Oggi è morta la “pazza” degli Champs-Élysées. Ed è stato un colpo per i parigini dell’VIII arrondissement, perché lei era una di quelle presenze instancabili, quelle che sei sicuro che non le perderai mai, che ci saranno sempre quando andrai a letto la sera e quando riaprirai gli occhi al mattino, come il sole, le bollette e le buche nell’asfalto. Perle si metteva sotto il palco se un sedicente politico teneva un comizio o un artista di strada si esibiva nei giardini del Louvrey, e poi canticchiava e ballava facendo svolazzare sotto il naso della gente i suoi assurdi abiti pieni di raso e tulle e colori pungenti. Per tutti quelli erano solo i goffi gesti di una vecchia partita di cervello. Ma non per me.Io sapevo bene da dove arrivavano quelle mosse disordinate, quel dimenìo scomposto delle anche, quegli spasmi di braccia ormai arrugginite.
Un tempo lei era la Perla del Crazy Horse.
Era il settembre del 1952 e io avevo appena compiuto 19 anni. Come tanti giovani di allora che erano scampati alla guerra avevo una gran voglia di darmi da fare, ma non nella mia città, dove sarei stato destinato alla fabbrica, come mio padre. Io preferivo andare lontano a fare esperienze nuove e anche un po ‘di fortuna. C’era tanto da ricostruire ovunque in Europa e io avevo tutti i giovani numeri per farcela: ero, forte e pieno di entusiasmo, ma senza quell’istinto patriottico che teneva legati i miei coetanei all’Italia. Volevo vedere un poco di mondo e quello era il momento. Così un mattino, all’alba, diedi un bacio a mia madre e una stretta di mano a mio padre e salii sul treno che mi avrebbe condotto a Parigi. Non che avessi in testa proprio Parigi, ma lì viveva uno zio che aveva da poco rilevato una pasticceria in Avenue George V, nell’ottavo arrondissement, e aveva bisogno di un garzone per pulire e per fare le consegne. Devo ammettere che le pulizie non erano proprio il mio forte, soprattutto perché non ero andato nella capitale del “puoi-fare-ciò-che-vuoi-se-lo-vuoi” per strofinare vetri e lavare piatti; il mio forte era invece saltare sulla bici e volare in giro per la città con la mia magica cassetta da asporto piena di leccornie, ufficialmente a consegnaresaint honorè , croissant ed èclair a signore ben vestite ea ristoranti ben arredati, ma ufficiosamente e riempirmi gli occhi e lo spirito di eleganza, eccesso e imprevedibilità. Tutto ciò che faceva grande Parigi .
Lavorai nella pasticceria fino al 1958 e fu in quell’anno che divenne nostro cliente il proprietario del Crazy Horse, a soli due passi dal nostro negozio, tanto vicino che ci potevo andare a piedi. Il Crazy Horse era qualcosa di straordinario, di inimmaginabile e di irrinunciabile, soprattutto per un giovanotto come me, ancora pieno di ormoni ballerini e con molte carte da giocarsi. La prima volta che ci andai fu come entrare in un carosello, e da quel momento la mia vita subì uno scossone.
Mio zio si era raccomandato che passassi dalla porta sul retro e che consegnassi di persona al nostro stimato cliente il suo spuntino delle 18:00: un croissant alla francese, senza marmellata e con doppio burro, due calissonricoperti di glassa e una cioccolata calda con panna. Monsieur Alain Bernardin aveva un appetito insaziabile, soprattutto per ciò che era molto dolce, e questo comprendeva anche e soprattutto il gentil sesso: amava le donne e le donne amavano lui e non smettevano di girargli intorno, come tante api intorno all’unico fiore rimasto sulla Terra dopo un cataclisma. Dal canto suo Bernardin le lusingava, le faceva ridere, le seduceva e aveva deciso di farne le regine del suo locale, dove loro si spogliavano prima che per il pubblico proprio per lui. Sì, perché il Crazy Horse non era altro che un locale di spogliarelli alla maniera americana, intervallati da pause musicali o umoristiche, aperto sette giorni su sette e sempre affollatissimo. A frequentarlo erano per lo più uomini di mezza età, ma anche le donne non disdegnavano lo spettacolo che,
Quel pomeriggio arrivai con un po ‘di anticipo e trovai la porta sul retro spalancata.
Mi sistemai il papillon della divisa e il berrettino bianco da garzone di pasticceria, imbracciai la scatola delle consegne e con un po ‘di timidezza mi accinsi ad entrare. La prima cosa che mi colse fu una confusione di voci e di note musicali: gente che rideva, gente che urlava, gente che cantava. Quando trovai il coraggio di mettere il naso dentro, fui letteralmente fagocitato dalla magia del Crazy Horse: tre signorine a seno nudo e calze di rete, che parlottavano in una lingua incomprensibile, mi intrappolarono fra loro, una mi diede un buffetto sulla guancia e l ‘altra mi mandò un bacio, poi scapparono via. Subito dietro di loro ne arrivarono altre quattro, coperte di piume svolazzanti su un costumino succinto, e io ero già belle che partito per il mondo dei sogni. A farmi alla realtà furono due uomini in tuta da lavoro intenti a spostare un tavolo: mi diedero uno spintone e urlarono che facessi loro spazio. Corsi a rifugiarmi in un angolo, nascosto da una tenda, nella speranza di intravedere qualche altra ballerina seminuda e nel tentativo di schivare tutti i figuri, più o meno stravaganti, che affollavano il dietro le quinte: un vorticare eccitante di colori e paillettes, di cilindri, di mustacchi e di tacchi schioppettanti; si parlava, si rideva, si canticchiava. Ero lontano anni luce dalla vita tranquilla che avevo lasciato in Italia, e mi piaceva un sacco. Un tizio bassino con baffetti, giacca e cravatta, che dava ordini a destra ea manca, si accorse di me: nella speranza di intravedere qualche altra ballerina seminuda e nel tentativo di schivare tutti i figuri, più o meno stravaganti, che affollavano il dietro le quinte: un vorticare eccitante di colori e paillettes, di cilindri, di mustacchi e di tacchi schioppettanti; si parlava, si rideva, si canticchiava. Ero lontano anni luce dalla vita tranquilla che avevo lasciato in Italia, e mi piaceva un sacco. Un tizio bassino con baffetti, giacca e cravatta, che dava ordini a destra ea manca, si accorse di me: nella speranza di intravedere qualche altra ballerina seminuda e nel tentativo di schivare tutti i figuri, più o meno stravaganti, che affollavano il dietro le quinte: un vorticare eccitante di colori e paillettes, di cilindri, di mustacchi e di tacchi schioppettanti; si parlava, si rideva, si canticchiava. Ero lontano anni luce dalla vita tranquilla che avevo lasciato in Italia, e mi piaceva un sacco. Un tizio bassino con baffetti, giacca e cravatta, che dava ordini a destra ea manca, si accorse di me: Ero lontano anni luce dalla vita tranquilla che avevo lasciato in Italia, e mi piaceva un sacco. Un tizio bassino con baffetti, giacca e cravatta, che dava ordini a destra ea manca, si accorse di me: Ero lontano anni luce dalla vita tranquilla che avevo lasciato in Italia, e mi piaceva un sacco. Un tizio bassino con baffetti, giacca e cravatta, che dava ordini a destra ea manca, si accorse di me:
«Ehi, tu, lì dietro!»
“Dice a me, monsieur ?”
« Oui, è evidente ! Vieni qui, vite ! »
Uscii dal mio nascondiglio e timidamente mi avvicinai all’omino dribblando un tizio che trasportava un sassofono e una donna che si affannava a inseguire una ragazza in rosa sventolando un metro da sarta.
«Sei quello della pasticceria?»
” Oui, monsieur .”
«E cosa c’è qui?» alzò il coperchio della scatola e il profumo di vaniglia gli inondò la faccia, «Non capisco perché quel benedetto uomo non ceni come tutti gli altri all’ora di tutti gli altri, invece di spendere un patrimonio in dolci e dolcetti che tolgono l’appetito . Per non parlare poi del conto del dentista e del medico quando avrà carie e diabete che lo divoreranno! »
L’ometto si asciugò i sudori e poi aggiunse:
«Il signor Bernardin è di sopra. Vite, vite ! »
Mi indicò una scaletta che portava ad una specie di soppalco e poi mi abbandonò e si mise a tracciare frenetici segni e numeri su un quadernetto, continuando a detergersi la fronte di tanto in tanto e lanciando occhiatacce a chiunque. Io mi concentrai sulla scala, che era ripida e stretta, di ferro battuto e per nulla confortante, specie per me che, dall’alto del mio metro e ottantacinque, non ero proprio un fantasmino: con una mano sorreggevo la scatola porta vivande e con l’altra avevo agguantato il corrimano e mi tenevo saldo mentre cercavo di piegare al massimo le ginocchia di lato per riuscire a salire. Mentre ero a metà della mia difficoltosa impresa, la porta in cima alle scale si spalancò improvvisamente e sul piccolo pianerottolo apparve un uomo che blaterava qualcosa e dimenava le mani, ma non sembrava veramente arrabbiato,
Non capivo nulla, visto che il mio francese era ancora molto stentato, ma mi accorsi che quella finta piazzata era diretta verso l’interno della stanza da cui era uscito, nella quale doveva esserci qualcuno che aveva combinato qualcosa che non gli andava a genio. L’uomo fece una pausa e si appoggiò con entrambe le mani al balconcino che era il proseguo della scala alla quale ero abbarbicato.
Si accorse di me e mi urlò:
« Et tu? qui es-tu? »
«Sono della pasticceria all’angolo… ho portato lo spuntino per monsieur Bernardin.»
« Oh, très très bien ! Che almeno qualcosa oggi vada per il verso giusto. Sali, ragazzo! »
Io cercai di affrettarmi, ma la paura di cadere mi frenava i muscoli. Ad ogni modo, sotto gli occhi impazienti dell’uomo, arrivai in cima e porsi il portavivande. L’uomo lo aprì e agguantò un croissant , divorandolo in pochi secondi. Io rimasi di sasso e sul mio volto si dipinse certamente un’espressione di puro terrore: se quello non era Bernardin ero spacciato! Mentre dentro di me escogitavo un modo veloce per sincerarmene, una voce femminile si fece largo dall’interno della stanza e fugò ogni mio dubbio:
«È proprio vero che gli uomini si guarda per le palle o per la gola. E tu, Alain, non fai eccezione. »
Alain … Alain Bernardin! Ero salvo. Il cuore riprese a battere e ridivenni padrone del mio corpo che prima si era irrigidito come il manico di una scopa.
Ripensandoci, alto e magro com’ero e con indosso la giacca sformata della pasticceria, proprio ad un manico di scopa dovevo assomigliare, e quella fu la prima immagine che, mio malgrado, diedi di me.
Ma in quel momento non ci pensai e la prima cosa che feci con il mio colloquio nuovamente in attività fu di voltarmi e guardare a chi appartenesse la meravigliosa voce. E la vidi: una giovane se ne stava appoggiata ad una scrivania con le gambe incrociate davanti a sé e un sorriso meraviglioso sul viso. Portava i capelli neri sciolti a coprirle le spalle e indossa un abito rosso con uno spacco che poco lasciava all’immaginazione. Notai che era scalza. Il signor Bernardin mi sottrasse dalla mia contemplazione:
«Zitta, tu! Sono ancora arrabbiato con te. »
«Oh, davvero? E allora che cosa vorresti farmi? » rispose la donna, staccandosi dalla scrivania e avanzando verso di noi. L’uomo afferrò la tazza di cioccolata calda e cominciò a sorseggiare. La ragazza gli si accostò e affondò un dito nella tazza, con un fare molto intrigante, poi mi guardò e mi sorrise, mentre portava la punta del dito coperto di panna alla bocca. Nella mia non c’era più saliva. La domanda che seguì mi annientò del tutto.
«Questo cattivaccio non vuole farmi ballare perché dice che le mie bocce sono troppo grosse per il Crazy Horse e mentre mi muovo tolgono la scena alla mia voce. Tu che ne pensi, mon petit bonbon ? – e così dicendo si scostò i capelli e si prese i seni tra le mani e li strizzò verso di me. Poco ci mancò che perdessi i sensi: quelli erano i due seni più belli che avessi mai visto.
” Alors ?” mi incalzò, «credi anche tu che dovrei coprirle?»
«Credo che lei abbia un petto straordinario, signorina, e io userei senz’altro le sue misure per tutte le ballerine del locale. Non un centimetro di meno. »
Il signor Bernardin staccò le labbra dalla tazza e mi fissò.
«Spiegami» disse incuriosito mentre la ragazza sembrava lusingata.
«Credo… credo che i seni della signorina siano della misura giusta, ecco tutto. Né troppo grandi da sembrare pretenziosi, né troppo piccoli da sembrare insignificanti. »
Non so come mi venne in mente di dire ciò che dissi, ma pressato dall’interrogatorio di Bernardin ripensai alle parole che semper, ogni giorno, ripeteva mio zio Antonio in pasticceria parlando dei suoi macarons perfetti: “né troppo grandi da sembrare pretenziosi, né troppo piccoli da sembrare insignificanti ”. Macarons o seni, era sempre e solo questione di giuste proporzioni, e la filosofia del giusto mezzo di zio Antonio doveva essere piaciuta da impazzire al signor Alain Bernardin, perché posò la tazza, mi mise le mani sulle spalle e mi disse con tono che non ammetteva repliche:
«Tu, garçon , devi lavorare per me al Crazy Horse.»
«Ma… ma io ho già un lavoro…» replicai sommessamente.
«E portare croissant à travers la ville me lo chiami lavoro? No, tu devi lavorare per me, qui! »
«E cosa dovrei fare esattamente? Stare in cucina? »
« Mais no ! Tu devi prendere le misure alle ballerine. Sono Convinto Che Uno sguardo venire Il Tuo Possa Essere molto Adatto, surtout per attirare qui un Pubblico Più Giovane e Più moderno. Donc ? Che ne dici? »
Ero imbambolato, non sapevo né cosa pensare né cosa dire: nel giro di pochi istanti la vita mi aveva catapultato in una avventura straordinaria che era pronta ad accogliermi… un’avventura con molte incognite, tuttavia, mentre il lavoro al forno era sicuro e soprattutto “Normale”… possibile che sul libro paga di qualcuno ci fosse la voce “misuratore di seni femminili”? forse no, e allora avrei potuto inaugurarlo proprio io oppure quel signor Bernardin si sarebbe svegliato il giorno dopo e avrebbe capito che quella idea era del tutto assurda …
« Mon petit trésor , che cosa decidi?» la voce della ragazza mi riportò alla realtà.
«Lascialo stare. Sono sicuro che stanotte ci dormirà su e domani verrà a dirmi che accetta, vero garçon ? »
La ragazza mi si avvicina con delicatezza, si levò sulle punte dei piedini e mi diede un bacio sulla guancia mentre io mi piegavo verso di lei, poi sgusciò giù dalle scale e si confuse nel trambusto generale. Io la guardai scendere, osservai le sue forme aggraziate, i suoi capelli ondeggianti e in quell’istante capii che niente e nessuno mi avrebbe impedito di lavorare al Crazy Horse. Promisi al signor Alain Bernadin che ci avrei pensato e mi congedai da lui. Ero già in procinto di ridiscendere lungo la scaletta maledetta, per fortuna alleggerito dello spuntino che il mio cliente si era sbafato senza colpo ferire, quando mi venne in mente una cosa della massima importanza:
«Mi perdoni, monsieur Bernadin, ma… come si chiama la ragazza?»
Bernardin si lasciò sfuggire una sonora risata e mi disse:
«Attento, garçon , quella là morde e lascia il segno.»
«Sì, ma… il suo nome?»
«Deve averti colpito molto, eh?» e mi studiò con attenzione, mentre io rimanevo serio «del resto fa questo effetto a tutti la prima volta… Perle, si chiama Perle.»
Ringraziai, salutai e scomparvi. Lungo la strada del ritorno, camminai piano per avere il tempo di meditare: non sapevo dirmi se ad attrarmi di più fosse la voglia di un improbabile lavoro in un ambiente tanto straordinario oppure solo il forte desiderio di stare accanto alla ragazza dai lunghi capelli neri.
Di una cosa ero certo: la Perla del Crazy Horse mi aveva stregato per sempre.
Due settimane dopo ero sul libro paga di monsieur Bernardin alla voce “aiuto dell’aiuto regista”, l’unica che monsieur Monroe, l’agitatissimo contabile del Crazy Horse che mi aveva dato il benvenuto il primo giorno, aveva scovato per evitare di scrivere “Misuratore di seni femminili”. Scoprii tuttavia che quel “lavoro” esisteva già altrove e che a Hollywood era anche pagato profumatamente, ma a Parigi era ancora poco più che una novità, sebbene io avessi la ferma intenzione di farlo diventare un impiego di tutto rispetto, uno di quelli da tramandare , non prima di aver superato qualche imbarazzo. In effetti, per uno come me che, alla veneranda età di 19 anni, le ragazze le aveva sempre viste solo vestite, misurare seni nudi e cosce e fianchi senza veli non era proprio una passeggiata. Si era stabilito con il signor Bernardin una vera e propria geometria per le ballerine, per le cantanti, per le aiutanti del mago e per la valletta del comico: altezza delle gambe due terzi del busto, distanza tra i capezzoli 21 centimetri, distanza tra l ‘ombelico e il pube 13 centimetri. Il mito del 90/60/90 era concretizzabile solo per le attrici che recitavano i monologhi melodrammatici e che non dovevano dimenarsi troppo potendo permettersi quindi le misure da “maggiorate”, che invece imperversavano nel cinema, sull’esempio di Brigitte Bardot e Marilyn Monroe . E visto che al Crazy Horse c’era sempre molto ricambio, io ogni settimana misuravo e pesavo; valutavo inoltre la camminata, la postura, la dimestichezza con la scena e l’armonia del corpo nel suo insieme. Durante le prime “sedute” mi rivelai irrimediabilmente impacciato, come uno scolaretto al suo primo giorno di scuola: non osavo avvicinarmi e, se la mia mano sfiorava la pelle della signorina che stavo valutando, il mio volto si infuocava e le mie dita si irrigidivano. Per fortuna le ragazze, poiché temevano di perdere il posto o di non ottenerlo affatto, erano sempre carine con me e mi tenevano la mano oppure si misuravano da sole, alleggerendo il mio carico di stress.
Quando non avevo lavoro, allora facevo quello per cui ero stato segnato sul libretto di monsieur Moreau: aiutavo nell’allestimento degli spettacoli, collaboravo alle scenografie e qualche volta tornavo a distribuire cognac e croissant. Ma non li acquistavo da mio zio Antonio, che, dopo aver saputo che avevo intenzione di lasciarlo per andare a lavorare “tra prostitute e pervertiti”, mi aveva minacciato di farlo sapere ai miei in Italia, così mia madre sarebbe morta di crepacuore e mio padre mi avrebbe diseredato rimpiangendo il bell’operaio metalmeccanico che avrei potuto essere. Io me ne ero andato comunque dalla pasticceria “Chez Antonio”, dicendomi che con i miei vecchi me la sarei vista quando fossi tornato a casa per le feste, se mai fossi tornato.
E se tutto al Crazy Horse andava liscio e io ero felicissimo del mio inusuale impiego, con Perle le cose erano davvero difficili. Devo ammettere che, quando l’avevo vista la prima volta, mi ero fatto un’idea di lei che col tempo si sarebbe rivelata del tutto sbagliata: pensai sì che fosse splendida e che aveva il corpo più bello che avessi mai visto, ma anche che fosse una di quelle civettuole che fanno girare la testa agli uomini e poi se li pappano con le ossa e con tutto il pelo; ero anche convinto che frequentasse il letto di monsieur Bernardin, come la metà delle ragazze che lavoravano al Crazy Horse, e che i loro battibecchi fossero solo delle schermaglie sentimentali, dei giochini tra amanti. Soprattutto mi dicevo che mai, nemmeno in un’altra vita, avrei potuto avere anche solo una speranza con lei: ero troppo alto, troppo povero,
Lei si esibiva solo il martedì, il sabato e la domenica, per non assuefare il pubblico, diceva Bernardin, anche se nelle sue serate c’era sempre il tutto esaurito e la gente faceva la coda al botteghino dalle cinque del pomeriggio per avere i posti davanti al palco. Per me quelle serate erano speciali e facevo di tutto per essere in sala quando lei cantava: Perle aveva la voce di un usignolo, le note le uscivano dalla bocca come fossero diamanti, con la piacevolezza di un vento primaverile e la freschezza dell’acqua di una sorgente. Era dannatamente brava anche a danzare, con grazia e leggerezza, e il suo corpo si muoveva con una morbidezza che aveva dell’incredibile. Perle, che si esibiva a metà spettacolo e poi se ne andava sempre alla chetichella, senza quasi salutare. Mi avevano detto che abitava oltre Place de la Concorde, ma nessuno era mai stato a casa sua, forse solo Bernardin che, anzi, si diceva le avesse addirittura comprato lui l’appartamento in cui stava come premio per le sue prestazioni. Io, scemo com’ero, credevo a tutto quel che mi propinavano, non pensando nemmeno per un minuto che forse si erano inventati ogni singola parola solo perché avevano capito quanto tenessi a quella ragazza. E tanto prendevano in giro me quanto odiavano lei, che era migliore di loro in molti sensi, anche se io ancora non lo sapevo. non pensando nemmeno per un minuto che forse si erano inventati ogni singola parola solo perché avevano capito quanto tenessi a quella ragazza. E tanto prendevano in giro me quanto odiavano lei, che era migliore di loro in molti sensi, anche se io ancora non lo sapevo. non pensando nemmeno per un minuto che forse si erano inventati ogni singola parola solo perché avevano capito quanto tenessi a quella ragazza. E tanto prendevano in giro me quanto odiavano lei, che era migliore di loro in molti sensi, anche se io ancora non lo sapevo.
La Perla del Crazy Horse aveva 20 anni ed era famosa in tutta Parigi, tanto famosa che duettò persino con il grande Charles Aznavour ai suoi esordi come cantante. Forse anche lei avrebbe potuto sfondare, ma non avrebbe mai potuto lasciare il suo nido, lì all’ottavo arrondissement, perché non era Bernardin a possederla, ma il Crazy Horse. Io questo lo capii una notte, quando, dopo una sua esibizione, feci la più colossale figura da imbecille che la storia del genere umano possa ricordare.
Era il dicembre del ’59 e io lavoravo al Crazy Horse da un anno facendo la triste vita dell’innamorato desolato. Ovviamente non avrei dovuto sforzarmi troppo per avere una donna che scaldasse le mie notti parigine, perché ero diventato molto bravo nel mio lavoro e passavo per essere un gentiluomo dalle mani vellutate, discrete e precise: in poche parole, trattavo le ragazze del Crazy Horse come delle principesse, le rispettavo, e questo le faceva impazzire di passione per me. Ma io non riuscivo ad approfittarne perché, nella mia testa bacata, mi sembrava tradire lei, la Perla del Crazy Horse, che continuava in ogni caso a preferirmi il nostro comune datore di lavoro. Il mio aplomb da verginello impenitente piaceva ancora di più alle ragazze delle mie mani, mentre sembrava allontanare Perle, che credo avesse di me una bassissima opinione,
Comunque quella sera il pubblico, aveva iniziato a defluire in fretta, subito dopo il numero di chiusura, perché fuori imperversava una nevicata storica. Le ragazze se ne andarono affondando le loro belle scarpette nella neve ed emettendo gridolini; vidi sgattaiolare fuori anche monsieur Bernardin con una nuova che fece salire sulla sua auto imprecando contro le strade inzaccherate, e io pensai che almeno quella notte Perle non sarebbe stata sua. Quando anche monsieur Moreau ebbe lasciato il Crazy Horse, mi infilai il pastrano e feci l’ultimo giro di ispezione: da un po ‘di tempo ero io a chiudere il locale. Sospettavo che il giorno dopo sarebbe stato giorno di chiusura forzata a causa della neve straordinaria, quindi,non dovendomi alzare presto, me la presi comoda e feci le cose per bene.
Ogni locale era immerso nel buio e nel silenzio, e non sembrava vero che fino a una mezz’ora prima divampasse di musica e di applausi. Sprangai le tre porte dell’ingresso da dentro, poi percorsi il corridoio che costeggiava il salone degli spettacoli e finii il mio giro dietro le quinte. Non mi restava che controllare il locale caldaia e poi sarei stato libero. Ero vicino all’uscita sul retro, proprio davanti alla scala di ferro del primo giorno, con il mazzo di chiavi in mano e pronto ad andarmene, quando un rumore catturò la mia attenzione. Proveniva da uno dei camerini. MI stupii perché di solito erano chiusi a chiave quando le ragazze se n’erano andate e quindi pensai fosse meglio controllare: era già successo che un ubriacone si fosse infilato in uno stanzino di cianfrusaglie per passare la notte al riparo e che poi la mattina iniziasse con le urla delle donne delle pulizie che cercavano di farlo sloggiare a suon di ramazzate sulla testa. Agguantai una torcia dal vano oggetti dei macchinisti, mi avvicinai piano alla porta, tesi l’orecchio ma non udii nulla: forse mi ero sbagliato ma era meglio sincerarsene, così girai pianissimo il pomello ed entrai: un veloce stropiccio raggiunse le mie orecchie tese, come se un serpente fosse strisciato rapidamente sotto delle lenzuola.
Puntai la torcia e cominciai a scorrere il fascio di luce ovunque: tavolini, trucchi, specchi, seggiole, asciugamani, parrucche e poi, ecco! Su uno dei lettini che monsieur Bernardin aveva fatto sistemare affinché le ragazze, tra uno schetch e l’altro, potessero riposarsi, le coperte si mossero.
«Chi è là? – chiesi con un leggero tremore nella voce – fatti vedere o chiamo i gendarmi! »
Non staccai la luce dalle coperte, che molto lentamente scesero sotto la spinta di due piccole mani facendo comparire un volto che conoscevo fin troppo bene: Perla!
«Abbassa la luce, s’il te plait !» mi pregò debolmente.
Ero completamente spiazzato: chiunque mi sarei aspettato tranne lei. Obbedii immediatamente ea tentoni cercai della lampada a piede che stava poco lontano da me e lo feci scattare. La stanzetta fu inondata da una luce morbida e calda e il volto di Perle mi apparve come non lo avevo mai visto: era senza trucco ed ancora più meraviglioso. Lei si sedette sul lettino e notai che indossava una camicia da notte di flanella. Teneva gli occhi bassi.
«Che ci fai ancora qui?» mi chiese con un filo di voce.
«Stavo facendo il giro di ispezione.»
«Non sei mai venuto nei camerini le altre sere.»
«Ho sentito un rumore. Da quanto tempo dormi qui, Perle? »
«Da tre mesi.»
Ero sconcertato. Sgombrai una sedia da una vestaglia e mi sedetti. Rimanemmo un po ‘in silenzio. Poi pronunciai le mie famose parole da imbecille.
«Credevo avessi un appartamento a Place de la Concorde.»
«Sì, quello che mi ha regalato il mio amante, suppongo.» Perle continuava a non guardarmi, ma colsi una nota di sconforto nelle sue parole.
«Cosa è successo? Vuoi dirmelo? »
Sulle guance della mia adorata presero a scorrere copiose e silenziose lacrime. Non sapevo che fare, avrei voluto prenderla fra le braccia, consolarla, ma mi resi conto che non sarebbe stata la mossa giusta, così mi limitai ad attendere. Perle tirò su con il suo bel nasino, si pulì il viso con il lenzuolo e poi mi parlò, come non aveva mai fatto.
«Io mi chiamo Isabelle.»
«Un nome bellissimo» fu l’unica cosa scontata e ottusa che riuscii a dire, ma era vero. Terribilmente vero.
«Perle, è solo il nome d’arte, che sembra essere più adatto al lavoro che faccio, un po ‘come Marghitte de la Fontaine o Rose Aimable. E non sono l’amante di Alain, non lo sono mai stata. Oh, non che lui non ci abbia provato… Solo che io non sono una di “quelle”, non so se capisci. »
Capivo benissimo, capivo di essere un gigantesco imbecille. Punto.
«Mi ha trovata tre anni fa che facevo la spogliarellista a Pigalle. Alain ogni tanto andava a Pigalle nei primi tempi, quando il Crazy Horse non era ancora nemmeno aperto, per reclutare ballerine del mestiere, che sapessero far girare la testa ai clienti con due mosse. Bon… Non mi pento degli anni di Pigalle, anche se ho fatto cose di cui non vado molto fiera. Ma Pigalle mi ha dato da mangiare quando mia madre è morta e sono rimasta da sola ad occuparmi di mio fratello Pierre, che è tornato dalla guerra con una pallottola piantata nel cranio. Se fosse morto sarebbe stato meglio, invece è vivo e col cervello spappolato. Non mi riconosce più, grugnisce soltanto e sbava tutto il tempo, mon petit coeur . »
Dio quanto ero stato superficiale ad essere geloso di Alain! Non ero certo meglio di lei: Perle almeno aveva fatto quel che aveva fatto per necessità. Io ero gratuitamente stupido.
«Quando Alain mi vide ballare si invaghì di me, e me lo disse. Mi pregò di seguirlo nella sua nuova avventura: aprire un locale come quello che aveva visto in America, pieno di ballerine e di artisti straordinari, che potrebbe fatto scalpore tra i parigini. Il suo entusiasmo mi contagiò e lo seguii, mettendo bene le cose in chiaro fra noi: avrei frequentato il suo palco, ma non i suoi clienti e neppure la sua camera da letto. Alain ci rimase maschio, ma capì. È così buono con me,
très agréable, e se non fosse che ogni tanto mi dà pacche sul culo, non sbaglierei a dire che mi fa da padre e madre insieme. Anche adesso… »
Sapevo che stava per spiegarmi perché dormiva nei camerini dietro al palco, così le dissi che non mi doveva spiegare nulla, che erano solo affari suoi e che avrei tenuto la bocca chiusa. Ma lei insistette:
«No, mon chère, voglio che tu sappia, se non altro perché forse, sapendo, non darai più retta alle male lingue.»
Quella fu la prima di alcune fucilate al cuore che mi raggiunsero durante in nostro breve colloquio.
«Dormo qui al Crazy Horse perché lo stipendio che mi dà Bernardin non mi basta più. La clinica in cui sta mio fratello chiede altri soldi e non posso più permettermi di pagare l’affitto. »
«Ma il capo sa della tua situazione? Sa che dormi qui? »
«Se lo sapesse insisterebbe per darmi del denaro, per aumentarmi lo stipendio.»
«E allora? Che c’è di male? Un padre fa questo. »
«Ma lui non è mio padre, e io non voglio avere debiti con nessuno, nemmeno con lui, non più!»
Perle si scaldò e io capii di aver toccato un nervo scoperto. Tornò calma quasi subito.
«Ti prego, mon coeur , non dire a nessuno che mi hai vista qui.»
«Non lo farò, te lo prometto. Ma dimmi vieni posso aiutarti. »
«Non puoi e non devi. Rifiuterei anche il tuo aiuto, perché tu non sei diverso da tutti gli altri. Ti ho visto parlare con le altre ballerine e ho visto i vostri sguardi. Ma non importa, sei così giovane e charmant, tutto ti è concesso. Mi avrebbe fatto piacere qualche tuo complimento, ma certo non si tocca la donna del capo… »
Arrivò anche la seconda fucilata: aveva ragione, non ero diverso da tutti gli altri. L’avevo giudicata senza nemmeno concederle il beneficio del dubbio, e lei se n’era accorta e ora pretendevo che si fidasse di me. Non c’erano parole da aggiungere, non aveva più senso parlare. Ora dovevo solo tacere, quella era l’unica cosa che mi aveva chiesto e che dovevo fare. La donna che avevo conosciuto quella sera era Isabelle, l’indomani sarebbe tornata Perle, con la facciata di una strafottente e ammagliante francesina in punta di tacco, che mi avrebbe guardato e avrebbe visto un altro uomo mediocre. Ma io non potevo permetterlo e mentre mi avventuravo nella neve, con il collo del pastrano sollevato e la testa bassa, decisi che le avrei fatto cambiare idea sul mio conto; che mi sarei fatto perdonare le basse insinuazioni a cui avevo dato credito. Insinuazioni con cui mi ero creato un alibi per la sua ritrosia nei miei confronti, la stessa ritrosia che io, da perfetto cretino, avevo causato e alimentato ignorandola e trattandola con distacco. Alla fine dei conti ero solo uno stupido maschio toccato nella sua virilità, illuso e respinto, che si sentiva tradito e che non aveva capito nulla. Ma potevo essere migliore di così, non avevo tagliato i ponti con il mio Paese e con la mia famiglia per venire a Parigi e comportarmi da sciocco ottuso. E poi c’era una cosa che non potevo più ignorare: io amavo quella ragazza, e avrei fatto di tutto per farmi amare da lei. Alla fine dei conti ero solo uno stupido maschio toccato nella sua virilità, illuso e respinto, che si sentiva tradito e che non aveva capito nulla. Ma potevo essere migliore di così, non avevo tagliato i ponti con il mio Paese e con la mia famiglia per venire a Parigi e comportarmi da sciocco ottuso. E poi c’era una cosa che non potevo più ignorare: io amavo quella ragazza, e avrei fatto di tutto per farmi amare da lei. Alla fine dei conti ero solo uno stupido maschio toccato nella sua virilità, illuso e respinto, che si sentiva tradito e che non aveva capito nulla. Ma potevo essere migliore di così, non avevo tagliato i ponti con il mio Paese e con la mia famiglia per venire a Parigi e comportarmi da sciocco ottuso. E poi c’era una cosa che non potevo più ignorare: io amavo quella ragazza, e avrei fatto di tutto per farmi amare da lei.
La fortuna aiuta gli audaci, e qualche volta pure gli imbecilli, per cui la mia occasione giunse, anche se non subito, purtroppo. Nei mesi che seguirono a quel dicembre infernale, i miei rapporti con Isabelle furono nulli e pochissimi quelli con Perle. Se prima si divertiva a stuzzicarmi ea lanciarmi battutine, ora a mala pena mi salutava, semper con quel velo di vergogna negli occhi che mi faceva odiare me stesso più di quanto potessi sopportare. Dal canto mio, mi leccai le ferite e partii in quarta per ricostruire la mia reputazione con lei: le procurai coperte calde per la notte e un cuscino soffice, e la sera, dopo gli spettacoli, non permisi più a nessuno di chiudere il Crazy Horse al posto mio. Per i giorni in cui Perle non si esibiva, le avevo allestito un piccolo rifugio nello scantinato, dove non scendeva mai nessuno, perché era freddo e sporco, almeno prima che lo trasformassi in un luogo abbastanza accogliente dove la Perla del Crazy Horse poteva trascorrere le sue giornate senza rendere conto del momento difficile che stava attraversando. Tutte queste novità gliele riferivo attraverso dei biglietti che lasciavo disseminati in alcuni punti silenziosamente convenuti: dentro le sue calze, sotto il suo maquillage, accanto al cuscino, sperando ogni volta che accettasse il mio aiuto, anche se aveva dichiarato di non volerlo. Ma lo accettò, sempre, solo perché le era indispensabile, lo so bene, non perché mi avesse perdonato. Andava bene così. Mi prendevo cura di lei, ma soffrivo nel vederla vivere la vita di un criceto in gabbia: di giorno una artista acclamata, di notte una donna disperata e povera. E io che dovevo andarci piano,
Finalmente giunse anche per me un’opportunità, e io la colsi, caspita se la colsi!
Nel 1960, mentre tutta la Francia faceva i conti con una profonda crisi politica, si combatteva in Algeria e si temeva che prima o poi una bomba atomica scoppiasse anche in questa parte del mondo, al Crazy Horse sbarcò la Nouvelle Vague, ma non quella delle pellicole di Truffaut, Rivette e Chabrol, ma quella più teatrale di monsieur Bernardin: il nostro capo si era appassionato alla nuova ventata di realismo che imperversava nelle sale cinematografiche parigine, in particolare dei diaporami di Chris Marker, le cui fotografie amava proiettare sullo sfondo del palco del Crazy Horse mentre una voce fuori campo raccontava qualche strana avventura e le ragazze interpretavano la scena ballando e mostrando realistiche natiche e veridicissimi turgidi capezzoli. Subito dopo fu la volta della Pop Art e di altre stravaganze, alle quali io stesso mi appassionai: mi diedi a frequentare cinema e teatri nelle mie ore libere; studiai in biblioteca, parlai con registi e attori, e prendevo appunti e disegnavo e riempivo la mia casa di schemi e ritratti e stralci di sceneggiature.
Non che fossi un artista della penna in nessun campo, ma una cosa non mi era mai mancata: la voglia di imparare e di cimentarmi con le novità. Cosa che condivide con lo stesso Bernardin, il quale, al pari mio, non si stancava di farsi pioniere delle nuove tendenze culturali, che molti soldi portavano nelle casse del Crazy Horse ma poche nelle tasche degli artisti che ci lavoravano e dei macchinisti e delle sarte e anche delle mie. Il malcontento prese a serpeggiare tra il personale, a cui si chiedeva di imparare sempre nuovi passi, fare le ore piccole, dimenticare il giorno di riposo, cimentarsi con sperimentazioni di cui si sapeva ancora poco e con cui era facile prendere cantonate e infradiciare la propria reputazione. Io ero l’unico a cui tutta questa frenesia non pareva fare che bene, ma gli altri ressero solo per un altro po ‘, e poi,
Quel giorno io arrivai al locale piuttosto presto, intorno alle cinque del pomeriggio, e dietro le quinte non trovai nessuno, cosa insolita in quei giorni di prove frenetiche, quindi percepii subito che qualcosa non quadrava. Udii delle voci provenire dalla sala centrale, le seguii e grande fu la mia sorpresa nel constatare che erano tutti lì, seduti ai tavoli della clientela, qualcuno appollaiato sul palco, a parlottare. Mi avvicinai e Mariska, una delle cantanti, che mi diede il benvenuto alla inusuale riunione:
«Sei in ritardo.»
«Per cosa?» chiesi io piuttosto stupito.
«Vogliamo ribellarci.»
«E com’è che io non ne sapevo niente?»
«E che ne so io? sei sempre con la testa fra le nuvole ultimamente »e guardò in direzione di Perle, la quale, dal capo del salone, appena misi piede nel consesso, si ammutolì. Mariska sapeva del mio affanno sentimentale, glielo avevo confidato una sera, ma di lei mi fidavo e in effetti non ebbi mai a pentirmene.
Le chiesi di farmi un riassunto: in poche parole, si voleva parlare al capo per chiedere un ridimensionamento dell’orario e delle proposte in cartellone, e soprattutto un aumento di stipendio, visto che gli affari andavano bene.
«Non riusciamo a stare dietro a ogni capriccio di Bernardin» diceva uno.
«Io non faccio in tempo a imparare un numero che me ne appioppa altri due per la sera successiva» diceva un altro. E proseguirono così, a raffica, variegando tra la certezza che il capo fosse un esaltato alla convinzione che fosse del tutto impazzito. La confusione regnava sovrana, tutti si parlavano sopra e non sembrava ci fosse nessuno a dirigere; si sapeva chiedere ma non come chiederlo: Bernardin era una mina vagante, un minuto prima il miglior datore di lavoro che si poteva avere, e l’attimo dopo un pazzo iracondo stronzo fino alle midolla. C’era in ballo molto e nessuno sembrava volersi accollare il rischio di farsi avanti con il principale e con il suo spietato contabile, sebbene tutti sentissero impellente l’esigenza di frenare il ritmo o per lo meno di avere un riconoscimento economico maggiore.
Osservai Perle, che non proferiva parola, se ne stava raggomitolata in un angolo, avvolta da una coperta sgualcita, e ascoltava tenere gli occhi bassi: sapevo che a lei un aumento di stipendio avrebbe fatto comodo, ma in quel momento non avrebbe detto nulla, a meno che io non me ne fossi andato. Ma io avevo un’intenzione del tutto opposta, così salii sul palco e gridai:
«Sciopero!»
In sala cadde il silenzio, tutti mi piantarono gli occhi in faccia e poi si scambiarono sguardi a loro volta, di incredulità. Danton, uno degli addetti alla manutenzione, si alzò e mi indicò con l’indice:
«Sciopero vuole dire licenziamento immediato, non lo sai?»
«Ma è l’unica arma che avremo se Bernardin rifiuterà di ascoltarci. Dovremo minacciarlo con uno sciopero. Non potrà licenziarci tutti. »
«E se lo farà?» chiese una ballerina dall’ultima fila.
«Non lo farà: è all’apice del successo, tutta Parigi parla di noi e quindi non gli converrà perdersi un mese per sostituirci tutti. Per non parlare poi del fatto che siamo tutti insostituibili! » gridai io, convinto. In realtà fra tutti il meno utile ero proprio io, per cui mi ero dato la zappa sui piedi senza pietà. Speravo di aver almeno acquistato qualche punto con Perle.
«Nessuno è insostituibile a questo mondo» mi ribatté con la morte nella voce uno dei registi che stava seduto sotto il palco a pochi passi da me.
«Noi del Crazy Horse lo siamo» dissi con una convinzione che nemmeno io sapevo di avere.
Mi studiarono e nei loro occhi una piccola luce si accese. Spiegai loro che gli artisti del Crazy Horse, i tecnici, i registi, le costumiste e tutti gli altri, funzionavano perché che fossero arrivati prima o dopo, era il gruppo a fare la differenza. Forse una singola ballerina potrebbe essere sostituita, forse un singolo cantante, ma non tutti insieme, perché sarebbe stato come privare la bocca di tutti i suoi denti: non avrebbe più mangiato e il corpo sarebbe morto di fame. Devo dire che il paragone con i denti non fu dei più felici, ma lo compresero e questo era l’importante. Parlottarono fra loro per un tempo infinito, poi Danton si fece portavoce per tutti:
« Donc, ça va ! mais … chi andrà a trattare con monsieur Bernardin? »
«Chi dovrebbe trattare con me di cosa?»
Bernardin era appena apparso nella sala e si stava togliendo i guanti; con lui si presentarono il suo contabile, che abbracciava una cartella gonfiabile di documenti e ci scrutava torvo, e uno sconosciuto, molto distinto, alto e con grandi baffi grigi. Monsieur Bernardin avanzò nella sala.
«Si può sapere che ci fate tutti qui? E tu, garçon , perché sei sul palco? Non dirmi che vuoi metterti a cantare? » e ridacchiò sbottonandosi la giacca.
Tutte le teste si voltarono verso di me: avevano deciso. Toccava a me parlare, e lo feci, qualunque cosa ne fosse derivata.
« Monsieur Bernardin, siamo qui per sottoporle alcune richieste »e con estrema calma parlai e parlai e riassunsi per filo e per segno tutto quello che mi era stato segnalato quella sera e le cose che avevo sentito e visto nei giorni precedenti e anche gli accorgimenti che credevo dovessero essere introdotti per migliorare le condizioni di lavoro dello staff e degli artisti, senza che lui, il capo, ci rimettesse neppure un franco. E continuai a parlare e Bernardin e l’uomo con i baffi grigi ad un punto si sedettero, uno accanto all’altro e mi ascoltarono senza interrompere mai, mentre monsieur Moreau camminava su e giù come in preda al delirio. Mi sentivo ispirato, ma non euforico; concentrato ma non invasato: le parole mi uscivano di bocca precise, con il tono e il ritmo giusti. Ora non saprei ripetere tutto ciò che esplose dalle mie labbra quel pomeriggio, ma credo di aver detto le cose giuste perché seppi poi che non solo avevo spiegato con chiarezza ma che avevo dimostrato anche una perfetta conoscenza di tutto l’apparato artistico e tecnico del teatro . I mesi trascorsi in ricerca e studio, sempre nel tentativo di migliorare me stesso per essere degno della mia Perle, mi avevano trasformato in un uomo nuovo, pieno di potenzialità e soprattutto di conoscenze non proprio usuali.
Quando ebbi ha terminato il mio monologo ci fu un attimo di tensione: ora la palla doveva per forza passare a Bernardin e già mi chiedevo quale modo avesse scelto per licenziarmi: se dirmelo lì davanti a tutti oppure invitarmi a salire nel suo ufficio e darmi la notizia dopo aver chiuso la porta.
Bernardin sembrava assorto nei suoi pensieri, poi ad un tratto si mise ad applaudire e agli applausi seguì una delle sue fragorose risate. Pensai che mi stesse prendendo in giro, ma poi accadde l’imprevisto:
«Sono stato davvero uno stupido», disse monsieur Bernardin alzandosi in piedi «ero così preso da tutti i cambiamenti che stanno interessando il mondo dell’arte qui a Parigi da dimenticarmi di parlarne con voi, miei cari, di chiedervi come e quanto avremmo potuto portarne un po ‘qui al Crazy Horse. Il nostro ragazzo mi ha fatto capire quanto sia stato stupido, très très stupide! Bon… »si alzò, seguito dall’uomo distinto« Ora mettete per scritto tutte le vostre richieste e in questi giorni le valuterò attentamente. In ogni caso da domani torneremo alle consuete ore di prova e toglieremo dal cartellone i pezzi ei balletti che sono ancora da sviluppare. Li analizzerò con maggiore attenzione e, se sarà il caso, li inseriremo poco alla volta così che tutti possono impararli senza difficoltà. » Si voltò, fece due passi e poi tornò a rivolgersi verso di noi:
«Ah! E parleremo anche di un aumento di stipendio. »
Poi si allontanò ridacchiando e parlottando con il suo ospite, mentre il contabile, alle parole “aumento di stipendio” aveva iniziato a sudare più copiosamente e aveva tirato fuori dalla cartella alcuni fogli che scrutava con viso congestionato trotterellando dietro agli altri due e cercando di non perdere il passo.
Quando Bernardin fu uscito dal salone, tutti salirono sul palco e mi abbracciarono e si congratularono con me, tutti tranne una: Perle. Non che mi aspettassi nulla di diverso da lei, ma la speranza non muore mai, o almeno così dicono.
Bernardin tenne fede alle sue parole e la vita al Crazy Horse cambiò radicalmente, riportando armonia nella nostra grande famiglia. Ma la vita che cambiò più di tutte fu senz’altro la mia.
Una decina di giorni dopo il mio famoso discorso, Bernardin mi chiamò effettivamente nel suo ufficio, ma non per licenziarmi, bensì per presentarmi a mister JB Pay, il suo fantomatico ospite dai baffi grigi. Pay era un impresario teatrale americano e proprietario di night club a New York con la ferma intenzione di espandersi anche nel mondo del cinema; era in Francia per scovare idee e talenti del vecchio continente e il Crazy Horse gli era parso un buon punto di partenza, in quanto ormai a Parigi era diventato uno dei locali di maggior tendenza. Gli serviva qualcuno del nostro ambiente da portare con sé, da cui farsi consigliare e con cui creare un ponte di collegamento fra la prorompenza americana e la sofisticatezza francese, e visto che Bernardin non era ovviamente disponibile, la sua attenzione cadde su di me, che ero giovane, preparato e soprattutto colmo di buone intenzioni. Non disdegnava il fatto che fossi di origini italiane, e, nel suo marcato accento yankee, ripeteva spesso che in questo modo si sarebbe portato a casa non una ma ben due fette della torta europea.
Il mio capo ascoltò in silenzio l’allettante proposta che Mister Pay mi fece, e solo alla fine, cogliendo il mio imbarazzo, ritenne doveroso tranquillizzarmi e mi spiegò che a malincuore mi avrebbe visto andare via dal Crazy Horse, ma che, se quello era il mio desiderio, dovevo cogliere l’occasione e partire. Del resto lui il suo sogno l’aveva realizzato, e ora toccava a me realizzare il mio. Mi vennero concessi sei mesi di tempo per dare una risposta, perché monsieur Bernardin aveva preteso che, visto che sembrava destinato a perdere uno dei suoi migliori collaboratori, chiudessi con lui almeno la stagione invernale. A me stava bene e risposi che entro maggio avrei dichiarato le mie intenzioni. In cuor mio conoscevo già la mia risposta, e quale se non quella di correre a esplorare il magico mondo del cinema americano? Una cosa sola avrebbe potuto trattenermi a Parigi: Perle.
Grazie all’aumento, la mia adorata fu finalmente in grado di affittare una piccola mansarda in Rue de Laborde che condivise con una ballerina olandese dal nome impronunciabile. Nonostante non mi rivolgesse quasi la parola, il suo atteggiamento nei miei confronti era cambiato: adesso la sorprendevo spesso a osservarmi di nascosto e qualche volta, ad un mio saluto, mi rispondeva con un mezzo sorriso. Mister Pay mi incalzava per avere una risposta ed io continuavo a rimandare, e continuavo a dirmi che il giorno dopo avrei affrontato Perle per dichiararmi e per sapere finalmente quali sentimenti lei nutrisse per me, se mai ne nutrisse. Alla fine scelsi come data fatidica il 3 aprile, a un mese esatto dalla mia ipotetica partenza. Avrei atteso pazientemente l’esibizione di Perle e poi le avrei chiesto di seguirmi fuori dal locale e le avrei parlato.
Ma quando arrivai al Crazy Horse tutti i miei castelli si infransero miseramente e la delusione prese il posto dell’euforia: chiesi di Perle e mi dissero che se n’era andata. La mia Perla aveva lasciato il Crazy Horse, la sua vita, la sua famiglia. Perle aveva lasciato me. Corsi da monsieur Bernardin e chiesi spiegazioni: ero concitato, al limite del parossismo, così mi fece sedere, mi versò del Cognac e mi spiegò che il giorno precedente si era presentato in quello stesso studio e, senza motivare, come era abituata a fare da sempre, si era licenziata. Monsieur Bernardin vuotò un bicchiere tutto d’un fiato: era evidente che la decisione di Perle lo aveva sconvolto tanto quanto me, ma con quella donna non c’era verso di ragionare. Ci aveva litigato, aveva fatto tremare i vetri dell’ufficio, ma lei era rimasta impassibile e alla fine della sfuriata aveva semplicemente chiesto che entro una settimana sarebbero stati versati l’ultimo stipendio e la liquidazione e se n’era andata. Neppure la coinquilina sapeva molto di più se non che aveva imballato le sue quattro cose e aveva liberato la sua stanza in giorno stesso in cui aveva rassegnato le sue dimissioni.
Rimanemmo in silenzio per un po ‘, ciascuno di noi tentando di capirci qualcosa: entrambi, in modi diversi, ci sentivamo traditi da una donna che in realtà non era mai stata nostra. Mi alzai, posai il bicchiere sulla scrivania e annunciai a Bernardin che avevo deciso di accettare la proposta dell’americano. Lui svuotò il suo terzo bicchiere e ridacchiò:
«Il Crazy Horse ha appena perso una perle e un buon garzone di pasticceria.»
Sorrisi e uscii dall’ufficio per non aggiungere parole tristi e inutili. Già avrei dovuto spenderne un’infinità per tutti gli amici e colleghi del Crazy Horse e la cosa mi faceva stare male. Ma lo feci, e molti piansero, qualcuno si congratulò, qualcun altro mi invidiò da morire, e io strinsi loro la mano, li abbracciai, e mentii sul fatto che ci saremmo rivisti presto. Non cercai Perle, non avrei saputo da dove iniziare e credo che in ogni caso lei non volesse essere trovata, non da me almeno. Sarebbe rimasta per sempre il primo grande amore della mia vita, il piacevole e doloroso ricordo dei miei anni al Crazy Horse.
Il giorno della partenza ci fu una piccola festicciola nella sala grande e poi Bernardin mi accompagnò all’aeroporto e mi regalò un Fedora e una scatola di sigari, mi abbracciò come si abbraccia un figlio che va a morire in guerra e mi assicurò che sarebbe venuto a trovarmi per carpire qualche segreto hollywoodiano. Versammo qualche lacrima e ci lasciammo. Bernardin sarebbe morto nel 1994 sparandosi alla testa e io non sarei andato al suo funerale.
Trascorsi negli Stati Uniti quasi tutto il resto della mia vita, facendo una più che discreta carriera nel mondo del cinema come regista e sceneggiatore e da ultimo anche come produttore. Nei miei anni americani mi riconciliai anche con la mia famiglia di origine e tornai spesso in Italia, sebbene le visite più lunghe le facessi a Parigi, dagli amici del Crazy Horse. Ebbi tre mogli e quattro figli e, quando, all’età di sessantaquattro anni, rimasi vedovo della terza consorte, decisi di ritirarmi e di acquistare un appartamento a Parigi ovviamente nelVIII arrondissement, il più vicino possibile al Crazy Horse.
La famiglia Bernardin, dopo anni di ulteriori successi che arrivarono nonostante la morte di Alain, nel 2005 aveva deciso di cedere attività. Io avrei avuto abbastanza denaro per rilevarla ma a mancarmi erano le energie: alla calvizie si erano aggiunti artrite e un rene ballerino, che mi costringevano a ritmi più cauti.
Il Crazy Horse passò dunque nelle mani sapienti di Andrée Deissenberg, una imprenditrice che nasceva artista del Cirque du soleil e che di spettacoli fuori dagli schemi si intendeva parecchio. Decisi che il Crazy Horse lo avrei frequentato solo come spettatore, e quando ci rientrai per la prima volta dopo secoli di assenza non riconobbi più niente e nessuno: il vecchio piccolo palco aveva lasciato il posto a una piattaforma più grande, colma di luci automatizzate e di effetti speciali strabilianti; le poltrone rosse ei nuovi tavolini davano un tocco moderno che mi piaceva moltissimo e le musiche erano rinnovate ei numeri avevano dell’incredibile.
L’unica cosa che non era cambiata erano le misure delle ballerine che non mi ero ancora disabituato a calcolare anche da lontano. Erano trascorsi molti anni eppure ogni volta che varcavo quelle porte non potevo non sentire un piccolo soffio al cuore, un rimasuglio di quella speranza che aveva resi vivi i miei anni da garzone del Crazy House e che non era mai scomparsa del tutto. La speranza di vedere sbucare da qualche parte lei, la mia Perle. Ma non la trovai mai, almeno non lì, tra le ballerine del burlesque e le luci della ribalta.
Un paio di mesi fa, in una luminosa mattina estiva, uscii di casa per la consueta passeggiata corroborante lungo gli Champs. Lì, tra gli alberi, un artista di strada suonava la chitarra e intorno a lui si era formato un piccolo capannello di turisti. Ad attrarre la mia attenzione fu una donna anziana, che ballava scompostamente sventolando uno scialle a fiori con frange zingaresche. I lunghi capelli grigi le coprivano il viso e ai piedi portava scarpe logore. La riconobbi per una mossa che l’aveva resa famosa nei suoi ruggenti anni al Crazy Horse: quella era senza ombra di dubbio la mia Perla. Ed ora era lì a rendersi ridicola davanti a quelle persone, agghindata con abiti sgualciti e con i capelli arruffati.
Mi avvicinai e attesi che il chitarrista terminasse la sua performance. Poi afferrai delicatamente il gomito di Perle e la condussi un po ‘in disparte. Lei non oppose resistenza e mi seguì docile, come un cagnolino segue il suo padrone. Le scostai i capelli dal viso e ci scambiammo un lungo sguardo: in quegli occhi, appannati dagli anni e – suppongo – da molte tribolazioni, colsi ancora l’ultimo barlume della sua bellezza.
«Isabelle, che cosa stai facendo?»
«Io non mi chiamo Isabelle, io sono Perle. E ballo. »
«Sei ancora molto brava, sai?»
Perle sorrise e notai che le mancavano molti denti.
«Ti ricordi di me, Perle?»
Lei mi osservò e sorrise ancora, trasognata. Intanto il musicista aveva ripreso a suonare e Perle, senza esitazione, mi lasciò lì, da solo, e tornò a ballare, come una marionetta rotta. In un attimo tutti gli anni trascorsi al Crazy Horse mi passarono davanti agli occhi e la rividi com’era, bella e piena di talento, e compresi che la nostra storia non poteva che finire così: la Perla del Crazy Horse apparteneva ad una ormai vita lontana, e quel che c’era oggi era un’altra storia. Mi sentii sollevato e finalmente libero.
Da quel momento anche per me quella donna sgualcita sarebbe stata solo la “la pazza” degli Champs, ma non le avrei più parlato, non avrei cercato di sapere nulla di lei, non l’avrei più importunata neppure per offrile il mio aiuto. Non ne avevo il diritto.
Oggi è morta Perle, la “pazza” degli Champs-Élysées. E si è conclusa così la più grande storia d’amore della mia vita.
Il racconto è nato nell’ottobre del 2018, dopo aver appreso dai giornali che era appena morta la signora “Anna del Balon”. Anna era una dolce vecchina che, nei suoi abiti logori, ogni tanto si metteva a ballare ea cantare nel bel mezzo del mercato del Balon, a Torino. Tutti la conoscevano, tutti la adoravano. Era famosa quasi quanto la Mole Antonelliana e il Museo Egizio, anche se non compariva nelle guide turistiche. Lei era nel cuore dei torinesi.
La sua storia mi ha fatto riflettere sul fatto che l’arte, quando ti entra dentro, ci resta e diventa la voce delle tue afflizioni.
Naturalmente questo racconto è dedicato ad Anna.
Published: Dec 28, 2020
Latest Revision: Dec 28, 2020
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