corsia in fondo, quella degli ubriaconi!”, così signora isterica se ne va dicendo cose brutte e io ringrazio Agnese che aveva aiutato.
Halima mi spiegò che la Grande Stronza si offrì di insegnarle un po’ le cose del nostro Paese: la lingua, i prodotti tipici, i nomi dei Papi e dei santi. E poi cominciò a chiamarla Neve, perché la faceva ridere chiamarla così, lei che era tanto nera e arrivava da un paese tanto caldo. Halima fu felice di avere trovato una maestra e così ogni giorno, durante la pausa pranzo, mentre si dividevano un panino o un piatto di pasta, la Grande Stronza spiegava ad Halima qualcosa dell’Italia e Halima le raccontava le storie della sua terra.
Poi, un giorno, chiedevo ad Agnese perché vuole insegnarmi e lei dice che lo fa perché non lo aveva fatto con altra persona che non vedeva da lunghi anni e che aveva imparato da sola cose della vita. Io non capiva ma vedeva lei molto triste.
Io invece cominciavo a capire, ma preferivo tenere lontani quei pensieri. Mi concentrai sulla ragazza. Halima mi raccontò ancora, con il suo italiano sgrammaticato, che più volte aveva tratto d’impiccio la Grande Stronza rimettendo a posto i prodotti che si infilava nelle tasche e aveva anche cercato di spiegare il problema alla Direttrice, la quale – donna di buon cuore – si limitava a perquisire la vecchia ogni volta, prima che passasse attraverso i sensori delle porte automatiche. L’uomo fumetto assisteva e gli usciva il fumo dalle orecchie.
Cosa faccio io adesso senza Agnese? – mi chiese ad un tratto Halima con gli occhi più spaventati che mai avessi visto.
Non seppi cosa rispondere. Le sciorinai qualche frase fatta, di cui mi pentii quasi subito; le misi in grembo i guanti imbustati e me ne andai, da brava vigliacca. Quando fui uscita dal supermercato mi sentii una schifezza: anche io stavo fuggendo, dalle persone e anche dalla verità che cominciava a profilarsi all’orizzonte con molta audacia. E mi spaventava perché mi accorgevo di avere sempre più cose in comune con la Grande Stronza.
CAPITOLO 6 – Per amore di Giovanni
Faceva caldo. Risposi a una chiamata di Isaac, ma non gli raccontai nulla della scatola: mi ripromisi di farlo quando tutto fosse finito, a Milano, nel nostro appartamento. Subito dopo ricevetti una telefonata anche dal maresciallo Sgarziglio che mi dava il via libera per il funerale. Così, nonostante un incipit di disidratazione e una fame da lupo, decisi di andare alle pompe funebri.
Avevo scelto una bara semplice, la più economica; avrei sistemato la Grande Stronza in un loculo del nuovo campo e le avrei adornato la foto di imperituri fiori finti. Sulle prime avevo avuto l’insana idea di portarla a Milano, ma non mi parve giusto seppellirla vicino ad un marito da cui aveva scelto di separarsi lei stessa: non tanto per lei, quanto per lui che forse non avrebbe gradito la sua vicinanza e si sarebbe rivoltato per l’eternità nella tomba maledicendomi e condannandomi a un’esistenza piena di sfiga. No, sarebbe rimasta a ***, dove per lo meno qualcuno la conosceva e dove, in un modo o in un altro, si era costruita una nuova vita.
Il funerale avrebbe avuto luogo l’indomani pomeriggio e sarebbe stato don Virgilio a officiare; la salma sarebbe rimasta esposta nella camera ardente fino ad allora, caso mai qualcuno avesse voluto farle una visita di cortesia. Il maresciallo mi consigliò di far affiggere anche qualche manifestino funebre:
“Agnese Balestra è venuta meno all’affetto di chi la conosceva e la amava.
Ne dà il triste annuncio la figlia”
Nessuna foto.
Quando la salma fu sistemata ed io ebbi terminato con le scartoffie, era ormai tardo pomeriggio. Non avevo mangiato e morivo di fame. Dopo aver deciso di fare ancora un salto in centro e di comprare del cibo locale, tanto per gradire, diedi un’occhiata alla piantina di don Virgilio e vidi che, tra le tappe segnate, vi era anche una macelleria. Pensai che avrei approfittato della doppia opportunità: acquistare qualche affettato da mangiare al volo e chiedere se lì qualcuno avesse mai sentito parlare di Osvaldo.
La macelleria era piccola ma straripante di vari tagli di carne, pollame, salumi e prodotti tipici come l’antipasto alla piemontese con e senza tonno, la salsa di porri bianchi e i peperoni ripieni. Quando vi entrai non c’erano altri clienti. Dietro al bancone mi accolse una dolce signora di mezza età che mi tagliò quattro fette di prosciutto cotto, umido al punto giusto e ben marezzato di grasso. Mentre pagavo, notai con sommo gaudio che accanto alla cassa, su un piccolo espositore, facevano bella mostra di sé parecchie buste di funghi secchi, della stessa marca di quelli che tenevo in borsa. Pensai subito che la Grande Stronza avesse allungato le mani una volta ancora, del resto le buste sembravano urlare a squarciagola “prendimi!”, vista la loro posizione alquanto favorevole a qualunque mano nemmeno troppo veloce.
La buttai lì:
C’è il signor Osvaldo?
Sì, è di là a preparare la carne. Aveva prenotato qualcosa? – mi chiese la signora con un forte accento piemontese.
No, vorrei solo dirgli due parole, se possibile.
Glielo chiamo subito.
La donna si avviò nel retro del negozio che era nascosto alla vista da una tenda a frange spesse e setolose. Di lì a poco fece la sua comparsa un uomo notevole, sui quaranta, con un’enorme pancia e due belle gote rosse: appena uscito dal “Manuale del perfetto macellaio”, insomma. Si pulì le mani in uno straccio lurido e si avvicinò al bancone. Quando gli dissi della morte della Grande Stronza ne fu molto sorpreso ma non proferì parola. Mi chiese di seguirlo nel retro. Nemmeno a lui rivelai la mia vera identità.
Fin dalle prime battute della nostra conversazione, Osvaldo mi parve subito un uomo di grandi sentimenti, oltre che di grande stazza, che sapeva mettere a proprio agio le persone. E glielo dissi.
L’ho imparato da Agnese – mi rispose e io non mi stupii di sentirglielo dire. Non più almeno.
Tutto è iniziato cinque anni fa, mese più mese meno. All’epoca ero ancora un giovane orso e preferivo restare nel retro a pulire la carne, mentre mio padre si occupava dei clienti: lui sì che ci sapeva fare con la gente. Io invece la gente la odiavo, e odiavo ancora di più me stesso.
Pensai che alludesse alla sua mole, ma poi l’uomo mi raccontò di un giovanotto che faceva le consegne per il padre.
Si chiama Giovanni. Veniva ogni lunedì a portare i quarti di carne da lavorare. Si fermava un po’ qui mentre io preparavo i tagli, e così parlavamo. Era simpatico, grande e grosso quasi quanto me. Nessuno si accorse mai di me e di lui. Solo Agnese. Me lo ricordo come fosse ieri: erano le cinque del pomeriggio e faceva freddo. Ero uscito con Giovanni a fumare nel retro e la vidi, lì in piedi, a battere i denti. La feci entrare e le diedi qualcosa da mangiare. Il giorno dopo, entrò in macelleria e, senza dire una parola, si sedette sulla sedia.
Ripensandoci, avevo notato una sedia proprio accanto al frigo dei surgelati: avevo supposto che quella fosse la sedia per gli anziani che aspettavano il loro turno, per i bambini insofferenti, per le donne con le gambe gonfie. Invece era la sedia della Grande Stronza.
Mio padre, che – pace all’anima sua – era un uomo con un cuore grande come quello di un vitello, la lasciava stare lì. Lei non chiedeva niente, mio padre non chiedeva niente. Si guardavano ogni tanto e basta. Lei restava seduta per mezzora poi se ne andava e non voleva mai da mangiare. Capitò che mio padre si ammalasse di un male che lo portò poi dal Padre Eterno, e così fui costretto a occuparmi io della macelleria. Giovanni veniva a trovarmi e mi aiutava un po’: lui parlava e io tagliavo e affettavo. E Agnese era lì, che guardava e non diceva niente. Un giorno le parlai io.
Dica signora, come va?
Va bene, caro. E lei?
Io bene.
Non direi proprio.
Perché?
Perché lei sta male dentro. E starà sempre più male finché non si deciderà a guardarsi allo specchio e a dirsi “Eccomi qua, con la mia pancia e il mio Giovanni!” Non le dico, cara signora, lo shock! – e nel raccontarlo sembrò rivivere il momento e si fece tutto rosso in volto – Agnese aveva capito tutto. E poi mi disse ancora: “Lei deve imparare a volersi bene ma anche a conoscere la gente. Ci son persone che avrei voluto conoscere ma adesso non posso più. Lei che può, lo faccia. Come? Cominci a tenere d’occhio cosa fanno quelli che entrano qui e mi vedono. Dalle loro facce capirà chi ha un cuore pulito e chi no”. E lo feci, porca miseria! C’era chi la guardava con schifo, come si guarda la sporcizia degli intestini di una vacca; c’era chi non la guardava per niente e chi invece le sorrideva e magari le dava pure una moneta.
Chiesi a Osvaldo se sapeva che la Grande Stronza rubava e lui mi rispose che se n’era accorto, ma visto che per lui era una specie di porta fortuna, e che, in ogni caso, si metteva in saccoccia solo piccole cose, non le disse mai niente. Era come risarcirla un po’ per il suo aiuto.
Questo è suo. Lei ha lasciato scritto di restituirglielo – L’omone prese tra le mani il sacchetto di funghi secchi e pianse sommessamente. Poi sorrise e, rigirandosi il sacchetto fra le dita, mi disse che Giovanni alla fine era andato a vivere con lui e in negozio avevano preso una commessa per quando andava a fare il carico di carne. Qualcuno non era più entrato in macelleria perché “quello è un pervertito grasso – dicevano – e lascia entrare i barboni in negozio”, ma altra gente era arrivata e ora la sua clientela era solo di persone con il cuore pulito. E gli affari andavano molto bene.
La Grande Stronza aveva davvero portato fortuna.
CAPITOLO 7 – La verità tra i cipressi
Era sera e le zanzare cominciavano a sciamare ovunque, punzecchiandomi anche in punti del corpo che avevo dimenticato di avere. Il caldo non accennava a diminuire, l’umidità mi aveva messo a mollo anche il cervello e ancora non avevo trovato la Pimpa. Trascorsi la notte in bianco, soffocandomi tra zampironi e pensieri appuntiti. La mattina seguente completai il giro indicato dalla mappa di don Virgilio, parlai con alcune persone che avevano conosciuto la Grande Stronza e che, manco a dirlo, avevano solo cose belle da dire su di lei. Ma niente Pimpa.
Non andai alle pompe funebri, non avevo voglia di restare accanto al cadavere più del necessario: mi faceva rabbia. Stava venendo a galla che la Grande Stronza non era poi tanto stronza, almeno con gli altri. Solo con noi lo era stata, con me e mio padre. Stronza fino al midollo. E poi era finita a fare la barbona, quello che si meritava, porca miseria! Cosa pretendeva quella vecchia? La coscienza pulita? una figlia che la perdonava? Manco per sogno! Si era redenta? Aveva capito di essere stata una assoluta orribile vigliacca? Buon per lei. A me non me ne fregava più niente.
A furia di serrare e digrignare i denti per tutta la notte avevo le mandibole che facevano un male cane. Anche lo stomaco sembrava sotto vuoto. Saltai il pranzo e mi feci l’ennesima doccia prima del funerale.
La messa era fissata per le 15:30 e don Virgilio venne a benedire il feretro poco prima di condurlo in chiesa. Io arrivai con un po’ più di anticipo e mi accolse un inaspettato piccolo drappello di affiliati alla causa della barbona redenta. Riconobbi Salvatore del Conte in compagnia di una ragazzina che, a giudicare dagli occhi a mandorla e dall’espressione dolce e un po’ tonta, doveva essere la figlia; c’erano anche Halima, con un abito a fiori che le metteva in risalto il di dietro sporgente, e Osvaldo, che aveva trascinato alle esequie il suo Giovanni ed entrambi sfoggiavano giacche estive dello stesso colore che non si abbottonavano sul davanti. E poi altri che avevo incontrato o che non avevo mai visto. Ma nessuno che assomigliasse vagamente a un cane a pois rossi. Dovetti sottomettermi ai dannati convenevoli: strinsi mani, ricambiai baci e abbracci, ma mi astenni dai commenti di circostanza, anche perché sul conto della Grande Stronza non sapevo cosa dire se non scempiaggini. Adesso tutti sapevano chi fossi, anche don Virgilio, ma ebbero il buon gusto di non farmi pesare le mie menzogne. Era quasi certo che non li avrei rivisti per cui la mia coscienza non si sentì troppo affranta.
Il rito funebre fu breve ma intenso: don Virgilio spese belle parole in ricordo della defunta e rivolse anche a me il suo augurio di pronta guarigione da quella tragica perdita. Non poteva sapere che io avevo ancora l’altra ferita bella aperta, quella di vent’anni prima, e che quella in confronto mi faceva appena il solletico. Comunque, dopo la preghiera finale e il viaggetto verso il cimitero, finalmente la chiudemmo nel suo loculo, qualcuno versò qualche lacrimuccia e poi ce ne andammo. Io fui la prima a togliere il disturbo. Avevo pensato di prendere il treno delle 19 per Torino. All’odio per la Grande Stronza avrei aggiunto anche il segreto della Pimpa, l’ennesimo schiaffo di quella donna che anche da morta continuava a rompere le palle.
Camminavo tra le due file di cipressi che ornavano il viale davanti al cimitero, quando mi sentii chiamare. Mi voltai e vidi don Virgilio correre pesantemente verso di me e farmi cenni con la mano. Quando mi raggiunse era fradicio di sudore e completamente senza fiato. Ci sedemmo su una panchina e attesi che l’ossigeno si redistribuisse in modo uniforme nel corpo e nel cervello del povero prete trafelato. Quando si fu ripreso, mi guardò e sfoderò di nuovo il suo sorriso pacioso.
Alla fine mi sono ricordato! – mi disse prendendomi la mano.
Di cosa si è ricordato, mi scusi?
Della Pimpa! Ce l’ha ancora vero?
Tirai fuori dalla borsa il porta chiavi e glielo porsi. Il vecchio prete lo tenne fra le mani e annuì.
La vecchia Agnese cominciava ad ambientarsi. Una sera si sedette a tavola per la cena e lo tirò fuori – fece penzolare il portachiavi davanti a sé – Lo aveva rubato al mercato. Mi disse che nella casa in cui era vissuta, in una vita lontana, c’era stata una bambina e lei se n’era andata prima di averle dato un soprannome. Agnese diceva che ogni bambina deve avere un soprannome: stellina, chicca, amore di mamma. Ma lei non glielo aveva dato un soprannome. Poi aveva visto quel portachiavi e si era ricordata che una volta lei e la bambina avevano guardato insieme il cartone della Pimpa e la bambina aveva riso tanto e allungava la lingua e si era fatta le orecchie da cane con i capelli. L’avrebbe chiamata Pimpa. E la chiamava così quando la sera tirava fuori il portachiavi e lo guardava e mi chiedeva “Chissà che fa e com’è adesso la mia Pimpa?”
Don Virgilio non aggiunse altro. Mi restituì il portachiavi, mi abbracciò e se ne andò via, trotterellando giù lungo il viale dei cipressi. Io alzai gli occhi verso il cielo e rimasi lì, a sforzarmi di capire.
EPILOGO
È trascorso un anno dal funerale. Io e Isaac ci siamo sposati, con rito civile perché lui è ebreo e io non ho ancora deciso in cosa credere. Ho buttato via quattro scatoloni di cianfrusaglie e ho comprato una gatta che ho chiamato Neve perché è nera come la pece e sospetto che arrivi dall’Africa. Ogni primo sabato del mese torno a ***, vado a fare provviste di carne da Osvaldo e porto libri e riviste ad Halima sperando che non confonda più il parmigiano con lo yogurt greco. Poi faccio un salto da don Virgilio e bevo un po’ di tamarindo. Da ultimo vado al cimitero, dove incontro Salvo che corre e dove vado a mettere fiori freschi sul loculo che ho strapagato.
Nel tondino ho fatto inserire una foto che ho trovato fra le cose di papà. Quella del matrimonio.
Guardo quella foto e ogni volta mi incazzo, chiedo spiegazioni, impreco e tremo.
Poi saluto mia madre e torno a casa.
Published: Dec 28, 2020
Latest Revision: Dec 28, 2020
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