Le avventure di Pinocchio by Vitalba Levita - Illustrated by Vitalba Maria Levita - Ourboox.com
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Le avventure di Pinocchio

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Artwork: Vitalba Maria Levita

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Le avventure di Pinocchio by Vitalba Levita - Illustrated by Vitalba Maria Levita - Ourboox.com

I
– C’era una volta …
– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.
– No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.
Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.
Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome Mastr’Antonio, se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura.
Appena maestro Ciliegia ebbe visto quel pezzo di legno, si rallegrò tutto; e dandosi una fregatina di mani per la contentezza, borbottò a mezza voce:
– Questo legno è capitato a tempo; voglio servirmene per fare una gamba di tavolino.

 

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Detto fatto, prese subito l’ascia arrotata per cominciare a levargli la scorza ea digrossarlo; ma quando fu lì per lasciare andare la prima asciata, rimase col braccio sospeso in aria, perché sentì una vocina sottile sottile, che disse raccomandandosi: – Non mi picchiar tanto forte!
Figuratevi come rimase quel buon vecchio di maestro Ciliegia!
Girò gli occhi smarriti intorno alla stanza per vedere di dove mai poteva essere uscita quella vocina, e non vide nessuno!
– Ho capito; – allora ridendo e grattandosi la parrucca – si vede che quella vocina me la son figurata io. Rimettiamoci a lavorare. E ripresa l’ascia in mano, tirò giù un solennissimo colpo sul pezzo di legno.
– Ohi! tu m’hai fatto male! – gridò rammaricandosi la solita vocina.
Questa volta maestro Ciliegia restò di stucco, cogli occhi fuori del capo per la paura, colla bocca spalancata e colla lingua giù ciondoloni fino al mento, come un mascherone da fontana.

Appena riebbe l’uso della parola, cominciò a dire tremando e balbettando dallo spavento:
Questo legno eccolo qui; è un pezzo di legno da caminetto, come tutti gli altri, e a buttarlo sul fuoco, c’è da far bollire una pentola di fagioli … O dunque? Che ci sia nascosto dentro
qualcuno? Se c’è nascosto qualcuno, tanto peggio per lui. Ora l’accomodo io! –
E così dicendo, agguantò con tutte e due le mani quel povero pezzo di legno, e si pose a sbatacchiarlo senza carità contro le pareti della stanza.
Poi si messe in ascolto, per sentire se c’era qualche vocina che si lamentasse. Aspettò due minuti, e nulla; cinque minuti, e nulla; dieci minuti, e nulla!
– Ho capito; – allora disse sforzandosi di ridere e arruffandosi la parrucca – si vede che quella vocina che ha detto ohi, me la son figurata io! Rimettiamoci a lavorare. –
E perché gli era entrata addosso una gran paura, si provò a canterellare per farsi un po ‘di coraggio.
Intanto, posata da una parte l’ascia, prese in mano la pialla, per piallare e tirare a pulimento il pezzo di legno; ma nel mentre che lo piallava in su e in giù, sentì la solita vocina che gli disse ridendo: – Smetti! tu mi fai il pizzicorino sul corpo! –
Questa volta il povero maestro Ciliegia cadde giù come fulminato. Quando riaprì gli occhi, si trovò seduto per terra.
Il suo viso pareva trasfigurito, e perfino la punta del naso, di paonazza come era quasi sempre, gli era diventata turchina dalla gran paura.

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II
Maestro Ciliegia regala il pezzo di legno al suo amico Geppetto, il quale lo prende per fabbricarsi un burattino maraviglioso , che sappia ballare, tirar di scherma e fare i salti mortali.
In quel punto fu bussato alla porta.
– Passate pure, – disse il falegname, senza aver la forza di rizzarsi in piedi.
Allora entrò in bottega un vecchietto tutto arzillo, il quale aveva nome Geppetto; ma i ragazzi del vicinato, quando lo volevano far montare su tutte le furie, lo chiamavano col soprannome di Polendina, a motivo della sua parrucca gialla, che somigliava moltissimo alla polendina di granturco.
Geppetto era bizzosissimo. Guai a chiamarlo Polendina! Diventava subito una bestia, e non c’era più verso di tenerlo.
– Buon giorno, mastr’Antonio, – disse Geppetto. – Che cosa fate costì per terra?
– Insegno l’abbaco alle formicole.
– Buon pro vi faccia.
– Chi vi ha portato da me, compar Geppetto?
– Le gambe. Sappiate, mastr’Antonio, che son venuto da voi, per chiedervi un favore.
– Eccomi qui, pronto a servirvi, – replicò il falegname, rizzandosi su i ginocchi.
– Stamani m’è piovuta nel cervello un’idea.
– Sentiamola.
– Ho pensato di fabbricarmi da me un bel burattino di legno: ma un burattino maraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchier di vino: che ve ne pare?
– Bravo Polendina! – gridò la solita vocina, che non si capiva di dove uscisse.
A sentirsi chiamar Polendina, compar Geppetto diventò rosso come un peperone dalla bizza, e voltandosi verso il falegname, gli disse imbestialito:
– Perché mi offendete?
– Chi vi offende?
– Mi avete detto Polendina! …
– Non sono stato io.
– Sta ‘un po’ a vedere che sarò stato io! Io dico che siete stato voi.
– No!
– Sì!
– No!
– Sì! –
E riscaldandosi sempre più, vennero dalle parole ai fatti, e acciuffatisi fra di loro, si graffiarono, si morsero e si sbertucciarono.
Finito il combattimento, mastr’Antonio si trovò fra le mani la parrucca gialla di Geppetto, e Geppetto si
accòrse di avere in bocca la parrucca brizzolata del falegname.
– Rendimi la mia parrucca! – gridò mastr’Antonio.
– E tu rendimi la mia, e rifacciamo la pace. –
I due vecchietti, dopo aver ripreso ognuno di loro la propria parrucca, si strinsero la mano e giurarono
di rimanere buoni amici per tutta la vita.
– Dunque, compar Geppetto, – disse il falegname in segno di pace fatta – qual è il piacere che
volete da me?
– Vorrei un po ‘di legno per fabbricare il mio burattino; me lo data? –
Mastr’Antonio, tutto contento, andò subito a prendere sul banco quel pezzo di legno che era stato cagione a lui di tante paure. Ma quando fu lì per consegnarlo all’amico, il pezzo di legno dètte uno scossone e sgusciandogli violentemente dalle mani, andò a battere con forza negli stinchi impresciuttiti
del povero Geppetto.

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III
Geppetto, tornato a casa, comincia subito a fabbricarsi il burattino e gli mette il nome di Pinocchio. Prime monellerie del burattino.
La casa di Geppetto era una stanzina terrena, che pigliava luce da un sottoscala. La mobilia non poteva essere più semplice: una seggiola cattiva, un letto poco buono e un tavolino tutto rovinato. Nella parete di fondo si vedeva un caminetto col fuoco acceso; ma il fuoco era dipinto, e accanto al fuoco c’era dipinta una pentola che bolliva allegramente e mandava fuori una nuvola di fumo, che pareva fumo davvero.
Appena entrato in casa, Geppetto prese subito gli arnesi e si pose a intagliare ea fabbricare il suo burattino.
– Che nome gli metterò? – disse fra sé e sé. – Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna. Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina.

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Quando ebbe trovato il nome al suo burattino, allora cominciò a lavorare a buono, e gli fece subito i capelli, poi la fronte, poi gli occhi. Fatti gli occhi, figuratevi la sua maraviglia quando si accòrse che gli occhi si movevano e che lo guardavano fisso fisso. Geppetto, vedendosi guardare da quei due occhi di legno, se n’ebbe quasi per male, e disse con accento risentito:
– Occhiacci di legno, perché mi guardate?
Nessuno rispose.

Allora, dopo gli occhi, gli fece il naso; ma il naso, appena fatto, cominciò a crescere: e cresci, cresci, cresci, diventò in pochi minuti un nasone che non finiva mai.
Il povero Geppetto si affaticava a ritagliarlo; ma più lo ritagliava e lo scorciva, e più quel naso impertinente diventava lungo. Dopo il naso gli fece la bocca.
La bocca non era ancora finita di fare, che cominciò subito a ridere ea canzonarlo.
– Smetti di ridere! – disse Geppetto impermalito; ma fu come dire al muro.
– Smetti di ridere, ti ripeto! – urlò con voce minacciosa.
Allora la bocca smesse di ridere, ma cacciò fuori tutta la lingua.
Geppetto, per non guastare i fatti suoi, finse di non avvedersene, e continuò a lavorare. Dopo la bocca,
gli fece il mento, poi il collo, poi le spalle, lo stomaco, le braccia e le mani.
Appena finite le mani, Geppetto sentì portarsi via la parrucca dal capo. Si voltò in su e che cosa vide?
Vide la sua parrucca gialla in mano del burattino.
– Pinocchio! … rendimi subito la mia parrucca! –
E Pinocchio, invece di rendergli la parrucca, se la messe in capo per sé, rimanendovi sotto mezzo affogato.
A quel garbo insolente e derisorio, Geppetto si fece tristo e melanconico, come non era stato mai in vita sua: e voltandosi verso Pinocchio, gli disse: – Birba d’un figliuolo! Non sei ancora finito di fare, e già cominci a mancar di rispetto a tuo padre! Maschio, ragazzo mio, maschio! –
E si rasciugò una lacrima. Restavano sempre da fare le gambe ei piedi. Quando Geppetto ebbe finito di fargli i piedi, sentì arrivarsi un calcio sulla punta del naso.
– Me lo merito! – allora disse fra sé. – Dovevo pensarci prima! Oramai è tardi!
Poi prese il burattino sotto le braccia e lo posò in terra, sul pavimento della stanza, per farlo camminare.
Pinocchio aveva le gambe aggranchite e non sapeva muoversi, e Geppetto lo conduceva per la mano per insegnargli a mettere un passo dietro l’altro.

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Quando le gambe gli si erano sgranchite, Pinocchio cominciò a camminare da sé e a correre per la stanza; finché, infilata la porta di casa, saltò nella strada e si dètte a scappare.
E il povero Geppetto a corrergli dietro senza poterlo raggiungere, perché quel birichino di Pinocchio andava a salti come una lepre, e battendo i suoi piedi di legno sul lastrico della strada, faceva un fracasso, come venti paia di zoccoli da contadini.
– Piglialo! piglialo! – urlava Geppetto; ma la gente che era per la via, vedendo questo burattino di legno, che correva come un barbero, si fermava incantata a guardarlo, e rideva, rideva e rideva, da non poterselo figurare.
Alla fine, e per buona fortuna, capitò un carabiniere il quale, sentendo tutto quello schiamazzo, e credendo si trattasse di un puledro che avesse levata la mano al padrone, si piantò coraggiosamente a gambe larghe in mezzo alla strada, coll’animo risoluto di fermarlo e d’impedire il caso di maggiori
disgrazie.
Ma Pinocchio, quando si avvide da lontano del carabiniere, che barricava tutta la strada, s’ingegnò di passargli, per sorpresa, framezzo alle gambe, e invece fece fiasco.
Il carabiniere, senza punto smuoversi, lo acciuffò pulitamente per il naso  e lo riconsegnò nelle proprie mani di
Geppetto; il quale, allora lo prese per la collottola, e, mentre lo riconduceva indietro, gli disse tentennando minacciosamente il capo:
– Andiamo subito a casa. Quando saremo a casa, non dubitare che faremo i nostri conti!
Pinocchio, a questa antifona, si buttò per terra, e non volle più camminare. Intanto i curiosi e i bighelloni principiavano a fermarsi lì dintorno ea far capannello.
Chi ne diceva una, chi un’altra.
– Povero burattino! – dicevano alcuni – ha ragione a non voler tornare a casa! Chi lo sa come lo picchierebbe quell’omaccio di Geppetto! … –
E gli altri soggiungevano malignamente:
– Quel Geppetto pare un galantuomo! ma è un vero tiranno coi ragazzi! Se gli lasciano quel povero burattino fra le mani, è capacissimo di farlo a pezzi! … –
Insomma, tanto dissero e tanto fecero, che il carabiniere rimesse in libertà Pinocchio, e condusse in prigione quel pover’uomo di Geppetto. Il quale, non avendo parole lì per lì per difendersi, piangeva come un vitellino, e nell’avviarsi verso il carcere, balbettava singhiozzando:
– Sciagurato figliuolo! E pensare che ho penato tanto a farlo un burattino per bene! Ma mi sta il dovere! Dovevo pensarci prima!

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IV
La storia di Pinocchio col Grillo-parlante, dove si vede come i ragazzi cattivi hanno a noia di sentirsi
correggere da chi ne sa più di loro.
Vi dirò dunque, ragazzi, che mentre il povero Geppetto era condotto senza sua colpa in prigione, quel monello di Pinocchio, rimasto libero dalle grinfie del carabiniere, se la dava a gambe giù attraverso ai campi, per far più presto a tornarsene a casa; e nella gran furia del correre saltava greppi altissimi, siepi di pruni e fossi pieni d’acqua, tale e quale come avrebbe potuto fare un capretto o un leprottino
inseguito dai cacciatori.
Giunto dinanzi a casa, trovò l’uscio di strada socchiuso. Lo spinse, entrò dentro, e appena ebbe messo tanto di paletto, si gettò a sedere per terra, programmare andare un gran sospirone di contentezza. Ma quella contentezza durò poco, perché sentì nella stanza qualcuno che fece:
– Crì-crì-crì!
– Chi è che mi chiama? – disse Pinocchio tutto impaurito.
– Sono io!
Pinocchio si voltò, e vide un grosso grillo che saliva lentamente su su per il muro.
– Dimmi, Grillo, e tu chi sei?
– Io sono il Grillo-parlante, e abito in questa stanza da più di cent’anni.
– Oggi però questa stanza è mia – disse il burattino – e se vuoi farmi un vero piacere, vattene
subito, senza nemmeno voltarti indietro.
– Io non me ne anderò di qui, – rispose il Grillo – se prima non ti avrò detto una gran verità.
– Dimmela e spicciati.
– Guai a quei ragazzi che si ribellano ai loro genitori, e che abbandonano capricciosamente la casa
paterna. Non è mai bene in questo mondo; e prima o poi si pentirsene amaramente.
– Canta pure, Grillo mio, come ti pare e piace: ma io so che domani, all’alba, voglio andarmene di qui, perché se rimango qui, avverrà a me quel che avviene a tutti gli altri ragazzi, vale a dire mi manderanno a scuola, e per amore o per forza mi toccherà a studiare; e io, a dirtela in confidenza, di
studiare non ne ho punto voglia, e mi diverto più a correre dietro alle farfalle ea salire su per gli alberi a prendere gli uccellini di nido.
– Povero grullerello! Ma non sai che, facendo così, diventerai da grande un bellissimo somaro, e che tutti si piglieranno gioco di te? –

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Chetati , Grillaccio del mal’augurio! – gridò Pinocchio.
Ma il Grillo, che era paziente e filosofo, invece di aversi un maschio di questa impertinenza, continua con lo stesso tono di voce:
– E se non ti garba di andare a scuola, perché non impari almeno un mestiere, tanto da guadagnarti onestamente un pezzo di pane?
– Vuoi che te lo dica? – replicò Pinocchio, che cominciava a perdere la pazienza. – Fra i mestieri del mondo non ce n’è che uno solo che veramente mi vada a genio.
– E questo mestiere sarebbe?
– Quello di mangiare, bere, dormire, divertirmi e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo.
– Per tua regola – disse il Grillo-parlante con la sua solita calma – tutti quelli che fanno codesto mestiere, finiscono quasi sempre allo spedale o in prigione.
– Bada, Grillaccio del mal’augurio! … se mi monta la bizza, guai a te!
– Povero Pinocchio! mi fai proprio compassione!
– Perché ti faccio compassione?
– Perché sei un burattino e, quel che è peggio, perché hai la testa di legno.
A queste ultime parole, Pinocchio saltò su tutt’infuriato e preso di sul banco un martello di legno, lo scagliò contro il Grillo-parlante. Forse non credeva nemmeno di colpirlo; ma disgraziatamente lo colse per l’appunto nel capo, tanto che
il povero Grillo ebbe appena il fiato di fare crì-crì-crì, e poi rimase lì stecchito e appiccicato alla parete.

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V

Pinocchio ha fame e cerca un uovo per farsi una frittata;
ma sul più bello, la frittata gli vola via dalla finestra.
Intanto cominciò a farsi notte, e Pinocchio, ricordandosi che non aveva mangiato nulla, sentì un’uggiolina allo stomaco, che somigliava moltissimo all’appetito.
Il povero Pinocchio corse subito al focolare, dove c’era una pentola che bolliva, e fece l’atto di scoperchiarla, per vedere che cosa ci fosse dentro: ma la pentola era dipinta sul muro. Immaginatevi vieni restò. Il suo naso, che era già lungo, gli diventò più lungo almeno quattro dita.
Allora si dètte a correre per la stanza e a frugare per tutte le cassette: ma non trovò nulla, il gran nulla, proprio nulla.
E intanto la fame cresceva e il povero Pinocchio non aveva altro sollievo che quello di sbadigliare.
Allora piangendo e disperandosi, diceva:
– Il Grillo-parlante aveva ragione. Ho fatto male a rivoltarmi al mio babbo ea fuggire di casa … Se il mio babbo fosse qui, ora non mi troverei a morire di sbadigli! Oh! che brutta malattia che è la fame!
Quand’ecco che gli parve di vedere nel monte della spazzatura qualche cosa di tondo e di bianco, che
somigliava tutto a un uovo di gallina. Spiccare un salto e gettarvisi sopra, fu un punto solo. Era un
davvero uovo .
La gioia del burattino è impossibile descriverla: bisogna sapersela figurare. Credendo quasi che fosse
un sogno, si rigirava quest’uovo fra le mani, e lo toccava e lo baciava, e baciandolo diceva:
– E ora come dovrò cuocerlo? Ne farò una frittata! … 
Detto fatto, pose un tegamino sopra un caldano pieno di brace accesa: messe nel tegamino, invece
d’olio o di burro, un po ‘d’acqua: e quando l’acqua principiò a fumare, tac! … spezzò il guscio dell’uovo, e fece l’atto di scodellarvelo dentro.
Ma invece della chiara e del torlo scappò fuori un pulcino tutto allegro e complimentoso, il quale facendo una bella riverenza disse:– Mille grazie, signor Pinocchio, d’avermi risparmiata la fatica di rompere il guscio! Arrivedella, stia bene e tanti saluti a casa!  
Il povero burattino rimase lì, come incantato, cogli occhi fissi, colla bocca aperta e coi gusci dell’uovo in mano. Riavutosi, peraltro, dal primo sbigottimento, cominciò a piangere, a strillare, a battere i piedi in terra per la disperazione.
E perché il corpo gli seguitava a brontolare più che mai, e non sapeva come fare a chetarlo, pensò di uscir di casa e di dare una scappata al paesello vicino, nella speranza di trovare qualche persona caritatevole, che gli facesse l’elemosina di un po ‘di pane.

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VI
Pinocchio si addormenta coi piedi sul caldano,
e la mattina dopo si sveglia coi piedi tutti bruciati.
Per l’appunto era una nottataccia d’inferno. Tonava forte forte, lampeggiava come se il cielo pigliasse fuoco.
Pinocchio aveva una gran paura dei tuoni e dei lampi: se non che la fame era più forte della paura: motivo per cui accostò l’uscio di casa, e presa la carriera, in un centinaio di salti arrivò fino al paese, colla lingua fuori e col fiato grosso.
Ma trovò tutto buio e tutto deserto.  Pareva il paese dei morti.
Allora Pinocchio, preso dalla disperazione e dalla fame, si attaccò al campanello d’una casa, e cominciò a sonare a distesa, dicendo dentro di sé: – Qualcuno si affaccerà.
Difatti si affacciò un vecchino, col berretto da notte in capo, il quale gridò tutto stizzito: – Che cosa volete a quest’ora?
– Che mi fareste il piacere di darmi un po ‘di pane?
– Aspettami costì che torno subito, – rispose il vecchino.
Dopo mezzo minuto la finestra si riaprì, e la voce del solito vecchino gridò a Pinocchio: – Fatti sotto e para il cappello.
Pinocchio si levò subito il suo cappelluccio; ma mentre faceva l’atto di pararlo, sentì pioversi addosso un’enorme catinellata d’acqua che lo annaffiò tutto dalla testa ai piedi.
Tornò a casa bagnato come un pulcino e rifinito dalla stanchezza e dalla fame: e perché non aveva più
forza da reggersi ritto, si pose a sedere, appoggiando i piedi fradici e impillaccherati sopra un caldano pieno di brace accesa. E lì si addormentò; e nel dormire, i piedi che erano di legno gli presero fuoco, e adagio adagio gli si carbonizzarono e diventarono cenere. Finalmente sul far del giorno si svegliò, perché qualcuno aveva bussato alla porta.
– Chi è? – domandò sbadigliando e stropicciandosi gli occhi.
– Sono io! – rispose una voce.
Quella voce era la voce di Geppetto.

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VII

Geppetto torna a casa, e dà al burattino la colazione
che il pover’uomo aveva portata per sé.
Il povero Pinocchio, che aveva sempre gli occhi fra il sonno, non s’era ancora avvisto dei piedi che gli si erano tutti bruciati: per cui appena sentì la voce di suo padre, schizzò giù dallo sgabello per correre a tirare il paletto; ma invece, dopo due o tre traballoni , cadde di picchio tutto lungo disteso sul
pavimento.
– Aprimi! – intanto gridava Geppetto dalla strada.
– Babbo mio, non posso – rispondeva il burattino piangendo e ruzzolandosi per terra.
– Perché non puoi?
– Perché mi hanno mangiato i piedi.
– E chi te li ha mangiati?
– Il gatto – disse Pinocchio, vedendo il gatto che colle zampine davanti si divertiva a far ballare
alcuni trucioli di legno.
– Aprimi, ti dico! – ripeté Geppetto – se no, quando vengo in casa, il gatto te lo do io!
– Non posso star ritto, credetelo. Oh! povero me! povero me, che mi toccherà a camminare coi
ginocchi per tutta la vita! … –
Geppetto, credendo che tutti questi piagnistei fossero un’altra monelleria del burattino, pensò bene di
farla finita, e arrampicatosi su per il muro, entrò in casa dalla finestra.
Da principio voleva dire e voleva fare; ma poi, quando vide il suo Pinocchio sdraiato in terra e rimastosenza piedi davvero, allora sentì intenerirsi; e presolo subito in collo, si dètte a baciarlo ea fargli mille carezze e mille moine , e, coi luccioloni che gli cascavano giù per le gote, gli disse singhiozzando: – Pinocchiuccio mio! Com’è che ti sei bruciato i piedi?
– Non lo so, babbo, ma credetelo che è stata una nottata d’inferno e me ne ricorderò fin che campo.
E il povero Pinocchio cominciò a piangere ea berciare così forte, che lo sentivano da cinque chilometri  lontano.

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Geppetto, che di tutto quel discorso arruffato aveva capito una sola cosa, cioè che il burattino sentiva morirsi dalla gran fame, tirò fuori di tasca tre pere, e porgendogliele, disse:
– Queste tre pere erano la mia colazione: ma io te le do volentieri. Mangiale, e buon pro ti faccia.
– Se volete che le mangi, fatemi il piacere di sbucciarle.
– Sbucciarle? – replicò Geppetto meravigliato. – Non avrei mai creduto, ragazzo mio, che tu fossi
così boccuccia e così schizzinoso di palato. Maschio! In questo mondo, fin da bambini, bisogna avvezzarsi
abboccati ea saper mangiar di tutto, perché non si sa mai quel che ci può capitare. I casi son tanti!
– Voi direte bene – soggiunse Pinocchio – ma io non mangerò mai una frutta, che non sia sbucciata. Le bucce non le posso soffrire.
E quel buon uomo di Geppetto, cavato fuori un coltellino, e armatosi di santa pazienza, sbucciò le tre pere, e pose tutte le bucce sopra un angolo della tavola.
Quando Pinocchio in due bocconi ebbe mangiata la prima pera, fece l’atto di buttar via il torsolo: ma Geppetto gli trattenne il braccio, dicendogli: – Non lo buttar via: tutto in questo mondo può far comodo. – Ma io il torsolo non lo mangio davvero! … – gridò il burattino, rivoltandosi come una vipera. – Chi lo sa! I casi son tanti! … – ripeté Geppetto, senza riscaldarsi. Fatto sta che i tre torsoli, invece di esser gettati fuori dalla finestra, vennero posati sull’angolo della
tavola in compagnia delle bucce. Mangiate o, per dir meglio, divorate le tre pere, Pinocchio fece un lunghissimo sbadiglio e disse piagnucolando:
– Ho dell’altra fame!  Pazienza! – disse Pinocchio, – se non c’è altro, mangerò una buccia.
Da principio storse un po ‘la bocca: ma poi una dietro l’altra, spolverò in un soffio tutte le bucce: e dopo le bucce anche i torsoli, e quand’ebbe finito di mangiare ogni cosa, si batté
tutto contento le mani sul corpo, e disse gongolando:
– Ora sì che sto bene!
– Vedi dunque – osservò Geppetto – che avevo ragione io!

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VIII
Geppetto rifà i piedi a Pinocchio, e vende la propria casacca
per comprargli l’Abbecedario.
Il burattino, appena che si fu levata la fame, cominciò subito a bofonchiare ea piangere, perché voleva un paio di piedi nuovi. Ma Geppetto, per punirlo della monelleria fatta, lo lasciò piangere e disperarsi per una mezza giornata:
poi gli disse:
– E perché dovrei rifarti i piedi? Forse per vederti scappar di nuovo da casa tua?
– Vi prometto – disse il burattino singhiozzando – che da oggi in poi sarò buono …
– Tutti i ragazzi – replicò Geppetto – quando vogliono ottenere qualcosa, dicono così.
– Vi prometto che anderò a scuola, studierò e mi farò onore …
– Tutti i ragazzi, quando vogliono ottenere qualcosa, ripetono la medesima storia.
– Ma io non sono come gli altri ragazzi! Io sono più buono di tutti, e dico sempre la verità. Vi prometto, babbo, che imparerò un’arte, e che sarò la consolazione e il bastone della vostra vecchiaia.
Geppetto che, sebbene facesse il viso di tiranno, aveva gli occhi pieni di pianto e il cuore grosso dalla passione nel vedere il suo povero Pinocchio in quello stato compassionevole, non ha risposto altre parole:
ma, presi in mano gli arnesi del mestiere e due pezzetti di legno stagionato, si pose a lavorare di
grandissimo impegno.
E in meno d’un’ora, i piedi erano bell’e fatti: due piedini svelti, asciutti e nervosi, come se fossero modellati da un artista di genio.

Allora Geppetto disse al burattino:
— Chiudi gli occhi e dormi! —
E Pinocchio chiuse gli occhi e fece finta di dormire. E nel tempo che si fingeva addormentato.
Appena il burattino si accòrse di avere i piedi, saltò giù dalla tavola dove stava disteso, e principiò a fare mille sgambetti e mille capriòle, come se fosse ammattito dalla gran contentezza.

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– Per ricompensarvi di quanto avete fatto per me – disse Pinocchio al suo babbo – voglio subito andare a scuola.
– Bravo ragazzo.
– Ma per andare a scuola ho bisogno d’un po ‘di vestito.
Geppetto, che era povero e non aveva in tasca nemmeno un centesimo, gli fece allora un vestituccio di carta fiorita, un paio di scarpe di scorza d’albero e un berrettino di midolla di pane.
Pinocchio corse subito a specchiarsi in una catinella piena d’acqua e rimase così contento di sé, che disse pavoneggiandosi:
– Paio proprio un signore!
– Davvero, – replicò Geppetto – perché, tienlo a mente, non è il vestito bello che fa il signore, ma è piuttosto il vestito pulito.
– A proposito, – soggiunse il burattino – per andare alla scuola mi manca sempre qualcosa: m i manca l’Abbecedario.
– Pazienza! – gridò Geppetto tutt’a un tratto rizzandosi in piedi; e infilatasi la vecchia casacca di frustagno, tutta toppe e rimendi, uscì correndo di casa. Dopo poco tornò: e quando tornò, aveva in mano l’Abbecedario per il figliuolo, ma la casacca nonl’aveva più. Il pover’uomo era in maniche di camicia, e fuori nevicava.
– E la casacca, babbo?
– L’ho venduta.
– Perché l’avete venduta?
– Perché mi faceva caldo.
Pinocchio capì questa risposta a volo, e non potendo frenare l’impeto del suo buon cuore, saltò al collodi Geppetto e cominciò a baciarlo per tutto il viso.

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IX
Pinocchio vende l’Abbecedario per andare a vedere il teatrino dei burattini.
Smesso che fu di nevicare, Pinocchio, col suo bravo Abbecedario nuovo sotto il braccio, prese la strada
che menava alla scuola.

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Mentre tutto commosso diceva così, gli parve di sentire in lontananza una musica di pifferi e di colpi di
gran cassa.
Si fermò e stette in ascolto. Quei suoni cercavano di fondo a una lunghissima strada traversa, che conduceva a un piccolo paesetto fabbricato sulla spiaggia del mare.
– Che cosa sia questa musica? Peccato che io debba andare a scuola, se no … –
E rimase lì perplesso. A ogni modo, bisognava prendere una risoluzione: oa scuola, oa sentire i pifferi.
– Oggi anderò a sentire i pifferi, e domani a scuola: per andare a scuola c’è sempre tempo – disse .
Quand’ecco che si trovò in mezzo a una piazza tutta piena di gente, la quale si affollava intorno a ungran baraccone di legno e di tela dipinta di mille colori.
– Che cos’è quel baraccone? – domandò Pinocchio, voltandosi a un ragazzetto che era lì del paese.
– Leggi il cartello, che c’è scritto, e lo saprai.
– Lo leggerei volentieri, ma per l’appunto oggi non so leggere.
– Bravo bue! Allora te lo leggerò io. Sappi dunque che in quel cartello a lettere rosse come il fuoco,  c’è scritto: GRAN TEATRO DEI BURATTINI …
– È molto che è incominciata la commedia?
– Comincia ora.
– E quanto si spende per entrare?
– Quattro soldi.
– Vuoi darmi quattro soldi di quest’Abbecedario nuovo?
– Io sono un ragazzo, e non compro nulla dai ragazzi – gli rispose il suo piccolo interlocutore.
– Per quattro soldi l’Abbecedario lo prendo io – gridò un rivenditore di panni usati, che s’era trovato presente alla conversazione.
E il libro fu venduto lì su due piedi. E pensare che quel pover’uomo di Geppetto era rimasto a casa, a tremare dal freddo in maniche di camicia, per comprare l’Abbecedario al figliuolo!

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X
I burattini riconoscono il loro fratello Pinocchio, e gli fanno
una grandissima festa; ma sul più bello, esce fuori il burattinaio Mangiafoco,  e Pinocchio corre il pericolo di fare una brutta fine.
Quando Pinocchio entrò nel teatrino delle marionette, accadde un fatto che destò una mezza rivoluzione.
Bisogna sapere che il sipario era tirato su e la commedia era già incominciata.  Sulla scena si vedevano Arlecchino e Pulcinella, che bisticciavano fra loro e, secondo il solito,
minacciavano da un momento all’altro di scambiarsi un carico di schiaffi e di bastonate.
La platea, tutta attenta, si mandava a male dalle grandi risate, nel sentire il battibecco di quei due  burattini.
Quando all’improvviso, che è che non è, Arlecchino smette di recitare, e voltandosi verso il pubblico e  accennando colla mano qualcuno in fondo alla platea, comincia a urlare in tono drammatico:
– Numi del firmamento! sogno o son desto? Eppure quello laggiù è Pinocchio!
– È Pinocchio davvero! – grida Pulcinella.
– È proprio lui! – strilla la signora Rosaura, facendo capolino di fondo alla scena.
– È Pinocchio! è Pinocchio! – urlano in coro tutti i burattini, uscendo a salti fuori dalle quinte. – È
Pinocchio! È il nostro fratello Pinocchio! Evviva Pinocchio!
– Pinocchio, vieni quassù da me!– grida Arlecchino – vieni a gettarti fra le braccia dei tuoi fratelli di legno!
A questo affettuoso invito, Pinocchio spicca un salto, e di lì schizza sul palcoscenico.

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Questo spettacolo era commovente, non c’è che dire: ma il pubblico della platea, vedendo che la commedia non andava più avanti, s’impazientì e prese a gridare: – Vogliamo la commedia, vogliamo la commedia!
Tutto fiato buttato via, perché i burattini, invece di continuare la recita, raddoppiarono il chiasso e le grida, e, postosi Pinocchio sulle spalle, se lo portarono in trionfo davanti ai lumi della ribalta.
Allora uscì fuori il burattinaio, un omone così brutto, che metteva paura soltanto a guardarlo. All’apparizione inaspettata del burattinaio, ammutolirono tutti: nessuno fiatò più. Si sarebbe sentito volare una mosca. Quei poveri burattini, maschi e femmine, tremavano come tante foglie.
– Perché sei venuto a mettere lo scompiglio nel mio teatro? – domandò il burattinaio a Pinocchio, con un vocione d’Orco gravemente infreddato di testa.
– La creda, illustrissimo, che la colpa non è stata mia!
– Basta così! Stasera faremo i nostri conti.
Difatti, finita la recita della commedia, il burattinaio andò in cucina, dov’egli s’era preparato per cena un bel montone, che girava lentamente infilato nello spiede. E perché gli mancavano le legna per finirlo  di cuocere e di rosolare, chiamò Arlecchino e Pulcinella e disse loro:
– Portatemi di qua quel burattino, che troverete attaccato al chiodo. Mi pare un burattino fatto di un legname molto asciutto, e sono sicuro che, a buttarlo sul fuoco, mi darà una bellissima fiammata all’arrosto.
Arlecchino e Pulcinella da principio esitarono; ma impauriti da un’occhiataccia del loro padrone, obbedirono: e dopo poco tornarono in cucina, portando sulle braccia il povero Pinocchio, il quale, divincolandosi come un’anguilla fuori dell’acqua, strillava disperatamente: – Babbo mio, salvatemi! Non voglio morire, no, non voglio morire! … –

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XI
Mangiafoco starnutisce e perdona a Pinocchio, il quale poi difende dalla morte il suo amico Arlecchino.
Il burattinaio Mangiafoco (ché questo era il suo nome) pareva un uomo spaventoso, ma nel fondo poi non era un cattiv’uomo. Prova ne sia che quando vide portarsi davanti quel povero Pinocchio, che si dibatteva per ogni verso, urlando «Non voglio morire, non voglio morire!», Principiò subito a commuoversi ea impietosirsi; e dopo aver resistito un bel pezzo, alla fine non ne poté più, e lasciò andare un sonorissimo starnuto. A quello starnuto, Arlecchino, che fin allora era stato afflitto e ripiegato come un salcio piangente, si fece 

tutto allegro in viso e chinatosi verso Pinocchio, gli bisbigliò sottovoce:
– Buone nuove, fratello! Il burattinaio ha starnutito, e questo è segno che s’è mosso a compassione per te, e oramai sei salvo.
Dopo avere starnutito, il burattinaio, seguitando a fare il burbero, gridò a Pinocchio:
– Finiscila di piangere! I tuoi lamenti mi hanno messo un’uggiolina qui in fondo allo stomaco … sento
uno spasimo, che quasi quasi … Etcì! Etcì! – e fece altri due starnuti.
– Felicità! – disse Pinocchio.
– Grazie. E il tuo babbo e la tua mamma sono sempre vivi? – gli domandò Mangiafoco.
– Il babbo, sì: la mamma non l’ho mai conosciuta.
– Chi lo sa che dispiacere sarebbe per il tuo vecchio padre, se ora ti facessi gettare fra que ‘carboni
ardenti! Povero vecchio! lo compatisco! … Etcì, etcì, etcì – e fece altri tre starnuti.
– Felicità! – disse Pinocchio.
– Grazie! Del resto bisogna compatire anche me, perché, come vedi, non ho più legna per finire di cuocere quel montone arrosto, e tu, dico la verità, in questo caso mi avresti fatto un gran comodo! Ma ormai mi sono impietosito e ci vuol pazienza. Invece di te, metterò a bruciare sotto lo spiede qualche burattino della mia Compagnia. Olà, giandarmi! – Pigliatemi lì quell’Arlecchino, legatelo ben bene, e poi gettatelo a bruciare sul fuoco. Io voglio che
il mio montone sia arrostito bene!
Pinocchio, alla vista di quello spettacolo straziante, andò a gettarsi ai piedi del burattinaio, e piangendo dirottamente e bagnandogli di lacrime tutti i peli della lunghissima barba, cominciò a dire con voce supplichevole:
– Pietà, signor Mangiafoco! …
– Qui non ci son signori! – replicò duramente il burattinaio.
– Pietà, signor Cavaliere! …
– Qui non ci sono cavalieri!
– Pietà, signor Commendatore! …
– Qui non ci sono commendatori!
– Pietà, Eccellenza! … –
A sentirsi chiamare Eccellenza, il burattinaio fece subito il bocchino tondo, e diventato tutt’a un tratto più umano e più trattabile, disse a Pinocchio:
– Ebbene, che cosa vuoi da me?
– Vi domando grazia per il povero Arlecchino! …
– Qui non c’è grazia che tenga. Se ho risparmiato te, bisogna che faccia mettere sul fuoco lui, perché
io voglio che il mio montone sia arrostito bene.
– In questo caso – gridò fieramente Pinocchio, rizzandosi e gettando via il suo berretto di midolla di pane – in questo caso conosco qual è il mio dovere. Avanti, signori giandarmi! Legatemi e gettatemi là fra quelle fiamme. No, non è giusta che il povero Arlecchino, il vero amico mio, deve morire per
me!

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Mangiafoco, sul principio, rimase duro e immobile come un pezzo di ghiaccio: ma poi, adagio adagio,
cominciò anche lui a commuoversi ea starnutire. E fatti quattro o cinque starnuti, aprì affettuosamente le braccia e disse a Pinocchio: – Tu sei un gran bravo ragazzo! Vieni qua da me e dammi un bacio.
Pinocchio corse subito, e arrampicandosi come uno scoiattolo su per la barba del burattinaio, andò a posargli un bellissimo bacio sulla punta del naso.
– Dunque la grazia è fatta? – domandò il povero Arlecchino, con un fil di voce che si sentiva appena.
– La grazia è fatta! – rispose Mangiafoco: poi soggiunse sospirando e tentennando il capo:
– Pazienza!Per questa sera mi rassegnerò a mangiare il montone mezzo crudo: ma un’altra volta, guai
a chi toccherà! … –
Alla notizia della grazia ottenuta, i burattini corsero tutti sul palcoscenico e, accesi i lumi ei lampadari come in serata di gala, cominciarono a saltare ea ballare. Era l’alba e ballavano sempre.

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Rispondi al seguente sondaggio: “Cosa ne pensi dell’atto di generosità di Pinocchio nei confronti dell’amico Arlecchino?”

 

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XII
Il burattinaio Mangiafoco regala cinque monete d’oro a Pinocchio
perché le porti al suo babbo Geppetto: e Pinocchio,
invece, si lascia abbindolare dal Volpe e dal Gatto e se ne va con loro.
Il giorno dipoi Mangiafoco chiamò in disparte Pinocchio e gli domandò:
– Come si chiama tuo padre?
– Geppetto.
– E che mestiere fa?
– Il povero.
– Guadagna molto?
– Guadagna tanto quanto ci vuole per non aver mai un centesimo in tasca. Si figuri che per comprarmi
l’Abbecedario della scuola dové vendere l’unica casacca che aveva addosso: una casacca che, fra toppe
e rimendi, era tutta una piaga.
– Povero diavolo! Mi fa quasi compassione.Ecco qui cinque monete d’oro. Va ‘subito a portargliele e
salutalo tanto da parte mia.
Pinocchio, com’è facile immaginarselo, ringraziò mille volte il burattinaio: abbracciò, a uno a uno, tutti
i burattini della compagnia, anche i giandarmi; e fuori di sé dalla contentezza, si mise in viaggio per
ritornarsene a casa sua.
Ma non aveva fatto ancora mezzo chilometro, che incontrò per la strada una Volpe zoppa da un piede e
un Gatto cieco da tutt’e due gli occhi che se ne andavano là, aiutandosi fra di loro, da buoni
compagni di sventura. La Volpe, che era zoppa, camminava appoggiandosi al Gatto: e il Gatto, che era
cieco, si lasciava guidare dalla Volpe.
– Buon giorno, Pinocchio – gli disse la Volpe, salutandolo garbatamente.
– Com’è che sai il mio nome? – domandò il burattino.
– Conosco bene il tuo babbo.
– Dove l’hai veduto?
– L’ho veduto ieri sulla porta di casa sua.
– E che cosa faceva?
– Era in maniche di camicia e tremava dal freddo.
– Povero babbo! Ma, se Dio vuole, da oggi in poi non tremerà più! …
– Perché?
– Perché io sono diventato un gran signore.
– Un gran signore tu? – disse la Volpe, e cominciò a ridere di un riso sguaiato e canzonatore: e il
Gatto rideva anche lui, ma per non darlo a vedere, si pettinava i baffi colle zampe davanti.
– C’è poco da ridere – gridò Pinocchio impermalito. – Mi dispiace davvero di farvi venire
l’acquolina in bocca, ma queste qui, se ve ne intendete, sono cinque bellissime monete d’oro.
E tirò fuori le monete avute in regalo da Mangiafoco.
Al simpatico suono di quelle monete, la Volpe per un moto involontario allungò la gamba che pareva
rattrappita, e il Gatto spalancò tutt’e due gli occhi che parvero due lanterne verdi: ma poi li richiuse
subito, tant’è vero che Pinocchio non si accòrse di nulla.
– E ora – gli domandò la Volpe – che cosa vuoi farne di codeste monete?
– Prima di tutto – rispose il burattino – voglio comprare per il mio babbo una bella casacca nuova,
tutta d’oro e d’argento e coi bottoni di brillanti: e poi voglio comprare un Abbecedario per me.
– Per te?
– Davvero: perché voglio andare a scuola e mettermi a studiare a buono.
– Guarda me! – disse la Volpe. – Per la passione sciocca di studiare ho perduto una gamba.
– Guarda me! – disse il Gatto. – Per la passione sciocca di studiare ho perduto la vista di tutti e due
gli occhi.
In quel mentre un Merlo bianco, che se ne stava appollaiato sulla siepe della strada, fece il suo solito
verso e disse:
– Pinocchio, non dar retta ai consigli dei cattivi compagni: se no, te ne pentirai!
Povero Merlo, non l’avesse mai detto! Il Gatto, spiccando un gran salto, gli si avventò addosso, e senza
dargli nemmeno il tempo di dire ohi, se lo mangiò in un boccone, con le penne e tutto.
Mangiato che l’ebbe e ripulitosi la bocca, chiuse gli occhi daccapo, e ricominciò a fare il cieco come
prima.
– Povero Merlo! – disse Pinocchio al Gatto – perché l’hai trattato così male?
– Ho fatto per dargli una lezione. Così un’altra volta imparerà a non metter bocca nei discorsi degli
altri.
Erano giunti più che a mezza strada quando la Volpe, fermandosi di punto in bianco, disse al burattino:
– Vuoi raddoppiare le tue monete d’oro?
– Cioè?
– Vuoi tu, di cinque miserabili zecchini, farne cento, mille, duemila?
– Magari! e la maniera?
– La maniera è facilissima. Invece di tornartene a casa tua, dovresti venir con noi.
– E dove mi volete condurre?
– Nel paese dei Barbagianni.
Pinocchio ci pensò un poco, e poi disse risolutamente:
– No, non ci voglio venire. Oramai sono vicino a casa, e voglio andarmene a casa, dove c’è il mio
babbo che m’aspetta. Chi lo sa, povero vecchio, quanto ha sospirato ieri, a non vedermi tornare. Pur
troppo io sono stato un figliolo cattivo, e il Grillo-parlante aveva ragione quando diceva: «i ragazzi
disobbedienti non possono aver bene in questo mondo». E io l’ho provato a mie spese, perché mi sono
capitate dimolte disgrazie, e anche ieri sera in casa di Mangiafoco, ho corso pericolo … Brrr! mi viene i
bordoni soltanto a pensarci!
– Dunque – disse la Volpe – vuoi proprio andare a casa tua? Allora va ‘pure, e tanto peggio per te.
– Tanto peggio per te! – ripeté il Gatto.
– Pensaci bene, Pinocchio, perché tu dai un calcio alla fortuna.
– Alla fortuna! – ripeté il Gatto.
– I tuoi cinque zecchini, dall’oggi al domani diventati duemila.
– Duemila! – ripeté il Gatto.
– Ma com’è mai possibile che diventino tanti? – domandò Pinocchio, restando a bocca aperta dallo
stupore.
– Te lo spiego subito – disse la Volpe. – Bisogna sapere che nel paese dei Barbagianni c’è un
campo benedetto, chiamato da tutti il ​​Campo dei miracoli. Tu fai in questo campo una piccola buca e ci
metti dentro, per esempio, uno zecchino d’oro. Poi ricopri la buca con un po ‘di terra: l’annaffi con due
secchie d’acqua di fontana, ci getti sopra una presa di sale, e la sera te ne vai tranquillamente a letto.
Intanto, durante la notte, lo zecchino germoglia e fiorisce, e la mattina dopo, di levata, ritornando nel
campo, che cosa trovi? Trovi un bell’albero carico di tanti zecchini d’oro quanti chicchi di grano può
avere una bella spiga nel mese di giugno.
– Sicché dunque – disse Pinocchio sempre più sbalordito – se io sotterrassi in quel campo i miei
cinque zecchini, la mattina trovo quanti zecchini cierei?
– È un conto facilissimo – Rispose la Volpe – un conto che puoi farlo sulla punta delle dita. Poni che
ogni zecchino ti faccia un grappolo di cinquecento zecchini: moltiplica il cinquecento per cinque, e la
mattina dopo ti trovi in ​​tasca duemilacinquecento zecchini lampanti e sonanti.
– Oh che bella cosa! – gridò Pinocchio, ballando dall’allegrezza. – Appena che questi zecchini li
avrò raccolti, ne prenderò per me duemila e gli altri cinquecento di più li darò in regalo a voialtri due.
– Un regalo a noi? – gridò la Volpe sdegnandosi e chiamandosi offesa. – Dio te ne liberi!
– Te ne liberi! – ripeté il Gatto.
– Noi – riprese la Volpe – non lavoriamo per il vile interesse: noi lavoriamo unicamente per
arricchire gli altri.
– Gli altri! – ripeté il Gatto.
– Che persone coraggiose! – pensò dentro di sé Pinocchio: e dimenticandosi lì sul tamburo, del suo babbo,
della casacca nuova, dell’Abbecedario e di tutti i buoni proponimenti fatti, disse alla Volpe e al Gatto:
– Andiamo subito, io vengo con voi.

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XIII
L’osteria del «Gambero Rosso».
Cammina, cammina, cammina, alla fine sul far della sera arrivarono stanchi morti all’osteria del Gambero Rosso.
– Fermiamoci un po ‘qui – disse la Volpe – tanto per mangiare un boccone e per riposarci qualche ora. A mezzanotte poi ripartiremo per essere domani, all’alba, nel Campo dei miracoli.
Entrati nell’osteria, si posero tutti e tre a tavola: ma nessuno di loro aveva appetito.
Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non poté mangiare altro che
trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana: e perché la trippa non gli pareva condita abbastanza, si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio grattato!
La Volpe avrebbe spelluzzicato volentieri qualche cosa anche lei: ma siccome il medico le aveva ordinato una grandissima dieta, così dové contentarsi di una semplice lepre dolce e forte con un leggerissimo contorno di pollastre ingrassate e di galletti di primo canto. Dopo la lepre, si fece portare
per tornagusto un cibreino di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di lucertole e d’uva paradisa; e poi non volle altro. Aveva tanta nausea per il cibo, diceva lei, che non poteva accostarsi nulla alla bocca.
Quello che mangiò meno di tutti fu Pinocchio. Chiese uno spicchio di noce e un cantuccio di pane, e lasciò nel piatto ogni cosa. Il povero figliuolo, col pensiero sempre fisso al Campo dei miracoli, aveva  preso un’indigestione anticipata di monete d’oro.
Quand’ebbero cenato, la Volpe disse all’oste:
– Datemi due buone camere, una per il signor Pinocchio e un’altra per me e per il mio compagno.
Prima di ripartire stiacceremo un sonnellino. Ricordatevi però che a mezzanotte vogliamo essere
svegliati per continuare il nostro viaggio.
– Sissignori – ha risposto l’oste, e strizzò l’occhio alla Volpe e al Gatto, come dire: «Ho mangiata la
foglia e ci siamo intesi! … »
Appena che Pinocchio fu entrato nel letto, si addormentò a colpo e principiò a sognare. E Sognando Gli
pareva di Essere in mezzo a un campo, e this campo era pieno di Arboscelli Carichi di grappoli, e  QUESTI grappoli erano Carichi di zecchini d’oro Che, dondolandosi mossi dal vento, facevano zin, zin » Ma Quando Pinocchio fu sul più bello, quando, cioè, allungò la mano per prendere a manciate tutte quelle belle monete e mettersele in tasca, si trovò svegliato all’improvviso da tre violentissimi colpi dati nella porta di camera.
Era l’oste che veniva a dirgli che la mezzanotte era sonata.
– E i miei compagni sono pronti? – gli domandò il burattino.
– Altro che pronti!Sono partiti due ore fa.
– Perché mai tanta fretta?
– Perché il Gatto ha ricevuto un’imbasciata, che il suo gattino maggiore, malato di geloni ai piedi,
stava in pericolo di vita.
– E la cena l’hanno pagata?
– Che vi pare? Quelle lì sono persone troppo educate, perché facciano un affronto simile alla signoria vostra.
– Peccato! Quest’affronto mi avrebbe fatto tanto piacere! – disse Pinocchio, grattandosi il capo. Poi domandò:
– E dove hanno detto di aspettarmi quei buoni amici?
– Al Campo dei miracoli, domattina, allo spuntare del giorno.

Pinocchio pagò uno zecchino per la cena sua e per quella dei suoi compagni, e dopo partì.
Ma si può dire che partisse a tastoni, perché fuori dell’osteria c’era un buio così buio che non ci si vedeva da qui a lì. Nella campagna all’intorno non si sentiva alitare una foglia. Solamente, di tanto in
tanto, alcuni uccellacci notturni, traversando la strada da una siepe all’altra, due a sbattere le ali
sul naso di Pinocchio, il quale un salto indietro per la paura, gridava: – Chi va là? – e l’eco delle colline circostanti ripeteva in lontananza: – Chi va là? chi va là? chi va là?
Intanto, mentre camminava, vide sul tronco di un albero un piccolo animaletto che riluceva di una luce
pallida e opaca, come un lumino da notte dentro una lampada di porcellana trasparente.
– Chi sei? – gli domandò Pinocchio.
– Sono l’ombra del Grillo-parlante – Rispose l’animaletto con una vocina fioca fioca, che pareva
venisse dal mondo di là.
– Che vuoi da me? – disse il burattino.
– Voglio darti un consiglio. Ritorna indietro e porta i quattro zecchini, che ti sono rimasti, al tuo
povero babbo, che piange e si dispera per non averti più veduto.
– Domani il mio babbo sarà un gran signore, perché questi quattro zecchini diventeranno duemila.
– Non ti fidare, ragazzo mio, di quelli che promettono di farti ricco dalla mattina alla sera. Per il solito
o sono matti o imbroglioni! Dài retta a me, ritorna indietro.
– E io invece voglio andare avanti.
– L’ora è tarda! …
– Voglio andare avanti.
– La nottata è scura …
– Voglio andare avanti.
– La strada è pericolosa …
– Voglio andare avanti.
– Ricordati che i ragazzi che vogliono fare di capriccio ea modo loro, prima o poi se ne pentono.
– Le solite storie. Buona notte, Grillo.
– Buona notte, Pinocchio, e che il cielo ti salvi dalla guazza e dagli assassini.
Appena dette queste ultime parole, il Grillo-parlante si spense a un tratto, come si spenge un lume
soffiandoci sopra, e la strada rimase più buia di prima.

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XIV

— Davvero — disse fra sé il burattino rimettendosi in viaggio — come siamo disgraziati noi altri
poveri ragazzi! Tutti ci sgridano, tutti ci ammoniscono, tutti ci dànno dei consigli. A lasciarli dire, tutti si metterebbero in capo di essere i nostri babbi e i nostri maestri; tutti: anche i Grilli-parlanti. E poi se anche li trovassi qui sulla strada, mi darebbero forse soggezione? Neanche per sogno.

Ma Pinocchio non poté finire il suo ragionamento, perché in quel punto gli parve di sentire dietro di sé
un leggerissimo fruscìo di foglie.
Si voltò a guardare, e vide nel buio due figuracce nere, tutte imbacuccate in due sacchi da carbone, le
quali correvano dietro a lui a salti e in punta di piedi, come se fossero due fantasmi.
— Eccoli davvero! — disse dentro di sé: e non sapendo dove nascondere i quattro zecchini, se li nascose in bocca e precisamente sotto la lingua.
Poi si provò a scappare. Ma non aveva ancora fatto il primo passo, che sentì agguantarsi per le braccia e intese due voci orribili e cavernose, che gli dissero: — O la borsa o la vita! —
Pinocchio non potendo rispondere con le parole, a motivo delle monete che aveva in bocca, fece mille salamelecchi e mille pantomime, per dare ad intendere a quei due incappati, di cui si vedevano soltanto gli occhi attraverso i buchi dei sacchi, che lui era un povero burattino e che non aveva in tasca nemmeno un centesimo falso.

uno di loro afferrò il burattino per la punta del naso e  quell’altro lo prese per la bazza, e lì cominciarono a tirare screanzatamente uno per in qua e l’altro per in là, tanto da costringerlo a spalancare la bocca: ma non ci fu verso. La bocca del burattino pareva inchiodata e ribadita.
Allora l’assassino più piccolo di statura, cavato fuori un coltellaccio, provò a conficcarglielo a guisa di leva e di scalpello fra le labbra: ma Pinocchio, lesto come un lampo, gli azzannò la mano coi denti, e dopo avergliela con un morso staccata di netto, la sputò; e figuratevi la sua meraviglia quando, invece di una mano, si accòrse di avere sputato in terra uno zampetto di gatto.
Incoraggito da questa prima vittoria, si liberò a forza dalle unghie degli assassini, e saltata la siepe della strada, cominciò a fuggire per la campagna. E gli assassini a correre dietro a lui. Dopo una corsa di quindici chilometri, Pinocchio non ne poteva più. Allora, vistosi perso, si arrampicò su per il fusto di un altissimo pino e si pose a sedere in vetta ai rami. Gli assassini tentarono di arrampicarsi anche loro, ma giunti a metà del fusto sdrucciolarono e, ricascando a terra, si spellarono le mani e i piedi. Non per questo si dettero per vinti: ché anzi, raccolto un fastello di legna secche a piè del pino, vi appiccarono il fuoco. Che fare? «Una, due, tre!» gridò il burattino, e slanciandosi con una gran rincorsa, saltò dall’altra parte. E gli assassini saltarono anche loro, ma non avendo preso bene la misura, patatunfete!… cascarono giù nel bel mezzo del fosso. Pinocchio che sentì il tonfo e gli schizzi dell’acqua, urlò ridendo e seguitando a correre:
— Buon bagno, signori assassini! —

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XV
Gli assassini inseguono Pinocchio; e dopo averlo raggiunto,
lo impiccano a un ramo della Quercia grande.
Allora il burattino, perdutosi d’animo, fu proprio sul punto di gettarsi in terra e di darsi per vinto, quando, nel girare gli occhi all’intorno, vide fra mezzo al verde cupo degli alberi biancheggiare in lontananza una casina candida come la neve.
– Se io avessi tanto fiato da arrivare fino a quella casa, forse sarei salvo! – disse dentro di sé.
E senza indugiare un minuto, riprese a correre per il bosco una carriera distesa. E gli assassini sempre dietro.
Dopo una corsa disperata di quasi due ore, finalmente, tutto trafelato, arrivò alla porta di quella casina e bussò.
Nessuno rispose. Tornò a bussare con maggior violenza, perché sentiva avvicinarsi il rumore dei passi e il respiro grosso e affannoso de ‘suoi persecutori. Lo stesso silenzio.
Avvedutosi che il bussare non giovava a nulla, cominciò per disperazione a dare calci e zuccate nella porta. Allora si affacciò alla finestra una bella Bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la quale, senza muover punto le
labbra, disse con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo:
– In questa casa non c’è nessuno. Sono tutti morti.
– Aprimi almeno tu! – gridò Pinocchio piangendo e raccomandandosi.
– Sono morta anch’io.
– Morta? e allora che cosa fai costì alla finestra?
– Aspetto la bara che venga a portarmi via.
Appena detto così, la Bambina disparve, e la finestra si richiuse senza far rumore.
– O bella Bambina dai capelli turchini, – gridava Pinocchio – aprimi per carità. Abbi compassione
di un povero ragazzo inseguito dagli assass … –
Ma non poté finir la parola, perché sentì afferrarsi per il collo, e le solite due vociacce che gli
brontolarono minacciosamente:
– Ora non ci scappi più!
Il burattino, vedendosi balenare la morte dinanzi agli occhi, fu preso da un tremito così forte, che nel tremare, gli sonavano le giunture delle sue gambe di legno ei quattro zecchini che teneva nascosti sotto la lingua.
– Dunque? – gli domandarono gli assassini – vuoi aprirla la bocca, sì o no? Ah! non rispondi?
Lascia fare: ché questa volta te la faremo aprir noi! … –
E cavati fuori due coltellacci lunghi e affilati come rasoi, zaff e zaff …, gli affibbiarono due colpi nel mezzo alle reni.
Ma il burattino per sua fortuna era fatto d’un legno durissimo, motivo per cui le lame, spezzandosi, andarono in mille schegge e gli assassini rimasero col manico dei coltelli in mano, a guardarsi in faccia.
– Ho capito – disse allora un di loro – bisogna impiccarlo! Impicchiamolo!
– Impicchiamolo! – ripeté l’altro.
Detto fatto, gli legarono le mani dietro le spalle, e, passatogli un nodo scorsoio intorno alla gola, lo attaccarono penzoloni al ramo di una grossa pianta detta la Quercia grande.
Poi si posero là, seduti sull’erba, aspettando che il burattino facesse l’ultimo sgambetto: ma il burattino, dopo tre ore, aveva sempre gli occhi aperti, la bocca chiusa e sgambettava più che mai.
Annoiati finalmente di aspettare, si voltarono a Pinocchio e gli dissero sghignazzando:
– Addio a domani. Quando domani torneremo qui, si spera che ci farai la garbatezza di farti trovare
bell’e morto e con la bocca spalancata.
E se ne andarono.
Intanto s’era levato un vento impetuoso di tramontana, che soffiando e mugghiando con rabbia,
sbatacchiava in qua e in là il povero impiccato, facendolo dondolare violentemente come il battaglio d’una campana che suona a festa. E quel dondolìo gli cagionava acutissimi spasimi, e il nodo scorsoio, stringendosi sempre più alla gola, gli toglieva il respiro.
A poco a poco gli occhi gli si appannarono; e sebbene sentisse avvicinarsi alla morte, pure sperava sempre che da un momento all’altro sarebbe capitata qualche anima pietosa a dargli aiuto. Ma quando, aspetta aspetta, vide che non compariva nessuno, proprio nessuno, allora gli tornò in mente il suo povero babbo … e balbettò quasi moribondo:
– Oh babbo mio! se tu fossi qui! … –
E non ebbe fiato per dir altro. Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito.

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XVI
La bella Bambina dai capelli turchini fa raccogliere il burattino:
lo mette a letto, e chiama tre medici per sapere se sia vivo o morto.
La Fatina dai capelli turchini dalla finestra di casa vide il povero Pinocchio impiccato all’albero e se ne impietosì.
Allora batté le mani per richiamare un grosso falco a cui chiese di volare da Pinocchio, di tirarlo giù dall’albero e di appoggiarlo sull’erba.
Poi disse al suo maggiordomo, un Can-barbone, di andare a prenderlo con la carrozza.
Nell’attesa la Fata chiamò tre famosi medici: la Civetta, il Corvo e il Grillo-parlante, che ben conosceva il burattino monello e svogliato!
Quando Pinocchio arrivò, chiese ai tre di visitarlo e di dire se fosse vivo o morto.
I medici avevano pareri contrastanti, ma mentre quelli discutevano si sentì un pianto: era Pinocchio, così a tutti fu chiaro che il burattino era ancora vivo.

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XVII

Pinocchio aveva la febbre e la Fatina decise di dargli una medicina, ma il burattino non la voleva perché era amara e iniziò a fare i capricci. Disse che avrebbe preferito morire piuttosto che berla. Allora arrivarono dei conigli neri che portavano sopra le spalle una bara.
Vedendo questa scena, Pinocchio si spaventò tanto che bevve subito la medicina amara, e presto si sentì meglio.
A quel punto la Fata chiese al burattino di raccontarle cosa fosse successo e allora lui parlò delle monete, ma non disse tutta la verità: ogni volta che diceva una bugia gli si
allungava il naso.
Pinocchio piangeva e si disperava, ma la Fata lo lasciò piangere per una buona mezz’ora prima di chiamare i picchi. Questi cominciarono a beccare il naso del burattino per farlo ritornare alla sua grandezza naturale. Pinocchio avrebbe voluto rimanere con la Fata da capelli turchini, ma era in pensiero per il suo povero babbo. Allora la Fatina lo rassicurò, dicendogli che Geppetto lo avrebbe raggiunto presto, ma il burattino volle andare rincontro al pover uomo.

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XVIII
Pinocchio ritrova la Volpe e il Gatto, e va con loro a seminare le quattro monete nel Campo de ‘  miracoli.

Pinocchio incontrò di nuovo il Gatto e la Volpe che insistettero talmente tanto che lo convinsero ad andare al Campo dei Miracoli.
Dopo aver attraversato una strana città di nome Acchiappa Citrulli, arrivarono al Campo dei Miracoli. Pinocchio allora cominciò a scavare una buca e vi gettò le quattro monete d’oro e le annaffiò con dell’acqua di fontana, proprio come gli avevano detto i due imbroglioni, poi si allontanò.

 

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XIX
Pinocchio è derubato delle sue monete d’oro, e per gastigo, si busca quattro mesi di prigione.

Dopo aver aspettato circa venti minuti, tornò al Campo dei Miracoli, ma non trovò nessuna pianta carica di zecchini!
Un pappagallo tutto spennacchiato gli disse che il Gatto e la Volpe erano due imbroglioni e gli avevano rubato le monete.
Pinocchio, disperato, corse subito in città per denunciare i due ladri, ma il giudice lo mise in carcere.
Dopo quattro mesi finalmente venne rilasciato.

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XX
Liberato dalla prigione, si avvia per tornare a casa della Fata;
ma lungo la strada trova un serpente orribile, e poi rimane preso alla tagliuola.

Pinocchio, tornato libero dalla prigione, si incamminò per tornare alla casa della Fata e durante il cammino si proponeva di cambiare vita e diventare un ragazzo per bene.
Durante il tragitto il burattino, preso dalla fame, entrò in un campo per cogliere dell’uva, ma rimase intrappolato in una tagliola che alcuni contadini avevano piazzato per catturare le
faine, che si mangiavano le galline dei loro pollai.

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XXI
Pinocchio è preso da un contadino, il quale lo costringe a far da can di guardia a un pollajo.

Quando vide Pinocchio, il padrone del campo lo prese e lo costrinse a fare il cane da guardia nel suo pollaio.
Pinocchio fu costretto a indossare il collare e venne legato con un guinzaglio. Ancora una volta il burattino si pentì del suo comportamento da ragazzo svogliato e pensò che se fosse
rimasto a casa con il suo babbo, tutto quello non sarebbe successo.

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XXII
Pinocchio scuopre i ladri, e in ricompensa di essere stato fedele vien posto in libertà.

Dopo due ore di sonno, Pinocchio fu svegliato da quattro faine che gli proposero un accordo: loro avrebbero rubato otto galline e ne avrebbero lasciate due a lui in cambio del suo silenzio.
Il burattino non si fece convincere e, quando le faine entrarono in azione, iniziò ad abbaiare, svegliando il contadino che finalmente catturò le ladre.
Per premiare l’onestà e la correttezza di Pinocchio, il contadino gli ridiede la libertà.

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XXIII
Pinocchio piange la morte della bella Bambina dai capelli turchini: poi trova un Colombo, che lo porta sulla riva del mare, e lì si getta nell’acqua per andare in aiuto del suo babbo Geppetto.

Appena Pinocchio non sentì più il peso del collare intorno al collo, si mise a correre verso la casa della Fatina.
Quando arrivò, dove una volta c’era la casina bianca, trovò una lapide di marmo: quella era la tomba della Fata dai capelli turchini, morta di dolore per essere stata abbondonata da
Pinocchio.
Il burattino era disperato, cadde in ginocchio e si mise a piangere.
Un grosso colombo che volava sopra di lui lo riconobbe e gli disse che Geppetto era sulla spiaggia a costruirsi una barchetta per girare il mondo per cercare proprio lui, Pinocchio.
Il colombo lo fece salire sulla sua groppa ei due si diressero verso la spiaggia.
La spiaggia era piena di gente e il burattino chiese a una vecchina che cosa fosse successo;la vecchina spiegò che c’era un povero babbo su una barchetta in mezzo al mare che stava
cercando il suo figliolo.
Pinocchio dalla spiaggia riconobbe Geppetto e lo chiamò, anche Geppetto lo riconobbe.
In quel momento arrivò una grossa ondata e la barca sparì nel mare.
Pinocchio si buttò in acqua perché voleva salvare il suo babbo.
I pescatori dalla riva videro sparire anche lui, dissero una preghiera e tornarono alle loro case.

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XXIV
Pinocchio arriva all’isola delle «Api industriose» e ritrova la Fata.

Pinocchio nuotò e nuotò per tutta la notte, ma del suo babbo non trovò tracce.
Egli riuscì solo a scorgere un’isola in lontananza e con tutte le sue forze la raggiunse.
Non sapendo dove andare, il burattino chiese a un cordiale delfino se ci fosse un villaggio su quell’isola. Il mammifero annuì e gli spiegò come raggiungerlo.
Pinocchio arrivò al villaggio ed essendo molto affamato e assetato, chiese l’elemosina ad alcuni abitanti. Questi però non diedero nulla al superbo burattino che non era disposto a fare nessuna fatica per avere ciò che chiedeva.
Solo una gentil donna aiutò Pinocchio, ospitandolo in casa sua e dandogli del cibo e da bere.
Dopo che egli fu sazio, il burattino alzò lo sguardo dal piatto e capì che quella donna era la Fata Turchina.

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XXV
Pinocchio promette alla Fata di esser buono e di studiare,
perché è stufo di fare il burattino e vuol diventare un bravo ragazzo.

Pinocchio si commosse nel rivederla, e le promise che da quel momento in poi sarebbe stato un ragazzo perbene, che sarebbe andato a scuola e che avrebbe imparato un mestiere.

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XXVI
Pinocchio va co ‘i suoi compagni di scuola in riva al mare,
per vedere il terribile Pesce-cane.

Il giorno dopo Pinocchio iniziò a frequentare la scuola.
All’inizio i compagni lo prendevano in giro: lui in fondo era un burattino!
Col passare del tempo Pinocchio ottenne la stima e la simpatia di tutti i compagni e non solo: anche il maestro lo elogiava perché, impegnandosi, era diventato attento e studioso.
La Fata e il Maestro gli raccomandavano sempre di non seguire quei compagni che non pensavano allo studio ma solo al gioco e al divertimento, ma Pinocchio li rassicurava: ormai
era diventato un burattino per bene.
Una mattina Pinocchio venne fermato dai suoi compagni pigri e svogliati. Essi volevano andare alla spiaggia perché avevano sentito che c’era un Pesce-cane, e volevano convincere
Pinocchio ad andare con loro.
Il burattino, però, voleva andare a scuola! Alla fine Pinocchio cominciò a correre velocemente verso la spiaggia, con l’intenzione di ritornare altrettanto velocemente verso la scuola.
Non poteva immaginare che stava per cacciarsi nuovamente nei guai!

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XXVII
Gran combattimento fra Pinocchio ei suoi compagni: uno de ‘quali essendo rimasto ferito, Pinocchio viene arrestato dai carabinieri.

Arrivato alla spiaggia, Pinocchio non vide nessun Pesce-cane e chiese spiegazioni ai compagni che gli risposero che il loro era stato uno scherzo.
Il burattino non capiva il perché di tale gesto e quelli risposero che lui, essendo uno scolaro bravo e diligente, li faceva sfigurare. 
I compagni gli proposero anche di smettere di studiare, ma Pinocchio non li volle ascoltare e così iniziò un brutto litigio.
I monelli ad un certo punto presero a lanciargli i libri, e un libro di Pinocchio colpì Eugenio che svenne.
Tutti scapparono, mentre il burattino aiutò il povero ragazzo che però non si svegliava.
Passavano di lì due carabinieri che, vedendo la scena e interrogando il burattino, lo ritennero colpevole e lo arrestarono, mentre Eugenio fu affidato alle cure di alcuni pescatori.
Mentre camminavano verso il paese, Pinocchio era molto preoccupato: il pensiero di essere visto dalla sua buona Fatina lo faceva stare male. Erano già arrivati ​​e stavano per entrare in paese, quando una folata di vento strapazzone levò di testa a Pinocchio il berretto, portandoglielo lontano una diecina di passi.
– Si contentano – disse il burattino ai carabinieri – che vada a riprendere il mio berretto?
– Vai puro; ma facciamo una cosa lesta.
Il burattino andò, raccattò il berretto … ma invece di metterselo in capo, se lo mise in bocca fra i denti, e
poi cominciò a correre di gran carriera verso la spiaggia del mare. Andava via come una palla di fucile.
I carabinieri, giudicando che fosse difficile raggiungerlo, gli aizzarono dietro un grosso cane mastino, che aveva guadagnato il primo premio a tutte le corse dei cani. Pinocchio correva, e il cane correva più di lui: per cui tutta la gente si affacciava alle finestre e si affollava in mezzo alla strada, ansiosa di veder la fine di un palio così inferocito.

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XXVIII
Pinocchio corre pericolo di esser fritto in padella, come un pesce.

Pinocchio, che non mancava certo di velocità, riuscì a raggiungere la spiaggia ea buttarsi in mare.
Anche il cane si ritrovò in acqua e, non sapendo nuotare, chiedeva a Pinocchio di aiutarlo, in cambio lo avrebbe lasciato scappare.
Il burattino che nonostante tutto aveva un cuore buono, lo aiutò.
I due si separarono e Pinocchio senza volerlo si ritrovò ancora una volta nei guai: cadde nella rete di un pescatore che, scambiatolo per un pesce parlante, lo voleva cucinare.

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XXIX
Ritorna a casa della Fata, la quale le promette che il giorno dopo non sarà più un burattino, ma diventerà un ragazzo. Gran colazione di caffè-e-latte per festeggiare questo grande avvenimento.

Era già tutto infarinato e pronto per essere gettato nell’olio bollente, quando il Can mastino lo liberò, ricambiando così il favore precedentemente ricevuto.
Ancora una volta i due si separarono e Pinocchio venne a sapere da alcuni pescatori che il povero Eugenio non era morto, anzi si era ripreso ed era tornato a casa.
Così anche il burattino, pieno di vergogna e di timore, decise di tornare a casa dalla sua Fatina dai capelli turchini. Coperto solo da un sacco, in piena notte si ritrovò davanti all’abitazione e dopo non poco indugiare si decise e bussò. Dovette attendere tutta la notte sulla porta e attese anche la mattina seguente.
La Fata ancora una volta lo perdonò e Pinocchio ancora una volta promise che avrebbe studiato e che si sarebbe comportato bene.
Questa volta il burattino mantenne la parola data: ebbe l’onore di essere il più bravo della scuola!
La fata così gli promise che avrebbe esaudito il suo grande desiderio: il giorno dopo ci sarebbe stata una gran festa in occasione della quale lo avrebbe trasformato in un ragazzo.

 

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XXX
Pinocchio, invece di diventare un ragazzo, parte di nascosto col suo amico Lucignolo per il «Paese dei balocchi».

Pinocchio chiese alla Fata il permesso di andare a invitare i suoi compagni per la festa del giorno dopo. La Fata acconsentì, ma gli ricordò di rincasare prima che diventasse buio.
In poco più di un’ora tutti i suoi amici furono invitati, rimaneva il suo amico prediletto: Lucignolo.
Lucignolo era il ragazzo più svogliato di tutta la scuola, ma Pinocchio gli voleva un gran bene.
Il burattino lo trovò nascosto: stava aspettando un carro che lo avrebbe portato nel Paese dei Balocchi. Sarebbe arrivato a mezzanotte carico di altri ragazzi e li avrebbe portati nel più bel paese del mondo, dove non vi erano né scuole né maestri né libri.
Lucignolo invitò l’amico ad andare con lui.
Pinocchio inizialmente disse di voler tornare a casa, per studiare e farsi onore come tutti i
ragazzi perbene; poi decise di aspettare per fare compagnia all’amico; alla fine, quando il
carro arrivò, vi salì, dimenticando tutte le promesse che aveva fatto alla Fatina dai capelli
turchini.
Il carro era pieno ed era trainato da ventiquattro ciuchini che, invece di essere ferrati,
indossavano stivali da uomo. Il conducente, un simpatico uomo più largo che lungo, fece
montare Pinocchio sopra a un ciuchino.
Il burattino durante il viaggio sentiva una voce che piangeva, che si lamentava, che lo
ammoniva a non fare i suoi stessi sbagli, che gli ricordava che i ragazzi che lasciavano la
scuola alla ricerca del divertimento non collegato che fare una fine disgraziata.
Pinocchio era spaventato e lo divenne ancor di più quando comprese che a pronunciare
quelle parole era l’asino che lui cavalcava.
Sul far dell’alba, finalmente arrivarono nel Paese dei Balocchi e tutti i brutti pensieri
svanirono.

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XXXI
Dopo cinque mesi di cuccagna, Pinocchio con sua gran maraviglia, sente spuntarsi un bel pajo d’orecchie asinine,
e diventa un ciuchino, con la coda e tutto.

Il Paese de Balocchi non assomigliava a nessun altro paese: gli abitanti avevano tra gli otto e i quattordici anni e tutti giocavano, si divertivano e urlavano.
Subito Pinocchio, Lucignolo e gli altri bambini che erano saliti sul carro si unirono a quella allegra compagnia.
Pinocchio si divertiva moltissimo e non perdeva occasione per ringraziare Lucignolo per averlo convinto ad andare in quel bellissimo paese.
E così i mesi passavano veloci e felici.

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XXXII
A Pinocchio gli vengono gli orecchi di ciuco,
e poi diventa un ciuchino vero e comincia a ragliare.

Un giorno però Pinocchio svegliandosi e specchiandosi nell’acqua scoprì di avere la febbre del somaro: gli erano cresciute le orecchie a dismisura e pian piano si sarebbe trasformato in un ciuchino.
Pinocchio si spaventò moltissimo e andò a cercare il suo amico Lucignolo, ma fu sollevato quando capì che anche l’amico si era ammalato della stessa malattia!
Così entrambi vennero presi dall’omino del carro, condotti sulla piazza e messi in vendita: due giovani ciuchini portato all’uomo un discreto guadagno.

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XXXIII
Diventato un ciuchino vero, è portato a vendere,
e lo compra il Direttore di una compagnia di pagliacci,
per insegnargli a ballare ea saltare i cerchi:
ma una sera azzoppisce e allora lo ricompra un altro,
per far con la sua pelle un tamburo .

I compratori non si fecero aspettare: Pinocchio fu venduto al direttore di una compagnia di saltatori di corda e di pagliacci.
Il ciuchino fu addestrato per uno spettacolo, e per amore e per forza, dovette imparare.
Pinocchio si ripeteva continuamente che quella era stata la sua cattiva sorte, ma sperava che almeno la sua disgrazia poteva servire da lezione a tutti i ragazzi disubbidienti e
senza voglia di studiare.
Dopo tre mesi di lezione e molte frustate, venne il giorno dello spettacolo: c’erano manifesti dappertutto che pubblicizzavano il numero del ciuchino Pinocchio.
Alla sera il teatro si riempì di persone.
Il direttore del circo agghindò Pinocchio, lo fece entrare e lo presentò al pubblico, e tutti
applaudirono la sua esibizione.
All’improvviso Pinocchio riconobbe la sua Fatina tra il pubblico e cercò di chiamarla, ma fu
solo capace di ragliare! Quando rivolse lo sguardo nuovamente verso il palco, la Fatina era
sparita.
Il ciuchino Pinocchio continuò il suo numero, ma cadde e si fece male: sarebbe rimasto zoppo
per tutta la vita!
Il direttore lo portò in piazza per rivenderlo e qui trovò subito un compratore: era un uomo che
voleva fare un tamburo con la sua pelle.
E così il ciuchino Pinocchio venne gettato in acqua con un sasso al collo.

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XXXIV
Pinocchio, gettato in mare, è mangiato dai pesci
e ritorna ad essere un burattino come prima:
ma mentre nuota per salvarsi, è ingojato dal terribile Pesce-cane.

Dopo aver aspettato parecchi minuti, l’uomo decise di tirare fuori il ciuchino dall’acqua e vide che si era trasformato in un burattino di legno.
Pinocchio, dopo avergli raccontato che alcuni pesci avevano mangiato tutto il suo corpo asinino e ritenendo che ciò fosse merito della fata, si liberò dalla presa dell’uomo e si gettò in
acqua.
Dopo essersi allontanato nuotando, decise di raggiungere uno scoglio, ma un Pesce-cane lo divorò.
All’interno dello stomaco del mostro Pinocchio conobbe un tonno che ad un certo punto salutò, perché aveva visto una luce e voleva scoprire che cosa fosse.

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XXXV
Pinocchio ritrova in corpo al Pesce-cane … chi ritrova?
Leggete questo capitolo e lo saprete.

Pinocchio si avviò verso il debole chiarore che scorgeva in lontananza.
Si trattava della luce di una candela posta sopra ad un tavolo e, con grande stupore, il burattino scoprì che a quel tavolo sedeva proprio Geppetto.
Felicissimi di rivedersi, i due si abbracciarono a lungo e Pinocchio raccontò al suo babbo tutte le sue disgrazie, e per ultima cosa gli raccontò di averlo visto inghiottito dal mare in tempesta.
Geppetto raccontò a Pinocchio che anche lui lo aveva riconosciuto prima di essere travolto dalle onde. Si trovava lì dentro da almeno due anni: il grosso pesce-cane l’aveva inghiottito insieme ad un bastimento carico di cibarie grazie alle quali era riuscito a sopravvivere.
I viveri però stavano finendo e Geppetto si era ormai rassegnato a morire, ma Pinocchio non si arrese e lo convinse a fuggire.
Grazie al chiarore dell’ultima candela rimasta, i due tentarono la fuga, salendo su per la gola del pesce che dormiva profondamente. Arrivarono sulla sua lingua e prima di saltare nel mare, Pinocchio prese Geppetto sulle sue spalle.
Il mare era tranquillo e il burattino cominciò a nuotare.
Non senza fatica e grazie all’aiuto del tonno, i due finalmente raggiunsero la riva: erano salvi!

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XXXVI
Finalmente Pinocchio cessa d’essere un burattino e diventa un ragazzo.

Pinocchio porse il suo braccio a Geppetto, e insieme si avviarono alla ricerca di un’anima buona che offrisse loro ospitalità e un boccone di pane.
Lungo la strada incontrarono il Gatto e la Volpe che si erano ridotti a mendicare; il burattino non si fece impietosire e disse loro che si erano meritati quella amara sorte.
Finalmente padre e figlio trovarono una bella capanna: era la casa del Grillo-parlante.
Pinocchio lo supplicò perché avesse pietà del suo povero babbo e il Grillo gli fece notare che, sebbene con lui in passato fosse stato molto sgarbato, avrebbe comunque ricevuto ospitalità.
Inoltre disse a Pinocchio dove poteva trovare qualcosa da mangiare, e così il burattino iniziò a lavorare presso un ortolano.
Ogni giorno Pinocchio faticava come non aveva mai fatto in vita sua per mantenere Geppetto, che nel frattempo iniziava a rimettersi in salute, e la sera si esercitava a leggere ea scrivere: non sembrava proprio più il burattino di una volta.
Erano passati più di cinque mesi quando, andando al mercato per comprarsi un vestito nuovo, Pinocchio incontrò una lumaca che sapeva essere al servizio della buona Fata dai
capelli turchini. Quella gli raccontò che la Fatina era in ospedale gravemente malata e ridotta in povertà. Il burattino non esitò: diede all’animale tutti i suoi risparmi e si offrì di lavorare ancora di più per mantenere anche la sua buona Fata.
Quella notte Pinocchio fece uno strano sogno: la Fatina lo elogiava per aver assistito Geppetto e lo perdonava per tutte le sue monellerie.
Quando la mattina dopo si svegliò, si accorse subito che era diventato un bambino e, guardandosi attorno, vide il vecchio Pinocchio di legno, immobile, appoggiato a una sedia.
Anche Geppetto non era più un vecchio malato: era tornato in salute e aveva ripreso la sua professione di intagliatore.
Pinocchio lo abbracciò e il suo babbo gli disse che quel cambiamento improvvisato era tutto merito suo, perché quando i ragazzi da cattivi diventano buoni hanno la virtù di prendere un aspetto nuovo e sorridente anche all’interno delle loro famiglie.

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